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I migranti di via del Gaggian: vite nel limbo alla periferia di Mestre

Storia di una accoglienza indegna

Via del Gaggian è uno sterrato che corre a ridosso dell’argine del canal di San Giuliano. Siamo nel quartiere residenziale della Cipressina. Solo 5 minuti d’auto dal centro di Mestre e già si respira aria di campagna. Le case, tutte piuttosto ariose, sono sparse nel verde di giardini sobriamente curati, tra siepi di bosso e spazi destinato ad orto.
Il civico numero 22 si trova proprio in fondo alla strada. Per passarci davanti bisogna proprio andarci apposta e vien da chiedersi se non sia proprio questo uno dei motivi che lo hanno fatto scegliere come casa di accoglienza per i profughi.
La nostra storia comincia quando scoppia la guerra civile in Libia. E’ il febbraio del 2011. Una dopo l’altra, le città lealiste cadono in mano ai ribelli, ma intanto le milizie del Colonnello si abbandonano ad inaudite violenze nei confronti della popolazione civile e di chi rifiuta di indossare la loro divisa. A farne le spese sono anche molti lavoratori provenienti dai Paesi sub sahariani. Questi ultimi, considerati già “inferiori” rispetto ai libici prima del conflitto, durante la guerra civile vengono perseguitati e uccisi sia dalle milizie di Gheddafi che dai ribelli o perché rifiutano di arruolarsi nelle milizie o con la comune accusa di essere dei mercenari al soldo dell’altra fazione. Per chi non gode di amicizie locali comincia una spietata caccia all’uomo. Molti di loro sono quindi costretti a cercare riparo in Europa. Sono vite in perenne fuga. Profughi due volte, potremmo dire. Prima cacciati dal loro Paese natio dalla fame e dalla miseria, poi costretti ancora alla fuga dalla Libia in guerra. Eppure in Italia tiene banco la questione se sia il caso di concedere loro o no lo status di rifugiati, perché come aveva dichiarato un deputato della Lega nord “non sono libici e perciò non centrano niente con quella guerra. Cosa vogliono da noi?” Il dibattito che si scatena nel nostro Paese è semplicemente indecoroso. Ancora si grida all’emergenza, ancora si invocano filtri di ingresso. Ancora il Governo intensifica una inutile presenza dell’esercito e della marina militare alle frontiere sud. I giornali ironizzano sulle scarpe di marca indossate da alcuni profughi, senza considerare che molti di loro, prima dello scoppio del conflitto, avevano impieghi regolarmente retribuiti nelle aziende di estrazione del gas o del petrolio e che di “grandi firme” taroccate a regola d’arte sono pieni tutti i mercati d’Africa.
Tra Italia ed Europa si scatena uno scaricabarile vergognoso su chi debba prendersi cura di questi profughi. La stessa Italia e la stessa Europa che per decenni hanno seguito una politica di cieca collaborazione con il sanguinoso regime del Colonnello Muammar Gheddafi.
Alla fine, siamo nel mese di aprile, il Ministero dell’Interno vara il programma chiamato “Emergenza Nord Africa”. Ma l’accoglienza che il nostro Governo prepara, con Silvio Berlusconi presidente e Roberto Maroni ministro dell’Interno, parte da presupposti sbagliati. In piena ottica emergenziale (come dice lo stesso nome) e securitaria, a coordinare il tutto è la Protezione civile cui spetta il compito di affidare alle prefetture o agli assessorati regionali l’incarico di responsabili del piano di accoglienza.
Nel Veneto come nella Lombardia, il cosiddetto “soggetto attuatore” viene individuato, dopo varie vicissitudini politico-istituzionali, nel Prefetto secondo il principio – sbagliato – che le migrazioni siano fondalmentalmente solo un problema di ordine pubblico, e senza considerare che i prefetti non sono preparati ad affrontare una tale questione sociale. Le rivolte dei sindaci e dei presidenti delle Provincie, in particolare di quelli del Carroccio, che si dichiarano assolutamente indisponibili ad ospitare questi migranti nel loro Comune, vengono subito smorzate dai finanziamenti che il Governo stanzia per l’accoglienza. Appare subito chiaro che i profughi sono un affare. Portano “schei” come si dice nel Veneto. Bisogna anche tener presente che non vengono emanati bandi né stabiliti criteri per selezionare chi può ospitare i profughi. Alla fine inoltre, non vengono nemmeno richieste pezze giustificative, Niente regole, tanta emergenza, tantissimi soldi. Una affare da 46 euro al giorno a migrante. Finché dura…

Accoglienza degna? No grazie!
Business e discriminazioni. L’ “affare profughi” procede a livello nazionale con pratiche di accoglienza – o meglio dire di detenzione – in deroga all’ordinamento giuridico (basti pensare a quanto accaduto in luoghi come Manduria) e tutto questo va a braccetto con campagne politico-mediatiche imperniate sulla retorica della paura e dell’invasione.
In questo panorama desolante, Venezia prova a tracciare una rotta diversa. nel maggio del 2011 la rete “Tutti i diritti umani per tutti” cui partecipa pressoché l’intero arcipelago associativo e movimentista della città, lancia la campagna Welcome e propone un piano di accoglienza degna. Le sigle e i nomi che aderiscono sono tanti. Partecipano comitati, associazioni, spazi sociali e sindacati. Ricordiamo, tra le varie realtà, Emegency che offre una copertura sanitaria gratuita, l’Arci e la Cgil che mettono a disposizione la mensa, la cooperativa Caracol che offre posti letto, la scuola Liberalaparola del Rivolta che propone corsi di italiano… Una accoglienza dal basso, professionale e assolutamente gratuita. “Non rifiutiamo il denaro che il Governo ha stanziato – dichiarano i portavoce in una conferenza stampa – ma non ne terremo un centesimo per noi. Consegneremo tutto ai migranti”.
La Prefettura di Venezia non prende neppure in considerazione la proposta e, nonostante le tante richieste, non degnerà le associazioni neppure di una risposta, sia pure negativa.
Appare subito chiaro che la Prefettura vuole trattare direttamente con la Caritas che a Venezia gestisce quasi tutto il “mercato del bisogno”. Non servono bandi d’asta o altri orpelli democratici o consultivi perché, come abbiamo già detto, tutta la questione è trattata sotto l’utile spinta dell’emergenza. Più o meno come funziona con le Grandi Opere!
Ed è proprio la Caritas presieduta da don Dino Pistolato che si pappa la fetta più grande della torta, anche grazie alle pressioni del Ministero che preme per soluzioni immediate e garantite.
Ma non avendo spazi sufficienti e guardandosi bene dal prendere in considerazione i posti letto che la Caracol avrebbe messo gratuitamente a disposizione, l’ente decide nella fase di “prima accoglienza” – durante l’estate 2011 – di parcheggiare molti dei migranti al porto di Marghera e in particolare all’interno di un capannone isolato dal resto della città costringendoli per settimane e anche mesi a dormire stando ammassati e senza avere dagli operatori Caritas alcun supporto.

Di male in peggio
Dopo questa prima fase di accoglienza assolutamente inadeguata, la Caritas decide di stipulare una serie di contratti d’affitto con appartamenti di privati e case di proprietà di altri enti, per la maggior parte della sfera cattolica. Quasi centocinquanta migranti gestiti dalla Caritas in provincia (più della metà del totale) vengono quindi alloggiati in una mezza dozzina di appartamenti situati in via Martiri della Libertà, via Ca’ Marcello, a Spinea. Alcuni anche a Venezia, nelle struttura chiamata le Muneghete di proprietà dell’Ire, Istituto Ricovero ed Educazione, altri in un albergo a Chioggia e in un ostello a Giare di Mira, sulla Romea.
Il nucleo più grosso, 24 persone, viene alloggiato proprio in questo stabile di via del Gaggian di cui abbiamo detto in apertura e che l’Opera Santa Maria della Carità gli affitta per la cifra non propriamente regalata di 12 mila euro al mese per due anni.
Altri migranti vengono dirottati verso altri enti come la Opere Riunite Buon Pastore i cui dipendenti sono “soci” della cooperativa “Il Lievito” che ha come presidente don Dino Pistolato, oppure la Fondazione Groggia che offre asilo ad alcuni minori e che ha pure lei come presidente don Pistolato, oppure la fondazione Mariport dove don Pistolato è solo nel consiglio di amministrazione. Ma il più, come abbiamo detto, viene assorbito dalla Caritas presieduta da don Dino Pistolato. Per completezza, bisogna segnalare che anche a Jesolo l’accoglienza non è stata un fiore all’occhiello e qui la Caritas non c’entra perché la gestione è andata alla Croce Rossa.
Ma torniamo a Venezia. Per far fronte ai bisogni degli “ospiti”, l’organizzazione cattolica si guarda bene dal rivolgersi a chi ha esperienza nel settore e preferisce assumere, tramite la sopracitata cooperativa sociale Il Lievito quattro operatori.
La convenzione con la Prefettura è quanto di meglio un contraente possa sperare perché non prevede nessuno, o quasi, controllo sulla gestione e sulla spesa. Quattro operatori, per quanto pieni di buona volontà, si rivelano chiaramente insufficienti nella proporzione per affrontare la situazione, anche per un’evidente carenza nella conoscenza delle lingue. Sebbene venga fatto uso di un paio di mediatrici linguistiche per l’arabo, non sempre possono essere presenti nei momenti di bisogno, dovendosi occupare di un centinaio di migranti. Persone reduci da una sanguinosa guerra e non di rado in difficili condizioni psicologiche, sparsi in una mezza dozzina di strutture tra Venezia, Mestre e l’entroterra. Da sottolineare che nessuno degli operatori aveva mai lavorato prima con richiedenti asilo e rifugiati. I controlli della Prefettura presso la struttura sono stati piuttosto tardivi e comunque insufficienti.
La situazione che si crea è a dir poco vergognosa. “Non avevano neppure lo spazzolino da denti – mi raccontava un ragazzo di Razzismo Stop – eravamo noi a dover provvedere ai bisogni più elementari. Inoltre la Caritas non ha mai organizzato neppure un corso di italiano o iniziato un percorso di inserimento lavorativo. Li hanno tenuti per due anni parcheggiati in quelle case e poi, quando il rubinetto dei finanziamenti statali si è chiuso, li hanno buttati per strada senza complimenti”.

“Cosa dovevo fare per non morire anche io?”
Riportiamo ora le impressioni di Diego, un ragazzo che è stato tra i primi ad avvicinare i profughi di via del Gaggian. “La prima volta in cui misi piede nella struttura di via del Gaggian per la compilazione di un modulo c3, ricordo che incontrai un ragazzo molto più giovane di quanto non risultasse dalle rilevazioni operate a Lampedusa da Save the children. Mi stupii fra l’altro di come parlasse un inglese piuttosto fluente considerato che mi era stato descritto come persona “quasi analfabeta” da parte degli operatori. Quando ci sedemmo per iniziare la stesura, di fronte a me si trovava una persona visibilmente sofferente sebbene non sembrasse accusare di un particolare male fisico; semplicemente ansimava, quasi gli risultasse faticoso respirare. Tra qualche singhiozzo ad interrompere le frasi che a stento gli uscivano dalla bocca, lo osservavo andare a ritroso con la mente a ricordare eventi dolorosi. Scene di battaglie, di guerriglia e morte. Il padre. Il fratello. Il pugno appoggiato al gelido tavolo si stringeva mentre l’indice dell’altra mano ripercorreva la cicatrice sulla guancia. Se n’era andato dal suo Paese perché non aveva più nulla a cui tenesse, per cui valesse la pena. Per non morire. Che altro c’era bisogno di sapere sulla sua vita, si chiedeva imprecando disarmato. E poi la Libia. Il razzismo verso chi in faccia porta una gradazione più scura, le difficoltà di vivere nell’utopia di ottenere un permesso di soggiorno, lo sfruttamento da parte di imprese edili europee. Infine ancora una guerra, una guerra che non gli apparteneva, come nessuna del resto; una guerra che però lo travolge. Privato di ogni cosa, spogliato non solo idealmente, a compiere l’ennesimo viaggio che lo spinge verso l’Italia. Accatastato in un Centro come altri migliaia, trasportato come un pacco a gonfiare qualche tasca. Perché rispetto ai finanziamenti si parla sempre di chi li esborsa, la collettività contribuente, di quale dovrebbe essere il loro eticamente alto utilizzo, quasi mai del fatto che chi effettivamente ne usufruisce non coincide con chi ne dovrebbe essere il destinatario. Se non troppo tardi e per creare scalpore, non di certo per sottolineare le conseguenze reali sulla vita delle persone. Ed è in questo quadro che nasce in un giovane ragazzo un pensiero, una volontà che a rigor di logica potrebbe sembrar paradossale, un urlo di sofferenza, tanta è la frustrazione, tanto il senso di impotenza per chi da mesi, da anni, vive in un tale stato di aleatorietà; per chi dopo tutto questo viene lasciato a passare le proprie giornate senza potervi dare un significato, anzi sentendosi incolpato. ‘Meglio tornare al mio Paese. Meglio tornare alla mia guerra, che non è mia e mai lo sarà, ma almeno mi permetterà di morire in piedi lottando per la mia vita. Qui mi è stato tolto anche questo diritto’.”

La partenza e il ritorno
Due anni dopo, quando il fondo del barile è stato raschiato, e oramai alla storia dell’emergenza non ci credono più neppure i giornalisti, per i migranti di via del Gaggian è l’ora di fare le valigie. E’ il febbraio del 2013. Il contratto d’affitto è scaduto. Alcuni partono per il nord Europa in cerca di un impiego. Altri si sistemano in alloggi in affitto a Mestre o nelle immediate vicinanze. Un gruppetto però rimane nella casa. Di loro nessuno si farà carico. Ci sono anche quattro coppie che potrebbero rientrare nella categoria cosidetta “vulnerabile” di “famiglie” ma, non avendo figli, questa protezione non gli può essere applicata.
Oramai questi migranti non fanno più reddito e continuano a vivere nella casa, dimenticati da tutto e da tutti.
Passano i mesi e se li conti anche i minuti. Piano piano, la casa torna a riempirsi. Sono quelli che non ce l’hanno fatta a mantenersi nel nuovo alloggio, quelli che hanno perso il lavoro e quelli che non lo hanno mai trovato. A far ritorno per ultimi sono quelli che erano andati all’estero con un permesso umanitario in tasca. Permesso che ha la validità di un anno e che per tre mesi ti consente di girare per l’Europa. Sono vittime di una assurdità burocratica che neanche Kafka avrebbe mai immaginato. Molti di loro avevano trovato lavoro in un altro Paese europeo ma hanno dovuto rinunciarci e rientrare in Italia per rinnovare il permesso di soggiorno. Salvo scoprire che questo, con la fine dell’emergenza, non può essere rinnovato proprio perché non hai più il lavoro.

Tra preti, denunce e tv rotte
Ora in via del Gaggian vive una cinquantina di persone. Sono per lo più migranti sub sahariani con alle spalle un paio di guerre e storie di fughe per mari e per deserti. Vivono come possono. C’è chi, come Mohammed ha un diploma di saldatore e ripara vecchie tv che gli portano i volontari della Chiesa Valdese, chi prova a sbarcare il lunario lavorando in nero come muratore. Le condizioni sono difficili, pure se tutti si danno da fare per mantenere in piedi la struttura. L’intasamento delle fognature al quale la proprietà non intende porre rimedio, certo non aiuta.
Come inevitabilmente accade, la struttura abbandonata a se stessa si è trasformata in un polo di attrazione anche per spacciatori di sostanze pesanti e di violenti. E’ notizia di qualche giorno fa, l’arresto di due persone che non fanno parte del gruppo di profughi inizialmente ospitato nella casa, per spaccio. “Da soli non abbiamo la forza o la possibilità di controllare chi viene a dormire – mi spiega un altro migrante -. Sono mesi che nessun operatore della Caritas si fa vivo. In queste condizioni, dormire qui rimane un pericolo anche per noi. Abbiamo paura ma non abbiamo altro posto dove andare”. E’ innegabile comunque che la struttura stia diventando un problema sociale, per la gente del quartiere quanto, come ha spiegato il migrante, anche per chi vi abita. Ma è anche evidente che la situazione non si risolve solo con una azione di forza, chiudendo la struttura e buttando per strada chi vi abita.
Lo ha ribadito anche il parroco della vicina chiesa di di San Lorenzo, don Andrea Favaretto. “E’ incredibile come i responsabili dell’epoca, Stato e Prefettura, si siano completamente disinteressati della questione – spiega -. Per quasi due anni i profughi sono stati assistiti ma non impegnati in lavori socialmente utili che li avrebbero edificati. Il Prefetto invita a fare un esposto per chiedere il suo intervento. Ma non poteva pensarci prima, prendendo in mano la situazione già sei mesi fa? I delinquenti devono essere allontanati ma chi ha davvero bisogno, invece, deve essere aiutato”. Don Andrea dimentica di citare anche la Caritas, assieme allo Stato e alla Prefettura, tra i responsabili, ma non gli si può chiedere più di tanto. In fondo, proprio dal volontariato vicino alla chiesa – parlo dell’associazione I Sette Nani che lavora alla Cipressina – sono state organizzate le uniche attività sociali volte ad aiutare i profughi, come corsi di cucina, di lingua, sagre e partite di calcio.
Eppure, tanto la pia Opera Santa Maria della Carità quanto la Caritas oggi premono per lo sgombero, pur se non sono ancora arrivare a chiederlo formalmente alla prefettura. Adducono questioni di decoro (su cui siamo tutti pronti a pontificare quando teniamo il sedere al caldo) e di sicurezza (altro termine che, assieme ad “emergenza”, viene sempre e regolarmente citato a sproposito). Non passa settimana che non ci tocchi leggere nei quotidiani cattolici e locali articoli di denuncia dai toni più o meno coloriti sul degrado in cui versa la strutture e sui rischi sociali che questa comporta all’intero quartiere. Ma la questione vera è che la Caritas vorrebbe riaffittare lo stabile per farne un centro contro la tossicodipendenza, un settore dove i “rubinetti” sono ancora aperti. Il proibizionismo serve anche a questo.
Intanto, in via del Gaggian. Mohammed continua a riparare le sue televisioni rotte. Quello è l’unico tetto che ha sulla testa e non ha nessuna intenzione di andarsene.

Di seguito, alcune interviste raccolte dagli attivisti di Razzismo Stop di Venezia.

– Nel primo video, Paola Cortella ci parla della situazione della struttura di via del Gaggian

– Nel secondo video, i profughi di via del Gaggian raccontano le loro esperienze in Italia.