Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da Il Manifesto del 4 febbraio 2004

Frontiere mobili per esclusione di Sandro Mezzadra

I due volumi di Etienne Balibar da poco usciti per la Manifestolibri (L’Europa, l’America, la guerra, pp. 178, € 18, e Noi cittadini d’Europa? Le frontiere, lo Stato, il popolo, a cura di Anna Simone e Beppe Foglio, pp. 251, € 24) costituiscono un’ottima occasione per fare il punto sullo sviluppo del pensiero di uno degli intellettuali della sinistra europea che nel modo più coerente e rigoroso, tenendosi a distanza di sicurezza da «pentimenti» e revisionismi a buon mercato, si sono misurati con le lezioni dell”89 e con il nuovo orizzonte di problemi teorici e politici dischiusosi negli ultimi quindici anni. Allievo di Louis Althusser, Balibar partecipò giovanissimo alla stesura dell’opera collettiva Leggere il Capitale (1965) che, per lo scacco subito dal tentativo di fondare in modo definitivo l’oggettività del marxismo non meno che per l’indubbia originalità interpretativa, lasciò un segno profondo sulla cultura francese degli anni successivi. La sua formazione e la prima parte della sua biografia intellettuale si svolsero dunque all’interno di un’esperienza che egli stesso, in un libro dedicato ad Althusser (Per Althusser, Manifestolibri, 1991), ricostruì come dominata da un’esigenza di «autocritica» che rende conto della sua ricchezza e del suo interno sviluppo. E l’autocritica di cui si parla non era soltanto una modalità costitutiva delle pratiche teoriche che si svilupparono all’interno di quello che fu chiamato l’«althusserismo», coinvolgendo tanto l’opera del fondatore della «scuola» (che nei dieci anni successivi alla pubblicazione di Leggere il Capitale e dell’altra sua opera fondamentale, Per Marx, anch’essa uscita nel 1965, venne svolgendosi nel segno di una continua «rettifica» delle tesi lì presentate, a cominciare da quella sull’«antiumanesimo teorico» di Marx), quanto quella dei suoi allievi (tra cui è il caso di ricordare, per l’importanza che ancor oggi rivestono nei dibattiti francesi e internazionali, almeno Jacques Rancière e Pierre Macherey). No: fu anche una modalità della politica per quanti, come Althusser e Balibar, restarono all’interno del Partito comunista francese nonostante il Sessantotto, nonostante una distanza sempre più evidente dal «dogmatismo» e dalla «doppiezza del linguaggio» dei suoi dirigenti.

«Eppure, in fin dei conti – scriveva Balibar nel libro dedicato al suo “maestro” – l’autocritica si rivela impossibile (ma forse, in un certo senso, è una liberazione)». Sotto il profilo teorico si aprirebbe qui un discorso lungo e complesso sugli sviluppi dell’«althusserismo»; ma sotto il profilo politico le cose sono in fondo più semplici: l’impossibilità dell’autocritica assunse per Balibar le forme di una risoluzione del Comitato federale di Parigi del Pcf, con cui egli veniva espulso dal partito nel marzo del 1981. Quali erano le sue colpe? Aver criticato le ambiguità del Pcf sui temi dell’immigrazione, e averlo fatto (in uno splendido articolo che si può leggere nel volume Le frontiere della democrazia, Manifestolibri, 1993) riaprendo una ferita mai rimarginata: quella aperta dal silenzio del partito sul «terribile 17 ottobre 1961», quando migliaia di operai algerini, rispondendo all’appello del «Fronte di liberazione nazionale», avevano lasciato le bidonville in cui vivevano «per gridare la loro volontà di liberazione» nelle strade di Parigi. Le Brigate speciali del prefetto Papon (sì, proprio lui, il Papon che si era conquistato sul campo il diritto a una luminosa carriera, organizzando le deportazioni degli ebrei dalla Francia di Vichy) li attendevano al varco, e il giorno dopo centinaia di cadaveri furono ripescati nella Senna.

I sindaci comunisti delle periferie operaie, quelli che in quei giorni di marzo del 1981 denunciavano pubblicamente dei giovani marocchini come spacciatori nel quadro della campagna del partito contro la droga o mandavano i bulldozer, come era accaduto a Vitry, a spianare un centro d’accoglienza per i lavoratori del Mali aperto contro il parere dell’amministrazione comunale, si erano ben guardati dall’erigere un monumento alle vittime del 17 ottobre del 1961. Eppure, scriveva Balibar, «senza il sacrificio di quei lavoratori algerini tragicamente soli, senza lo shock che quel massacro produsse sull’opinione pubblica, la classe operaia francese e le sue organizzazioni non si sarebbero messe in movimento».

Mi è sembrato opportuno ricostruire con una certa ampiezza questo episodio perché esso costituisce in buona misura l’antefatto politico delle posizioni sviluppate successivamente da Balibar. E questo non solo per il fatto che le lotte dei migranti hanno acquisito per lui un’importanza crescente negli anni Ottanta e Novanta, in particolare con il movimento dei sans papiers del 1996. La solitudine degli operai algerini nell’ottobre del 1961, il silenzio che ne accompagnò l’insorgenza, destinata tuttavia a scompaginare complessivamente il campo dell’esperienza politica anticipando in qualche modo il Sessantotto, costituiscono piuttosto una formidabile esemplificazione di quel rapporto tra la presa di parola di una parte e la riqualificazione del discorso sull’universale che costituisce uno dei temi fondamentali della riflessione più recente di Balibar (il testo in qualche modo paradigmatico al riguardo è lo splendido saggio su Gli universali, contenuto in La paura delle masse. Politica e filosofia prima e dopo Marx, Mimesis, 2001). E al tempo stesso possono essere retrospettivamente considerati l’epitome di una lettura della storia politica moderna, avviata con il saggio «Diritti dell’uomo» e «diritti del cittadino». La dialettica moderna di uguaglianza e libertà (lo si può leggere in Le frontiere della democrazia), secondo cui il suo elemento peculiare consiste nella «dialettica della cittadinanza “costituente” e “costituita”», nell’instabile equilibrio fra i due principi dell’articolazione costituzionale e dell’«insurrezione» che di volta in volta riattualizza la connessione tra libertà e uguaglianza presentatasi sulla scena con la Rivoluzione francese, mutandone il segno e il significato.

Noi cittadini d’Europa?, in particolare, presenta in molti capitoli un approfondimento di grande interesse di questa tesi, applicandola ad alcuni dei concetti fondamentali della politica moderna (forma nazione e nazionalismo, stato e sovranità, cittadinanza e democrazia) sotto l’incalzare delle sfide poste dal nostro presente. Tali sfide si possono condensare, sotto il profilo teorico, nell’inedito rilievo assunto dal tema della frontiera: proprio nel momento in cui i processi di «mondializzazione» pongono in tensione «le nozioni d’interno e d’esterno, fondamento del concetto di frontiera», quest’ultimo è infatti per Balibar ben lungi dal divenire obsoleto. Le frontiere, piuttosto, si scompongono e si ricompongono continuamente, si aprono in maniera selettiva per chiudersi di fronte a profughi e migranti, proiettano la propria ombra nel cuore della «città» e non si limitano più a segnarne il perimetro esterno, riproponendo come questione aperta sempre e ovunque quel rapporto tra universalismo e particolarismo, tra «inclusione» ed «esclusione», che vive al cuore della nozione moderna di democrazia. Quel che ne risulta sono da una parte «fenomeni di microfascismo» che si infiltrano fin dentro le istituzioni democratiche; ma dall’altra la chance, fragile e tuttavia data, di una rifondazione della stessa sfera pubblica, di un approfondimento e di una radicalizzazione della democrazia.

La scena in cui Balibar colloca con sempre maggiore decisione la propria riflessione è quella dell’Europa. E la riflessione non può svolgersi pacatamente, sine ira ac studio: è piuttosto incalzata dalla violenza e dalla guerra, quella del Kosovo che fa da sfondo a Noi cittadini d’Europa? (originariamente pubblicato nel 2001) e quella globale e permanente di oggi, al centro di L’Europa, l’America, la guerra. Nell’analisi sull’Europa l’alternativa appena richiamata si ripresenta: da una parte c’è infatti la dura realtà dell’«apartheid europeo», di un sistema di «relazioni razziali europee» che, attraverso la regolazione della posizione dei migranti (a un tempo nazionale, determinata dai singoli Stati, e «postnazionale», determinata a livello di Unione europea), tende a divenire uno degli assi portanti della costituzione materiale europea; dall’altra c’è la possibilità che l’Europa stessa si ponga come «mediatore evanescente» sul piano dei rapporti globali, contrasti l’unilateralismo statunitense facendosi protagonista di un ripensamento complessivo dei «rapporti tra “strategia”, “potenza” e “soggettività”», riscoprendo, secondo una prospettiva ripresa e rilanciata in più occasioni su il manifesto da Ida Dominijanni, l’alterità «come componente indispensabile della sua identità, della sua virtualità, in pratica della sua “potenza”».

Ma che cos’è appunto l’Europa? È inseguendo una risposta a questa domanda che Balibar, negli ultimi anni, ha complicato e arricchito la sua concezione della storia moderna, recependo le «sfide» di eterogenee correnti di pensiero – dal Carl Schmitt del Nomos della terra ai teorici del «postcolonialismo». In estrema sintesi: nella misura in cui si è imposta alla sua attenzione la rilevanza fondamentale del colonialismo non solo per la storia dell’Europa ma per gli stessi concetti fondamentali che ne hanno costruito l’«identità», si è anche imposta, ancora una volta seguendo in prima istanza le storie singolari dei migranti che abitano lo spazio europeo, la consapevolezza che oggi «l’Europa in quanto tale è un insieme di situazioni post-coloniali». Intendiamoci: non nel senso che l’Europa abbia lasciato ormai definitivamente alle proprie spalle un passato coloniale che riemerge piuttosto nelle trame politiche, giuridiche e ideologiche di quello che Balibar chiama l’«apartheid europeo» – ovvero nella «costituzione di una popolazione inferiorizzata (in diritti e, dunque, in dignità), tendenzialmente sottoposta a forme violente di controllo “sicuritario”, che è costretta a vivere permanentemente “sulla frontiera”, né del tutto all’interno né del tutto all’esterno». Ma nel senso che proprio la presenza dei migranti in Europa pone le condizioni, almeno potenzialmente, per ripensare concetti come quelli di popolo e sfera pubblica, superando le sterili alternative tra liberali e comunitari, relativisti e universalisti; e per avviare, con una mossa che dialoga con alcuni sviluppi recenti del pensiero femminista (si pensi solo ai lavori di Rosi Braidotti, di Luisa Passerini e di Rada Ivekovic), la ricerca di un’identità nomade e «meticcia», assunta come posta in palio entro un processo di costante riarticolazione – e di approfondimento democratico – della cittadinanza europea.

È dunque un’autocritica dell’Europa quella che Balibar, senza attardarsi a preconizzare le forme istituzionali in cui essa potrebbe tradursi, lascia intravedere come orizzonte del pensiero critico e dell’azione dei movimenti per i prossimi anni. Il fatto è, tuttavia, che anche questa autocritica, come quella di Althusser, rischia di rivelarsi impossibile, e senza dar luogo questa volta ad alcuna «liberazione». Balibar ne è ben consapevole, e nei suoi scritti la meritoria enfasi con cui insiste nel denunciare l’apartheid europeo contrasta con il tono quasi malinconico che la sua prosa assume quando descrive le deboli tracce che nel presente alludono a un’alternativa realistica: il punto su cui insiste, tuttavia, è che l’impossibilità di una cittadinanza europea pensata come «cittadinanza senza comunità», capace di «democratizzare» la frontiera che separa inclusione ed esclusione, finirebbe per tradursi nell’impossibilità della costruzione europea in quanto tale. Altre volte nella storia l’impossibile si è mostrato come necessario: il concetto moderno di rivoluzione, in fondo, registra proprio questo rompicapo. Ecco, si può certo rimproverare a Balibar, come ha fatto Toni Negri su questo giornale recensendo l’edizione francese di L’Europa, l’America, la guerra (3 maggio 2003), di non spingere fino in fondo l’analisi sul piano della ricerca dei soggetti materiali e delle forme di resistenza su cui un progetto di trasformazione radicale in Europa può oggi incardinarsi; di assumere movenze ireniche, «proprio nel momento in cui sarebbe forse necessario ricordare che la costruzione di una vera democrazia im-potente non può essere angelica». Ma se si facesse strada a sinistra la consapevolezza del fatto che i problemi di fronte a cui ci troviamo oggi richiedono null’altro che una rivoluzione, nel pensiero come nella pratica, avremmo fatto un bel passo avanti.