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Piacenza – La verità sui “profughi” arrestati

Protesta davanti al carcere: abbandonati dal 2011 da chi ha lucrato sulal loro pelle

Quello che voglio raccontare non suonerà nuovo a chi già conosce come funzionano le politiche dell’immigrazione in Italia; al contrario, sarà l’ennesimo esempio di un sistema che trasforma l’accoglienza degli stranieri in un business e concepisce la loro integrazione come frutto di un assistenzialismo imposto e buonista, che anziché aiutare le persone a costruirsi un futuro, le costringe ad una condizione di perenne dipendenza dalle istituzioni e da quello che le istituzioni sono in grado o non sono in grado di fornire loro.

Non credo sia necessario spendere tante parole sul tema Emergenza Nord Africa, sulla sua pessima gestione in molte città d’Italia e sul giro di soldi che lo ha caratterizzato dal 2011 al 2013; d’altro canto, non posso e non voglio entrare nel merito di cosa sia successo in ogni singolo territorio perché parlerei senza conoscere.

Voglio invece parlare di un caso che conosco personalmente, quello della città di Piacenza, che a seguito del conflitto libico e dell’ondata di sbarchi nell’aprile 2011 si è vista assegnare un certo numero di profughi, i quali sono stati ospitati sia nel territorio urbano sia in provincia. Gli stranieri collocati in città sono stati alloggiati presso una struttura di ex proprietà della ferrovia, denominata Ferrhotel.

Il Ferrhotel ha ospitato, nel periodo dall’aprile 2011 al marzo 2013, circa un centinaio di cittadini stranieri in totale.

Non ho seguito il percorso di tutti gli ospiti del centro sin dall’inizio, perché il mio lavoro come operatrice sociale è iniziato soltanto nel febbraio 2012. Tuttavia, pochi mesi di lavoro presso la struttura mi sono bastati a capire quanta disorganizzazione e incompetenza ci fossero nella gestione dell’intera situazione: dalle questioni burocratiche legate alla richiesta di asilo, che per molti dei profughi ha significato mesi e mesi di attesa, alla gestione dei fondi provenienti dalla Protezione Civile, tema peraltro già trattato da Il Fatto Quotidiano in data 17/07/2013 a seguito di un’inchiesta avviata nei confronti del gestore del Ferrhotel.

La mala gestione era evidente soprattutto nella presenza di personale non qualificato al lavoro di mediazione interculturale, dunque non preparato ad affrontare la relazione con lo straniero in modo da perseguirne il pieno interesse.

Io e un altro collega ci occupavamo di questioni sanitarie: accompagnamenti ambulatoriali e ospedalieri, rinnovo di tessere sanitarie e acquisto di medicinali. Capitava spesso che, qualora uno degli ospiti avesse un problema di salute e avesse la necessità di acquistare una medicina, gli amministratori del centro, che avrebbero dovuto coprire tali spese con i fondi della Protezione Civile, chiedevano a noi operatori di anticipare il denaro o di cercare di ridurre il numero di prescrizioni di farmaci (di fatto chiedendo al medico di non prescriverne) e il numero delle visite specialistiche, per alleggerire il costo dell’intera operazione.

Gli ospiti del centro sono stati per due anni in una condizione di immobilità sociale, poiché per nessuno di loro è mai stato previsto l’avvio di un percorso di inserimento professionale che li aiutasse a costruirsi una vita normale nel nostro paese. Nessun corso di alfabetizzazione interno al centro, nessun accompagnamento alla conoscenza dei servizi al cittadino, nessun corso di formazione professionalizzante: in sostanza, nessuna reale intenzione di favorire l’integrazione di questi cittadini stranieri nel territorio.

Dopo la fine dell’ENA, dichiarata ufficialmente conclusa il 28 febbraio 2013, a Piacenza come altrove è stato caos totale: il Ferrhotel è stato pian piano smantellato, il personale ne ha abbandonato la gestione e gli spazi sono stati sgomberati di tutto quello che contenevano.

I profughi che hanno deciso di rimanere a Piacenza pur avendo ricevuto la somma di € 500, concepita per un loro rimpatrio volontario, si sono quindi trovati in uno stato di totale abbandono, nella desolazione di dover vivere da invisibili all’interno di un luogo di nessuno, senza gas né elettricità e a fronte dell’assenza totale di aiuti in termini di generi alimentari e beni di prima necessità. Nessun tipo di supporto materiale e immateriale per diversi mesi, nei quali le istituzioni locali hanno fatto finta di nulla e non hanno mai considerato la presenza di queste persone nel centro come un problema di ordine pubblico. Al contrario, hanno deliberatamente ignorato la questione fino al giorno dello sgombero, che è avvenuto il 1° luglio 2013.

In quella data le forze dell’ordine sono intervenute per sgomberare il Ferrhotel e da quel momento, i circa 30 profughi che vi risiedevano si sono ritrovati in strada. Nei giorni successivi, dopo aver trascorso una notte in tenda davanti al palazzo del Comune, sono stati trasferiti presso un luogo di fortuna, l’ex Circoscrizione 2, uno spazio comunale inutilizzato che è diventato il loro nuovo centro di accoglienza. Il locale è stato attrezzato con delle brandine e con un’unica doccia esterna, una specie di roulotte da campeggio da condividere in 24.

Avrebbe dovuto trattarsi di una soluzione temporanea in attesa di un progetto più strutturato, ma la permanenza presso la Circoscrizione si è in realtà protratta per oltre 6 mesi e la sopravvivenza dei ragazzi è stata assicurata solo grazie all’intervento di una rete di volontari, che nel corso dei mesi ha fornito loro cibo, medicine, vestiti, lenzuola, persino ventilatori (Piacenza d’estate è una città insopportabilmente afosa) oltre ad organizzare turni per tenere corsi di lingua italiana a livello elementare e intermedio.

Nel lungo periodo tra luglio e dicembre 2013, il Comune ha fatto numerose dichiarazioni che ha più volte smentito nei fatti. Inizialmente si è riproposto di andare incontro alle esigenze e richieste dei profughi, che erano sostanzialmente tre: apprendimento della lingua italiana, possibilità di svolgere un corso di formazione professionale e reperimento di un alloggio.

Dopo aver raggiunto un accordo con i profughi nel mese di settembre 2013, proponendo loro un progetto di accoglienza che si avvaleva di fondi comunali pari a 45.000,00 €, le falle dell’intera iniziativa hanno cominciato ad essere evidenti. I ragazzi hanno iniziato a frequentare un corso di lingua italiana presso un CTP della città, in concomitanza del quale avrebbero dovuto iscriversi anche ai corsi di formazione professionale gratuita convenzionati con la regione. A causa di una serie di ritardi nell’avvio delle operazioni, nessuno di loro ha potuto giovare di quest’opportunità: persa quest’occasione, la questione della formazione professionale, nodo cruciale nelle aspettative dei ragazzi, è stata man mano messa da parte, con la motivazione che i fondi a disposizione non fossero sufficienti a coprire il costo di una formazione a pagamento.

La delusione delle aspettative è stata fonte di scontri tra i profughi e il Comune per diversi mesi fino al dicembre 2013, data nella quale i ragazzi sono finalmente stati trasferiti in 4 appartamenti gestiti dal Comune. Anche in questo caso, il progetto si è rivelato inconsistente e mal organizzato: si trattava di appartamenti completamente non arredati, oltre che con sanitari talvolta non funzionanti o tenuti molto male. L’amministrazione ha spinto perché i profughi facessero ingresso nelle case sebbene queste fossero sprovviste degli allacci di luce e gas o dotate di caldaie non funzionanti, oltre che completamente vuote. L’arredamento degli spazi interni è stato quasi totalmente a carico della rete dei volontari, che si sono dati da fare per reperire letti, mobili ed elettrodomestici.

L’accordo sull’alloggio prevedeva una serie di regole e clausole, tra le quali quella per cui il Comune avrebbe richiesto un contributo forfettario per il pagamento delle spese di affitto e le utenze solo a coloro che avessero potuto permetterselo. In caso contrario, l’accordo prevedeva l’attivazione di percorsi di lavoro socialmente utile in forma gratuita.

Sebbene la cooperativa che aveva in gestione l’appalto per il progetto di accoglienza abbia assunto due educatori allo scopo di accompagnare i 24 profughi in un percorso di inserimento sociale e professionale, ad oggi soltanto uno di loro ha iniziato a prestare servizio come socialmente utile presso la biblioteca della città. Per gli altri, si è trattato ancora una volta di arrangiarsi: i profughi provenienti dal Bangladesh si sono attivati per la vendita di fiori e ombrelli, mentre gran parte del gruppo conduce le proprie giornate chiedendo l’elemosina o alla ricerca di una qualsiasi occupazione.

La condizione di questi profughi non è minimamente migliorata nel corso di questi mesi. Al contrario: la frustrazione di vedere le proprie aspettative disilluse, la sfiducia derivante dalla sostanziale paralisi dei servizi sociali nel dare risposte alle loro esigenze si sono tradotte in ulteriore risentimento e diffidenza verso le istituzioni locali e verso una cittadinanza che li considera un onere sulle spalle degli italiani e li ritiene responsabili dello spreco di un’enorme quantità di risorse economiche.

Nel 2013, il Comune di Piacenza ha ottenuto l’assegnazione di fondi provenienti dal FER (Fondo Europeo per i Rifugiati) destinati a finanziare un progetto rivolto a rifugiati e richiedenti asilo del territorio di Piacenza e Parma (progetto “PEACE: Percorsi per accompagnare, accogliere e far crescere”). A seguito di ciò, 8 persone facenti parte del gruppo dei 24 già inseriti nel progetto firmato in precedenza sono state inserite in questo nuovo progetto, che prevede, tra le altre cose, l’attivazione di corsi di italiano e di formazione professionale, l’assegnazione di buoni pasto e l’assegnazione di un alloggio.

Pur essendo a conoscenza dell’esistenza di un progetto con queste caratteristiche e pur essendovi stati inseriti, gli 8 profughi non hanno mai avuto prova scritta di ciò, né hanno mai firmato alcun documento che dimostrasse la loro appartenenza al progetto.

La reazione degli 8 beneficiari del FER è stata in generale quella di un rifiuto: disponendo già di alloggi ed avendo già frequentato un corso di lingua italiana in base all’accordo del progetto precedente, non vedevano infatti l’utilità di investire parte dei fondi in iniziative già esistenti. Riguardo alla formazione professionale, la proposta del Comune è stata quella di offrire, come unica opzione possibile, uno stage per piastrellisti. 7 degli 8 profughi hanno rifiutato la proposta: uno di loro è già in possesso di un contratto di lavoro a tempo determinato e dunque non necessita di questa opportunità; gli altri 6 hanno chiesto di poter accedere a corsi professionali più consoni alla loro esperienza pregressa; la risposta dell’amministrazione è stata che un loro rifiuto di questa proposta avrebbe coinciso con l’esclusione dal progetto.

La sostanziale incapacità del Comune di gestire rapporti di mediazione e di offrire prospettive di vita coerenti con una logica di emancipazione e non solo di assistenza pura, ha condotto ad una situazione di sempre maggiore tensione, che è culminata nell’arresto di 4 persone facenti parte del gruppo.

La giornata del 27 marzo 2014 è stata infatti teatro di uno scontro tra gli 8 profughi beneficiari del FER, l’assessore al Welfare e alcuni funzionari del Comune, che a fronte della richiesta degli 8 di ricevere spiegazioni sul progetto hanno negato loro udienza e li hanno invitati a lasciare la sede dei servizi sociali. Di fronte al rifiuto dei profughi di andarsene senza aver “avuto chiarezza” su qualcosa che riguarda la loro vita e il loro futuro, i funzionari hanno chiamato la polizia. Una trentina di agenti si è presentata sul posto e con l’uso della forza ha vinto la resistenza di 4 degli 8 profughi presenti. Due di loro sono stati immobilizzati a terra e ammanettati; uno di questi, sdraiato sull’asfalto a testa in giù e totalmente incapace di muoversi, ha morso il dito di un poliziotto che gli stava cingendo il collo con la mano. Al termine di una scena che si è consumata per qualche decina di minuti di fronte agli sguardi impassibili di alcuni cittadini, i profughi sono stati scortati in questura, dove sono stati trattenuti fino al giorno dopo. Venerdì 28 marzo è stata approvata la convalida dell’arresto dei 4, attualmente in custodia cautelare in attesa del processo, che si terrà venerdì 4 aprile.

Le accuse a loro carico sono violenza, resistenza e lesione a pubblico ufficiale.

Su di loro i giornali locali hanno diffuso parecchie informazioni false e diffamatorie: si è detto che sono dei clandestini, sebbene tutti loro siano in possesso di permesso di soggiorno per protezione sussidiaria, e che il loro mantenimento grava sulle spalle dei cittadini, sebbene il FER si basi su fondi di provenienza europea assegnati a progetti meritevoli e vincitori di bandi pubblici. In particolare, il parlamentare Guido Guidesi, in un intervento sul giornale online piacenzasera.it, si è espresso in questi termini:

“Non sono profughi, ma sono clandestini. Queste persone costano, costano molti soldi ai cittadini. Quanto accaduto dimostra che non c’è volontà di integrazione.”

Si è detto inoltre che hanno sdegnosamente rifiutato le proposte del Comune, in particolare quella della formazione professionale, perché non hanno voglia di lavorare; si è detto che non potranno più beneficiare di un alloggio, sebbene siano persone ancora in attesa di giudizio e incensurate e sebbene l’alloggio nel quale risiedono attualmente faccia parte del progetto di accoglienza firmato nel settembre 2013, e non del progetto FER.
L’approssimazione e l’arroganza con la quale l’episodio è stato trattato dai giornali locali è aberrante e contribuisce ad alimentare un clima di odio verso gli stranieri – in particolare verso questo gruppo – che nella città di Piacenza è già piuttosto radicato.

Nel raccontare questa storia ho voluto portare l’ennesima prova di come la politica di accoglienza agli stranieri in Italia sia mal gestita e improntata ad un assistenzialismo opportunista anziché al reale benessere degli interessati. La disperazione prodotta dal logoramento della speranza di una vita migliore porta ad azioni scorrette, basate sulla convinzione che ormai non ci sia nulla da perdere. Ritengo che la colpa di tali azioni sia da imputare non a quelli che l’hanno commessa ma a coloro che hanno generato una situazione di esasperazione e sfiducia totale nel futuro.