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da La Stampa on line del 20 agosto 2006

La strage più assurda

Affogano sotto gli occhi dei soccorritori

Lampedusa. Il Canale di Sicilia ha inghiottito altre vittime nel buio della notte. Il mare, che è diventato l’autostrada degli immigrati che salpano all’avventura dai porti libanesi, continua a riempirsi sempre più di cadaveri.

L’ultima tragedia è avvenuta venerdì notte, intorno alle 3,30, quando un barcone con almeno 120 immigrati a bordo si è rovesciato, affondando quando si trovava a nove miglia a Sud di Lampedusa: 10 i morti accertati (tra cui 4 donne), una quarantina i dispersi, 70 i superstiti, tutti in buone condizioni di salute salvo due, attualmente ricoverati in Rianimazione al «Civico» di Palermo.

Gli investigatori hanno individuato cinque persone che sono sospettate di essere gli scafisti e per questa accusa sono state arrestate. Nel tratto di mare in cui si consuma la tragedia è buio pesto, la corvetta «Minerva» si avvicina al barcone carico di immigrati. Quando la nave è a pochi metri i clandestini urlano e si spostano quasi tutti su una fiancata con le braccia tese verso i soccorritori; la barca ondeggia, viene urtata dalla nave militare durante la manovra di avvicinamento provocando il panico tra gli immigrati.

E’ un attimo: donne e uomini cadono in mare mentre il barcone si rovescia; dalle scialuppe gli uomini della «Minerva» cercano di salvarli. L’allarme, secondo il comando della Capitaneria di porto di Palermo, è stato rilanciato alla sala operativa della Guardia costiera del capoluogo siciliano dalla nave della Marina militare, impegnata nell’attività di vigilanza. Le condizioni meteo in zona erano di mare mosso e vento da Sud ovest forza 4. Il viaggio della speranza sarebbe iniziato tre giorni fa dal porto libico di Al Zuwara.

Una marocchina di 26 anni, sopravvissuta, ricorda ogni dettaglio di quei momenti terribili. Si aggrappa agli uomini della Guardia costiera che hanno soccorso i 70 naufraghi e racconta, tra i singhiozzi, gli attimi che hanno preceduto la tragedia: «Quando abbiamo visto la nave italiana avvicinarsi abbiamo pensato di essere in salvo; poi c’è stato l’urto. L’imbarcazione ha sbattuto contro la prua del nostro barcone, tutti hanno cominciato a gridare, a spingere, ad indietreggiare. I

n pochi minuti mi sono trovata in acqua». La giovane sopravvissuta trema ancora di paura e aggiunge: «Ci siamo capovolti pochi minuti dopo l’impatto con la nave. Molti compagni sono rimasti schiacciati dal peso dell’imbarcazione; altri non sapevano nuotare. Li ho visti sparire tra le onde; il mare era agitato. Altri ancora non sono riusciti a restare a galla, chiedevano aiuto, gridavano, ma noi non potevamo fare nulla, pensavamo solo a salvarci».

La Procura di Agrigento ha aperto un’inchiesta per accertare le cause della strage; i magistrati stanno valutando l’ipotesi di un errore di manovra nell’affiancamento del barcone da parte della nave della Marina, come sostenuto da alcuni sopravvissuti durante gli interrogatori nel Centro di prima accoglienza; altri superstiti, invece, hanno raccontato che sarebbe stato il movimento di massa nel barcone a provocare il ribaltamento. Due ipotesi non necessariamente alternative tra di loro: visto che il naufragio potrebbe essere stato determinato da una serie di concause.

Il procuratore di Agrigento Ignazio De Francisci, l’aggiunto Claudio Corselli, e il Pm Pier Forna, che coordinano l’inchiesta, ipotizzano il reato di disastro colposo contro ignoti. L’ennesima strage di clandestini rischia dunque di provocare uno strascico di polemiche anche dal punto di vista giudiziario. Del resto non sarebbe la prima volta: nel marzo del 2002 un’altra tragedia del mare avvenuta al largo di Lampedusa, con 12 cadaveri recuperati e alcune decine di dispersi, era sfociata in un’indagine a carico della Marina Militare. Un barcone carico di clandestini si era infatti ribaltato mentre veniva trainato da un motopesca.

I magistrati ipotizzarono il reato di omissione di soccorso perché la nave «Cassiopea» non aveva effettuato il trasbordo degli immigrati; l’inchiesta venne archiviata dopo che il comandante dimostrò di avere collaborato alle operazioni di soccorso, spiegando che il trasbordo non era stato reso possibile dalle proibitive condizioni meteo che avrebbero potuto provocare lo speronamento dell’imbarcazione. Intanto proseguono le ricerche dei dispersi. Le operazioni, coordinate dalla Capitaneria di Porto di Palermo, sono state impegnate per tutta la giornata le motovedette di stanza a Lampedusa, si estendono su un raggio di circa otto miglia.

Tutti i 70 naufraghi, tra cui tre donne, sono stati trasferiti nel centro di prima accoglienza dell’isola; due di loro, con problemi di respirazione e sintomi di assideramento, sono stati subito trasferiti in eliambulanza nell’ospedale Civico di Palermo. Ai soccorritori i sopravvissuti hanno raccontato di essere partiti tre giorni fa dal porto libico di Al Zwara, crocevia per le organizzazioni criminali dedite al traffico di clandestini. Un viaggio senza ritorno per una quarantina di sventurati, molti dei quali poco più che bambini, che avevano pagato duemila dollari per salire su quel traghetto della morte.

I medici che hanno assistito i sopravvissuti al naufragio hanno accertato che sono pieni di graffi lasciati da chi, per resistere, si è aggrappato con tutte le forze al compagno. E nel cpt gli investigatori hanno ascoltato le testimonianze che ricostruiscono le fasi del ribaltamento. Emerge così che la carretta imbarcava acqua già durante la navigazione. Dopo l’urto la falla si è allargata. A questo punto la nave italiana si è allontanata, mettendo in acqua le scialuppe e attendendo le motovedette.

Al porto di Lampedusa i migranti scoprono di avere perso in mare i propri cari. Un palestinese di 32 anni partito insieme ai quattro fratelli quando è arrivato un interprete gli ha comunicato che i quattro fratelli che erano con lui erano annegati. Ma i primi a morire sono stati i più piccoli. Gli immigrati raccontano che sull’imbarcazione affondata ce n’erano almeno una decina. Avevano tra i 10 e i 14 anni. «Li abbiamo visti affogare – raccontano – tendere la mano per chiedere aiuto e sparire in acqua».