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da Il Manifesto del 1 maggio 2004

L’Unione non fa l’Europa di Alberto D’Argenzio

Bruxelles – Nel cielo di Bruxelles spuntano come funghi venticinque mongolfiere, ognuna con i colori di un paese dell’Unione. Poi un’altra con le 12 stellette. Nella capitale comunitaria la festa per l’allargamento è iniziata ieri sera e continua oggi paralizzando il quartiere europeo, ma il vero clima di euforia si vive nelle rappresentanze diplomatiche dei nuovi venuti come nelle case dei funzionari o cittadini di Cipro, Malta, Estonia, Lettonia, Lituania, Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Slovenia che già hanno trasportato armi e bagagli a Bruxelles.

Un entusiasmo che stride con gli umori di molti dei loro connazionali che vivono l’evento in patria, lontano dalle sirene comunitarie e con molto scetticismo, o con le preoccupazioni di chi in Europa c’è già da anni e che teme una paralisi del progetto Ue o più prosaicamente la fine della pacchia degli aiuti. Festeggia ma non a Bruxelles uno degli artefici dell’allargamento, Romano Prodi, ieri a Trieste, oggi a Dublino con i capi di stato e di governo per il galà ufficiale. Nel frattempo nel Parlamento europeo le bandiere dei 10 nuovi membri passano dalla fila anonima degli stati extracomunitari alle aste dei membri del club. Dietro ai vessilli passiamo da 375 a 450 milioni di abitanti, il 20% in più di cittadini che ci porta in dote un bel 5% in più di Pil. Cresce l’Unione e crescono gli squilibri e le differenze. A coprire tutto la retorica di un’Europa che dopo aver superato la divisione franco-tedesca e due guerre mondiali, riesce adesso anche a ricucire l’ultima ferita lasciata dal secolo passato. E allora la festa si sposta anche a Berlino, Varsavia e Malta, cerniera nel Mediterraneo. Nell’isola suona Roger Waters, autore ai tempi dei Pink Floyd di «The Wall», non un caso. Oggi proporrà la sua ultima fatica, Ça irá, andrà. In molti, ma non tutti, se lo augurano. Quel che è certo è che da oggi l’allargamento più imponente nella storia dell’Unione è cosa fatta. E certo è anche che adesso bisogna fare l’Europa, possibilmente prima che la mongolfiera scoppi. I presagi che precedono il giorno di festa sono discordanti.

L’Unione sale infatti sempre più in alto, incamera territori e popoli, ma lascia a terra i lavoratori di 8 dei 10 nuovi paesi membri, tutti a parte quelli di Cipro e Malta: non potranno muoversi liberamente nella Ue per almeno i prossimi due anni, ampliabili a 5, poi forse 7. Fa eccezione l’Irlanda, che ha deciso di non porre restrizioni. Rimane fuori dall’Europa pure la parte turca di Cipro, per espressa scelta dei vicini greco-ciprioti del sud ma anche per una certa fretta da parte di Bruxelles e dell’Onu (difficile che un referendum passi se viene imposto e non negoziato con le parti). Adesso Bruxelles sta mettendo in marcia una serie di aiuti per i turco-ciprioti, il che equivale di fatto al riconoscimento internazionale del nord dell’isola, un fatto che favorisce il cammino della Turchia verso l’Europa, alla faccia dei diritti umani.

E alla finestra, con molti patemi, pure i rifugiati. Giusto giovedì sera i 15 hanno approvato, dopo anni di discussioni, il regolamento comunitario per i richiedenti asilo. Un testo che non piace alle Ong e che non entusiasma nemmeno la Commissione: « Il livello di ambizione di questo testo – ammette il titolare agli interni Antonio Vitorino – è inferiore a quello iniziale, anche se questo è il massimo che si poteva raggiungere». Poi c’è l’economia, vero asse trainante dell’allargamento e di tutta la storia comunitaria. La Ue diventa un gigante economico, il maggior mercato del mondo, ma scopre di avere i piedi di argilla. Oltre ai problemi più o meno diffusi con il Patto di stabilità, è tutto il sistema produttivo continentale a battere la fiacca e mostrare preoccupanti limiti di crescita.

Facendo due passi indietro si scorgono invece dei segnali positivi. Il trionfo di Zapatero in Spagna ed il successivo ritiro delle truppe ha rafforzato l’asse della pace in Europa, riavvicinando l’Unione al suo popolo. Al tempo stesso ha riaperto i giochi per la Costituzione, necessaria per una Ue in crescita ma anche ambigua: più complesso il sistema di voto, per nulla chiari i diritti.

In questa situazione d’incertezza l’Unione guarda avanti piuttosto che guardarsi dentro. Non si ferma. Tra due anni dovrebbero entrare Bulgaria e Romania e con loro la Croazia. Per la Turchia si saprà qualcosa a dicembre mentre spingono con più opzioni Albania, Serbia-Montenegro, Bosnia e Macedonia. I Balcani sono d’altronde già i confini d’Europa. Lí ha iniziato ad operare il germe dell’esercito europeo, la forza militare che cresce sotto le ali protettive (ed un po’ gelose) della Nato. Piaccia o non piaccia senza un esercito proprio la Ue non conterà mai come potenza politica mondiale. Il fatto è che si sta facendo l’esercito prima della politica. I tempi non sono ancora maturi per un seggio unico al Consiglio di sicurezza dell’Onu, per una posizione e un linguaggio comune europeo. Non basta una mongolfiera per far volare l’Europa.