Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

dal Corriere della Sera del 29 aprile 2004

L’Europa apre le porte all’Est. Per ora a metà di Sergio Romano

Era circondata da un gruppo di colleghe che l’ascoltavano con qualche cenno di solidarietà e davano l’impressione di considerarla una vittima sacrificale. La definizione non è del tutto impropria. Beverley Hughes è stata accusata di avere gestito con leggerezza il suo ministero e di avere permesso che alcune ambasciate britanniche dessero visti con troppa generosità ai cittadini dell’Europa orientale. Si è dimessa, probabilmente, per evitare che l’onda del malumore popolare, bene orchestrata dall’opposizione conservatrice, investisse il governo di Tony Blair. Così si tagliano gli ascessi in Gran Bretagna. Se il governo rischia di dover dedicare una buona parte delle sue energie a una logorante e paralizzante battaglia politica, il premier chiede al ministro responsabile di farsi da parte con un atto di lealtà che verrà riconosciuto e compensato più tardi. Ma il sacrificio di Beverley Hughes, in questo caso, non è bastato e lo stesso Blair, qualche settimana dopo, si è visto costretto a mettere in gioco se stesso con una pubblica promessa al Parlamento e al Paese. I visti apparentemente concessi con troppa generosità concernono principalmente due Paesi balcanici (Bulgaria e Romania), e il caso Hughes quindi, non sembra aver nulla a che vedere con l’allargamento dell’Unione dove Sofia e Bucarest entreranno soltanto nel 2007. Ma non sarebbe scoppiato e non avrebbe provocato le dimissioni del ministro se la stampa popolare britannica non dicesse ai suoi lettori, da qualche mese, che il Regno Unito, dopo il 1° maggio, rischia l’invasione. Il problema non è soltanto inglese.

Beverley Hughes è la prima vittima di un problema che affligge l’intera Unione e che è reso ancora più grave dal diverso modo in cui è percepito nella vecchia e nella nuova Europa. Il problema è quello della libera circolazione: una delle quattro libertà (denaro, merci, servizi, persone) su cui poggia l’edificio dell’Ue. E ha una storia che vale la pena di ricordare per grandi linee.

Il caso scoppiò nell’ultima fase dei negoziati di adesione quando la Germania di Gerhard Schröder (il Paese che negli anni Novanta si era maggiormente battuto per l’allargamento dell’Unione) chiese di essere autorizzata a limitare per alcuni anni l’ingresso degli immigrati, soprattutto polacchi. La Polonia cercò di resistere, ma ottenne qualche concessione in altri campi (l’intero trattato è un complicato compromesso fra concessioni reciproche) e il testo finale prevede così che ogni membro dell’Unione possa rinviare la libera circolazione per un periodo massimo di sette anni. Sembrava che la Germania e l’Austria sarebbero stati i soli Paesi ad applicare questa moratoria, ma l’allargamento viene a scadenza in un brutto momento: l’economia non cresce, la disoccupazione rimane alta, i partiti xenofobi godono di un certo seguito popolare, il terrorismo preoccupa e la paura dello straniero non fa distinzioni di pelle e di lingua. In questo pessimo clima molti Paesi decidono di adottare la clausola per i primi due anni previsti dall’accordo. L’Italia tentenna perché sa che l’immigrazione slovena, nonostante la stagnazione, è necessaria come il pane alle industrie del Nordest, l’Irlanda rimane fedele al principio della libera circolazione e la Gran Bretagna, dopo avere resistito per qualche tempo su posizioni liberali, finisce per attestarsi su un compromesso: aprirà le frontiere, ma rifiuterà di applicare per un paio d’anni ai lavoratori della nuova Europa le generose previdenze del suo Welfare state .
Mentre i tedeschi hanno paura dei polacchi, gli inglesi, a giudicare dal tono della loro stampa popolare, sembrano essere terrorizzati dagli zingari. Esiste dunque nell’Europa allargata un «problema zingaro»? Fra i dodici Paesi che entreranno nell’Unione entro il 2007, cinque hanno una forte comunità Rom. Secondo statistiche più o meno ufficiali sarebbero 250.000 nella Repubblica Ceca, più di 500.000 in Ungheria, altrettanti in Slovacchia, 800.000 in Bulgaria e più di due milioni in Romania: in tutto, grosso modo, quattro milioni. Ma sono cifre approssimative. In Slovacchia, dove i tagli alla spesa pubblica hanno privato i Rom di alcuni aiuti statali e provocato disordini, molti zingari, nei censimenti, si dichiarano slovacchi o ungheresi. Nella Repubblica Ceca rappresentano una modesta percentuale della popolazione, ma quanto basta perché gli abitanti di una cittadina, qualche anno fa, costruissero un muro per tenerli a distanza.
Negli altri Paesi non è facile rincorrerli, per contarli, da un accampamento all’altro. Quando i tabloid inglesi si sono impadroniti dell’argomento persino la Bbc , in un bel documentario sulla Slovacchia, si è vista costretta a occuparsi del problema e ha mandato i suoi giornalisti in una regione dove gli zingari sono molto presenti. Lo spettacolo non è edificante. Nelle baracche i bambini sono vispi e sporchi, gli uomini disoccupati, le madri oberate dai figli e dai lavori domestici.

Esistono case popolari costruite dal regime comunista quando cercò di favorirne la «sedentarizzazione», come dicono i sociologi, impiegandoli in kombinat dove si lavorava l’acciaio e si costruivano cingoli per carri armati. Ora le fabbriche sono chiuse, i sussidi diminuiti, le case popolari cadenti e dilapidate dagli abitanti che sopravvivono vendendo gli infissi delle loro finestre e i mattoni dei loro muri. Fra tutti i perdenti della grande transizione dal comunismo al mercato gli zingari sono quelli che versano in condizioni peggiori. Non sono amati, sono poco istruiti, male organizzati, insensibili alle virtù dell’ambiente nazionale in cui vivono: l’ordine, la pulizia, il rispetto delle convenzioni sociali.
Questa è la libera circolazione vista da occidente. Ma basta attraversare la frontiera fra le due Europe e cambiare angolo visuale per rendersi conto dell’impatto negativo che la clausola dei sette anni ha avuto sulle società dei nuovi membri. Tutti le persone con cui ho parlato nel corso dei miei viaggi la considerano una intollerabile discriminazione, un segno della diffidenza e dell’arroganza con cui i vecchi Paesi dell’Unione guardano dall’alto i loro cugini poveri dell’Europa centro-orientale. I loro governi sono imbarazzati. Dopo aver conquistato il consenso degli elettori all’ingresso nell’Unione, temono di essere travolti da una reazione di rabbia e di orgoglio ferito. Qualche governo ha annunciato che potrebbe servirsi della clausola dei sette anni per applicare le stesse limitazioni ai lavoratori provenienti dall’Europa dei quindici. Peccato che i lavoratori, in questo caso, siano commercianti, banchieri, piccoli imprenditori e che una tale misura nuoccia a chi la prende più di quanto non colpisca chi la subisce. Ma le ripicche, come è noto, non sono mai razionali.
Resta da capire se i nuovi europei abbiano veramente voglia di emigrare verso ovest. In un articolo apparso sull’I nternational Herald Tribune del 21 gennaio, Doreen Carvajal scrive che gli istituti specializzati europei fanno previsioni tranquillizzanti. Secondo un istituto olandese il numero degli immigrati nei Paesi Bassi fra il 2004 e il 2006 non supererà i diecimila. Secondo uno studio dell’University College di Londra gli immigrati, ogni anno, oscilleranno fra un minimo di 5.000 e un massimo di 13.000. All’Europa occidentale, per colmare i propri vuoti demografici e pagare con i contributi di oggi le pensioni di domani, ne occorrerebbero molti di più. Secondo un istituto tedesco, ricorda Doreen Carvajal, la Germania può mantenere la sua attuale popolazione soltanto attirando 242.000 immigranti all’anno sino al 2020.

Se l’economia tedesca li cercasse nel mercato del lavoro dei nuovi europei potrebbe non trovarli. Nel 1985, quando la Spagna e il Portogallo entrarono nella Comunità europea, la paura dell’invasione fu rapidamente smentita dai fatti. Mentre in passato spagnoli e portoghesi avevano cercato lavoro in Paesi più prosperi, dopo l’85 decisero di restare a casa e produssero il miracolo iberico degli anni successivi. Potrebbe accadere anche dopo il 1° maggio se l’allargamento accentuasse la delocalizzazione delle imprese occidentali verso i nuovi membri. In un discorso a Berlino nelle scorse settimane il cancelliere Schröder ha detto che la riduzione dei carichi fiscali nei nuovi Paesi dell’Unione configura una specie di concorrenza sleale. Si servono dei fondi dell’Unione per finanziare le loro infrastrutture e tagliano le tasse per attrarre le imprese dei loro partner più ricchi. In linea di principio Schröder non ha torto. Ma dopo avere chiesto e ottenuto la clausola dei sette anni dovrebbe rimproverare se stesso e decidere quale delle due prospettive – immigrazione o delocalizzazione – gli sembra più pericolosa. Chiudere le porte contemporaneamente ai lavoratori in entrata e alle imprese in uscita è irragionevole e, forse, impossibile.

6– fine. Le altre puntate sono state pubblicate il 10 marzo (Slovacchia), il 24 marzo (Polonia, prima parte), il 25 marzo (Ungheria), il 29 marzo (Polonia, seconda parte), il 20 aprile (Slovenia)