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da Il Gazzettino dell'11 gennaio 2004

«È già successo, non sarà la morte a fermarci» di Francesco Jori

Vengono quasi tutti dal nord del Paese e scappano da una vita di stenti: con la liberalizzazione i beni costano più che in Italia

Non sarà la morte a fermarli; non lo è mai stata. Lo spiegano quelli di loro che sono ridotti peggio, perché oggi si trovano nelle carceri italiane: «Quale è il motivo che ci spinge a rischiare così tanto, compresa la vita, e non è poco? Di motivi ce ne sono un’infinità, e molto diversi. Ma vanno ricercati soprattutto nella povertà, e nel desiderio di poter dare un futuro migliore alla nostra vita e alla nostra famiglia».
L’hanno scritto alcuni di loro su «Ristretti», il punto di riferimento di chi è in prigione. Ricordando, tra l’altro, la carretta del mare affondata nel canale di Otranto, causando la morte di 110 persone: «Donne, bambini, uomini, che partivano con il sogno nel cuore di una vita diversa. Credevano di andare verso quel sogno, ma finirono tutti in fondo al mare. Eppure quella tragedia non ha fermato i viaggi della speranza. Anche se quei sogni si sono fermati in fondo al mare, e forse altri se ne fermeranno»., Sono poveri, molto poveri; e trovare un lavoro in patria è pressoché proibitivo. La stragrande maggioranza di loro arriva dal nord dell’Albania, la zona meno sviluppata del Paese. Tirana e Valona, le due città principali, sono al centro; e il sud è la parte più industrializzata, favorita dal confine con la Grecia: non a caso proprio qui ci soino diversi insediamenti di investitori stranieri, specie italiani. Il nord invece è emarginato, a ridosso com’è di quel che resta dell’ex Jugoslavia, tra Montenegro e Serbia.

Hanno raccontato alcuni di loro, immigrati in un paesino pugliese: «Le condizioni di vita che abbiamo lasciato laggiù, per voi sono difficili da immaginare. Quasi tutti abbiamo una famiglia numerosa, con gli anziani, i bambini e i familiari sposati, tutti nella stessa casa. La malavita si è enormemente sviluppata e moltissimi girano armati, come molti cadono vittime della lupara bianca». Guadagnano poco, pochissimo, soprattutto in relazione al costo della vita: «Quando c’era il vecchio regime i salari erano ancora più bassi, ma tutto costava molto meno. Adesso che c’è la liberalizzazione, i beni costano addirittura più che in Italia. Da casa mia mi hanno chiesto di comprare qui una motosega, visto che costa molto meno che in Albania».

Sbarcare in Italia, spiegano, è molto semplice: basta pagare. Tanto, però: un milione di lek (1000 lek sono circa un euro), compreso un viaggio gratis se nei tre giorni successivi allo sbarco in Italia si viene pescati e rispediti in Albania. Con altro mezzo milione di lek viene garantiuto un posto di lavoro, naturalmente in nero e di solito non pulito. Ma c’è una complicazione: dato che quasi nessuno possiede la cifra necessaria in contanti, molti albanesi si rivolgono agli usurai, che di solito fanno capo alla stessa organizzazione che provvede al viaggio. Chiedono la restituzione del denaro con un interesse compreso tra il 20 e il 30 per cento entro tre mesi, trascorsi i quali la cifra aumenta di quasi il 30 per cento ogni mese.

Dicono gli immigrati che il nuovo decreto legge sull’immigrazione è servito a ben poco: «Nessuno di noi ha un datore di lavoro disposto ad assumerci pagando i contributi, figuriamoci se pensa ad assumerci regolarmente versando anche sei mesi di contributi arretrati. In molti abbiamo perso il posto di lavoro perché i padroni hanno paura di eventuali controlli. Ma per quante volte possiate rispedirci in Albania, ritorneremo sempre in Italia: almeno qui possiamo procurarci due pasti al giorno senza problemi».