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da Liberazione del 30 aprile 2005

Migranti, Italia-Libia: patto contro i diritti

Il rapporto della Commissione Europea sui campi di trattenimento per immigrati istituiti in Libia.

Ghat, nell’angolo in cui si incrociano i confini di Libia Algeria e Nigeria, Kufra, fra Libia e Egitto, Al Awyanat, al confine col Sudan, As Sarah, fra Libia e Chad. E poi Zuwarra, sulla costa occidentale, Zliten e Misrata su quella orientale e alla fine Tripoli, fra l’aeroporto e il campo “Al Fatah”. La Libia è anche questa: località sperdute, dove uomini donne bambini vengono rinchiusi per un tempo che nessuna legge delimita. Si è arrestati casualmente, mentre si lavora o quando si varca il confine, incarcerati anche per mesi e mesi in condizioni inumane o rispediti nel paese di origine. Non tutti sopravvivono al viaggio.

La missione tecnica che si è recata in Libia dal 27 novembre al 6 dicembre scorso, frutto di un progetto comune fra le autorità del paese e della Commissione Europea – due membri erano italiani – ha redatto un rapporto agghiacciante di oltre 70 pagine, reso noto il 14 aprile ma tenuto fino a ieri sotto silenzio

Imbarazzanti i risultati. La missione aveva lo scopo di valutare le misure da prendere per contrastare i fenomeni di “immigrazione illegale” dai paesi dell’Africa Sub Sahariana verso la Libia, paese divenuto attraente per le opportunità di lavoro che oggi offre, nel quadro di un processo di cooperazione fra Libia e Europa. L’intento sembrava quasi quello di contribuire ad attuare in quel paese quanto si va realizzando nel continente europeo, rafforzandone il ruolo di “Stato cuscinetto” o di frontiera esterna priva di quei vincoli legislativi e umanitari che sopravvivono nel vecchio continente.

Ma la realtà che emerge inchioda alle proprie responsabilità la politica italiana. Se già dalla fine degli anni novanta la Libia, ancora sotto stretto embargo, veniva vista dal governo italiano come un paese chiave con cui interloquire, è nell’estate del 2000 che vengono siglati accordi comuni di carattere generale in materia di lotta al terrorismo, al crimine organizzato, al traffico di stupefacenti e in primis all’immigrazione illegale. Nel settembre 2002, con il governo Berlusconi, si forma un comitato congiunto che inizia ad operare nel luglio 2003.

Dal 2003 ad oggi gli incontri si sono intensificati e l’Italia ha approvato e finanziato un programma di voli charter per i rimpatri, la costruzione di un campo di trattenimento nel nord del paese – cosa finora negata dal Governo – e, con la finanziaria del 2004 /2005, la realizzazione di altri due campi nel sud. Non basta, si è intensificata la cooperazione fornendo strumenti di supporto e corsi di formazione alle forze di polizia locale. Il risultato? Il governo italiano ha pagato dall’agosto 2003 alla fine del 2004 quarantasette voli charter per rimpatriare circa 5800 immigrati dalla Libia verso i paesi d’origine. Fra questi i 109 rimandati in Eritrea il 21 luglio scorso sono stati considerati dal proprio governo disertori, se ne ignora la sorte. Tra il materiale inviato: materassi, automobili, binocoli per vedere durante la notte, tute da sommozzatore, e, per dare un tocco di pietà, un migliaio di sacchi per cadaveri.

La condizione nei campi di trattenimento è descritta spesso come inumana: promiscuità, carenza di igiene e di cibo, incertezza del proprio futuro e assenza di legalità costituiscono la norma. Il rapporto è giunto ad alcuni parlamentari come la Verde Tana De Zulueta e l’indipendente per il Prc Francesco Martone. E’ quest’ultimo a ricordare come le risposte alle tante interrogazioni, interpellanze e richieste presentate al governo rispetto al proprio operato in Libia, avevano soltanto confermato le perplessità iniziali.