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Pds per motivi religiosi – E’ possibile convertirlo in lavoro rimanendo in Italia?

Diamo conto di questo quesito perché rappresenta un problema che normalmente non ci si pone. Di solito succede che il personale religioso straniero sia utilizzato nell’ambito di attività svolte anche a scopo di lucro, come l’insegnamento presso le scuole private o istituti di cura, convitti estivi, centri vacanze, ma senza essere inquadrato come lavoratore subordinato. In altre parole queste persone non hanno diritto ad una paga, né ad un versamento di contributi per le varie forme di previdenza considerate obbligatorie. Ciò perché non si considera che il contributo svolto da un religioso, nell’ambito della vita della congregazione e delle relative attività, anche rivolte all’esterno, sia una forma di vero e proprio lavoro dipendente, nonostante la presenza delle condizioni tipiche della subordinazione. Questa attività continua invece ad essere considerata come rientrante all’interno degli impegni che un religioso prende con i voti, non costituendo lavoro in senso giuridico (come quando si dice che nell’ambito familiare le attività di assistenza che ci si presta reciprocamente tra familiari non costituiscono una forma di lavoro, ma una espressione del vincolo affettivo).
Considerato che dal punto di vista legale questo tipo di attività dei religiosi non si considera tecnicamente lavoro, stupisce –ma non dispiace affatto– che in questo caso ci si preoccupi di dare un regolare stipendio all’interessata, versando, quindi, regolari contributi.
Esiste però una sfasatura tra la qualificazione giuridica e la realtà delle cose. Sappiamo bene che vi sono organizzazioni di notevole entità che svolgono prestazioni che forse non hanno come scopo principale quella del guadagno, ma che certo possono comportarlo, come appunto scuole private, materne, convitti, ecc. Nell’ambito di queste attività, grazie anche alla crisi della vocazione, vengono impiegati molti religiosi provenienti da svariati paesi (Filippine, India, Perù) come insegnanti, assistenti aministrativi, bidelli, animatori, educatori, operatori di assistenza, infermieri; si tratta di figure che hanno un loro esatto corrispondente nelle mansioni di un lavoratore normalmente e regolarmente inquadrato. Capita talvolta di verificare nella pratica che le organizzazioni religiose si prestino o si scambino tra loro personale religioso mandato a rinforzo in una struttura, diversa da quella gestita dalla propria organizzazione religiosa, proprio per consentire all’altra struttura di svolgere la propria attività, che ha anche un contenuto evidentemente economico.
Se da un lato la giurisprudenza della Corte di Cassazione è ferma per il momento nel ritenere che chi ha preso i voti, se anche lavora agli ordini della propria congregazione, non è un lavoratore e non ha diritto a paga e contributi, è anche vero che nel caso diverso di un religioso che venga messo a lavorare in una struttura diversa dalla propria, dove svolge attività di carattere e contenuto economico, si potrebbe sostenere che siamo in presenza di un lavoratore non regolarmente inquadrato. Occorre però precisare che su tali questioni, al momento, non vi è altra giurisprudenza rispetto a quella che esclude qualsiasi ipotesi di lavoro subordinato.
Ecco che quindi la preoccupazione che si pone questa Parrocchia in provincia di Como è quasi eccessiva e da apprezzare tantissimo perché la scelta di far lavorare una persona con un regolare stipendio sembra più corrispondente all’equità sostanziale. Tuttavia è difficile dire che sia possibile fare una scelta diversa. Infatti questa Parrocchia dovrebbe andare contro corrente rispetto alle usanze che si praticano nell’ambiente dell’organizzazione ecclesiastica. E potrebbe anche suscitare qualche “disappunto” ad alti livelli perché, se dovesse prendere piede questa pur apprezzabile abitudine di “mettere in regola” il personale religioso che lavora in queste strutture, cambierebbe drasticamente l’economia di larghi strati delle organizzazioni ecclesiastiche.
Quello che però non è impedito – quindi dal punto di vista strettamente legale non è escluso – è che all’interno della congregazione religiosa e con un appartenente ad essa, si possa anche stipulare un valido contratto di lavoro per lo svolgimento di una determinata attività.
La suora che dovrebbe essere impiegata nell’asilo in questo caso è extracomunitaria, quindi soggetta al regime normativo previsto per questi lavoratori. Il T.U. sull’Immigrazione non prevede la conversione del pds da motivi religiosi a motivi di lavoro subordinato e, quindi, teoricamente, di fronte ad una richiesta di conversione da presentarsi in questura o presso lo Sportello Unico in Prefettura, dovrebbe essere data una risposta negativa perché non c’è una base legale per questa possibilità.
Certo, ci sarà sempre la possibilità di utilizzare le normali quote (art. 3, testo Unico sull’Immigrazione).
L’interessata è in Italia regolarmente per motivi religiosi ed ha tutto il diritto di ivi rimanere. Se poi si vorranno utilizzare le quote è possibile farlo, ma quello che ancora resta in dubbio è se, al momento in cui venisse rilasciata l’autorizzazione con il sistema delle quote, sarà possibile convertire il permesso direttamente, restando in Italia, o se invece –come temiamo– sarà necessario rientrare nel paese di provenienza ed ottenere il visto d’ingresso per lavoro.