Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da L'Unità dell'8 luglio 2003

Deportato a Malpensa, giustiziato a Damasco di Maura Gualco

“Ho avuto conferma che Mohammad Al Sahri è morto il 28 febbraio scorso sotto tortura”. La parole di Christopher Hein, direttore del Cir (Consiglio italiano per i rifugiati) lasciano senza respiro. E soprattutto senza più speranze. Per l’ingegnere siriano Al Sahri, deportato dalla polizia di frontiera italiana in Siria il 28 novembre scorso, grazie alla Bossi-Fini, non c’è più niente da fare. Nel suo paese lo attendeva una condanna a morte. E il boia ha fatto il suo mestiere. Per i trattati internazionali sottoscritti dall’Italia avremmo dovuto concedere il diritto d’asilo. Non lo abbiamo fatto.

I parenti, intanto, lanciano pesanti accuse all’Italia.
“Perché gli italiani ci hanno umiliato in questo modo? – chiede la moglie Maysun Lababidi, dalla sua casa di Hama dove è costretta a vivere – Dove sono finiti i diritti dell’uomo quando, poi, hanno preso il padre lasciandomi con i bambini? Dove sono i diritti? Ci hanno ingannati e ammanettati E poi dove è finita la richiesta di rifugiati che ci avevano promesso? Non hanno avuto pietà – conclude la signora Lababidi – quello che abbiamo chiesto era solo un rifugio”. Delusione e sconforto dalle parole della donna. Rabbia da quelle di suo fratello Murhaf Lababidi, rifugiato in Inghilterra. “Noi riteniamo il governo italiano responsabile della vita di mio cognato. È stato il governo italiano a rispedirlo lì. Quindi è il governo italiano a dovere rispondere del suo destino. Se lui è morto, noi porteremo il governo italiano di fronte ad ogni corte europea o internazionale”.

Il caso di Mohammad Al Sahri, giunto il 23 novembre scorso, insieme alla sua famiglia all’aeroporto milanese di Malpensa dopo vent’anni di esilio, suscitò clamore già all’epoca. Reso noto dall’Unità provocò proteste in Parlamento e una ridda di interrogazioni. Il governo si impegnò a far sì che i diritti dell’ingegnere venissero rispettati. Ma l’obbligo assunto sembra essere rimasto lettera morta.

Infatti né la famiglia, né l’opinione pubblica italiana e internazionale, hanno mai saputo in quale carcere è stato rinchiuso, in che condizioni si trovava Mohammad Al Sahri. D’altra parte Mohammad non ha mai avuto la possibilità – come stabilito dalle Convenzioni internazionali – di contattare i suoi cari e un avvocato. Il rispetto dei diritti? Pie illusioni. Nulla di tutto ciò è accaduto. Inghiottito in un buco nero, Mohammad è sparito nelle mani dei Mukabarat (i servizi segreti siriani) e da allora non se n’è saputo più nulla. Fino a quando fonti diverse hanno rivelato l’agghiacciante notizia della morte. Pubblicata, ancora una volta, da l’Unità, ha suscitato un vespaio di polemiche e di interrogazioni parlamentari.

Ma anche di richieste di indennizzo come quella presentata dai Ds con la quale si chiede che la famiglia venga risarcita per il danno provocato dal governo italiano. E non è tutto. Tra le proteste espresse ieri all’attuale esecutivo, spicca, altresì, l’astensione di alcuni deputati dell’opposizione – tra cui Francesco Martone dei Verdi e Tana de Zulueta dei Ds – alla votazione che riguardava la ratifica di esecuzione dell’accordo tra Italia e Siria sulla promozione degli investimenti. “Ci siamo astenuti – racconta Martone – chiedendo allo stesso tempo che il governo adottasse un ordine del giorno con il quale esprima un giudizio di condanna nei confronti della Siria e adotti un provvedimento che prevenga le espulsioni di coloro che hanno diritto allo status di rifugiato politico”.

Anche l’Acnur (Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu) prende posizione. “Nella versione della polizia di frontiera che quel giorno era in servizio a Malpensa – dice Laura Boldrini, portavoce dell’Acnur – abbiamo trovato delle incongruenze: come è possibile che la famiglia Al Sahri abbia fatto resistenza a partire per la Giordania e non per la Siria dove pendeva una condanna a morte? In ogni caso – prosegue Boldrini – pensiamo che alcune cose vadano riviste e che l’Italia debba investire di più nel sistema d’asilo. La famiglia Al Sahri, infatti, non è stata messa in condizione di formulare la richiesta d’asilo. Anche per questo – conclude la portavoce dell’Acnur – riteniamo che lo sportello del Cir debba essere spostato dentro la zona di transito. Fuori non serve a nulla”.

Alle 20 di ieri arriva un comunicato dalla Farnesina. “Il caso del cittadino siriano Mohammad Said Al Sakhri continua a essere oggetto di particolare attenzione da parte della Farnesina. Su istruzioni del ministro Frattini, il ministero degli Affari Esteri è oggi (ndr ieri)intervenuto nuovamente, sia presso l’Ambasciatore di Siria a Roma sia a Damasco attraverso l’Ambasciatore d’Italia, per sollecitare aggiornamenti urgenti sulle condizioni di salute e di detenzione del signor Al Sakhri. Queste iniziative fanno seguito ai passi già effettuati … per chiarire la vicenda, i cui risvolti umanitari sono seguiti con viva partecipazione dal Governo, dal Parlamento e dall’opinione pubblica italiana. La Farnesina ricorda di aver più volte ricevuto dalle autorità siriane, durante la detenzione alla quale è stato sottoposto il signor Al Sakhri, assicurazioni sul rispetto dei diritti umani nei suoi confronti”. Cadono le braccia. Il comunicato di circostanza non dice nulla.

A parte il fatto che il caso sta talmente a cuore della Farnesina, che al ministero ancora sbagliano il nome. Sahri e non Sakhri. Ma poi, dov’è? Il signor Al Sahri, dove si trova? La Croce rossa internazionale o un normale avvocato, possono contattarlo? Il suo processo è stato celebrato? In che condizioni sta? E soprattutto, cosa risulta al ministro Frattini? Che sia vivo o morto?