Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Contrasto delle migrazioni irregolari via mare e diritti fondamentali dei migranti.

di Fulvio Vassallo Paleologo, ASGI

La nostra terra inghiottita non esiste sotto i piedi,
nostra patria è una barca, un guscio aperto.
Potete respingere, non riportare indietro, è cenere
dispersa la partenza, noi siamo solo andata.
( Erri De Luca)

I cd. “sbarchi di clandestini” nelle regioni meridionali, e particolarmente in Sicilia, non rappresentano che una minima parte degli immigrati che ogni anno entrano irregolarmente in Italia. Secondo le stime del Ministero dell’interno si tratta di un numero di persone oscillante tra 15 e 20 mila unità all’anno, numero assai esiguo se si paragona con il numero degli immigrati che entrano regolarmente nel nostro paese con un visto di ingresso breve e poi si fermano oltre la durata del permesso di soggiorno, o dei migranti che attraversano irregolarmente le frontiere terrestri. I dati delle regolarizzazioni periodiche ( nel 1995, nel 1998 e nel 2002) dimostrano che il numero degli irregolari in situazione di clandestinità si aggira attorno ad una cifra complessiva che si colloca tra 150 e 200 mila persone l’anno. Si può quindi ritenere che gli sbarchi costituiscano solo il 10-14 per cento dell’immigrazione cd. clandestina. Nessun pericolo dunque di un “assalto” alle nostre coste da parte di milioni di immigrati presenti nei paesi nord-africani, divenuti ormai paesi di immigrazione oltre che paesi di transito. Nessun pericolo dalle carrette del mare per la nostra “integrità territoriale”(!) o per l’ identità religiosa del popolo italiano. Soprattutto nessuna necessità di dare esempi “ per non creare precedenti pericolosi”, “mostrando i muscoli”, inasprendo le norme e le prassi di contrasto dell’immigrazione clandestina via mare al fine di scoraggiare i cd. viaggi della speranza, o perseguendo accordi internazionali che assumono troppo spesso il carattere delle operazioni di facciata ( come Frontex, se si considera il rapporto tra le risorse impegnate ed i risultati effettivamente conseguiti). Come si osserva in un recente rapporto di Amnesty, malgrado le autorità italiane riconoscano che il cosiddetto “fenomeno degli sbarchi” sia in realtà composto per lo più da “naufragi o (…) situazioni a grave rischio, vuoi per le cattive condizioni meteorologiche, vuoi per la fragilità dei natanti”, diversi interventi istituzionali, negli anni passati, “hanno considerato gli arrivi alla frontiera marittima come una minaccia alla sicurezza nazionale, includendo esplicitamente la loro diminuzione tra i risultati rilevanti delle politiche italiane in questo campo”.
Una sanzione penale indiscriminata degli interventi di salvataggio di vite umane a mare, dissuadendo o ritardando gli interventi di soccorso può aumentare il numero di tragedie senza diminuire apprezzabilmente il numero degli ingressi illegali. Con l’inasprimento delle pene e l’ampliamento delle fattispecie incriminatici, dopo la legge Bossi Fini, non sembra certo diminuito il numero di immigrati sbarcati a Lampedusa ed in Sicilia ( ma più spesso salvati dai mezzi della Marina italiani, delle Capitanerie di porto, della Guardia di Finanza), mentre è sicuramente in crescita, pur rimanendo imprecisato, il numero dei morti e dei dispersi durante i cd. “viaggi della speranza”. E sempre più spesso, tra le vittime, donne e bambini, come si è verificato ancora nel corso del 2005 e del 2006.
Le azioni di contrasto a mare dell’immigrazione clandestina poste in essere dall’Italia a partire dalla tragica vicenda della Kater I Rades nel marzo del 1997, all’indomani della firma degli accordi di pattugliamento congiunto con l’Albania, fino ai casi più recenti registrati nel Canale di Sicilia a partire dal 2002, con la vicenda del motopesca Elide,e poi ancora negli anni a seguire, in cui successive intese di polizia hanno sviluppato una cooperazione informale con le autorità libiche, ancora segreta nei suoi risvolti operativi, si sono basate su una drastica distinzione tra i migranti economici ed i potenziali richiedenti asilo. Come se fosse possibile accertare questi status prima ancora che i migranti facessero ingresso nel territorio italiano o, una volta giunti a Lampedusa, secondo procedure che sono state censurate da tutte le commissioni internazionali che hanno visitato l’isola negli anni passati. Censure che hanno costretto già il precedente governo a mutare la destinazione di Lampedusa, declassando il centro di permanenza temporanea ( nel quale le convalide avvenivano una tantum, in un centro di prima accoglienza (chiuso) dove oggi i migranti non restano più di 48 ore, nei limiti quindi di quanto previsto dall’art. 13 della Costituzione italiana.
Porte aperte ( a parole) nei confronti dei profughi, o meglio di coloro che venivano ritenuti tali dalle autorità di polizia, respingimenti in mare, accoglienza dietro le sbarre, detenzione amministrativa nei centri di permanenza temporanea, accompagnamento forzato verso i paesi di provenienza o di transito, anche a costo di identificazioni sommarie e di uno scarso rispetto per i diritti fondamentali della persona, per tutti gli altri.
Il problema dei flussi migratori misti è stato trascurato per anni, e la sottovalutazione di questo fenomeno ha portato alla negazione sostanziale del diritto di asilo ed al puntuale fallimento di tutte le leggi, sempre più drastiche che sanzionavano l’immigrazione irregolare. In assenza di una normativa organica che desse attuazione all’art. 10 della Costituzione, la sottovalutazione della natura composita dei flussi migratori ha comportato il respingimento ( anche differito, per ordine del questore) di molti potenziali richiedenti asilo ed un drastico ridimensionamento delle possibilità effettive di accesso alla procedura di asilo o di protezione umanitaria.
Il 10 luglio di questo anno L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati ha invitato i governi e le organizzazioni regionali, internazionali e non governative a collaborare al fine di sostenere i diritti dei migranti nell’ambito dei flussi migratori misti, nell’ambito dei quali si spostano sia migranti economici che potenziali richiedenti asilo, seguendo rotte e modalità di trasporto simili. Pur riconoscendo che i controlli alle frontiere sono essenziali per contrastare il traffico e la tratta di esseri umani e per prevenire minacce alla sicurezza, si è rilevata la necessità di garanzie pratiche di protezione per far sì che tali misure non vengano applicate in maniera indiscriminata o sproporzionata e che esse non portino al respingimento di migranti in paesi nei quali la loro vita o la loro libertà potrebbe essere a rischio. Secondo l’Alto Commissario, comunque, “rifugiati, richiedenti asilo e migranti continueranno ad entrare in Europa, anzi, il processo di globalizzazione e il mutamento demografico sono tali che il loro numero sembra dover aumentare nei prossimi anni”.
Anche al Ministero dell’interno si va lentamente prendendo atto di questo fenomeno al punto che dal 1° marzo scorso è in atto un progetto, denominato “Praesidium: potenziamento delle capacità di gestione dei flussi migratori misti in emergenza nell’isola di Lampedusa”, in virtù di una Convenzione siglata tra il Ministero dell’Interno – Dipartimento della Pubblica Sicurezza – Direzione Centrale dell’Immigrazione e della Polizia delle frontiere e la Croce Rossa Italiana.
Questi importanti riconoscimenti della natura composita delle migrazioni che dall’Africa, e dalla Libia in particolare, si rivolgono verso la Sicilia, ed in misura prevalente verso Lampedusa sono giunti con grave ritardo, dopo flussi che si sono intensificati soprattutto dopo il 2001 per effetto di gravi crisi umanitarie, come il conflitto nel Darfur, e le crisi in Somalia ed in Eritrea, oltre che per il drastico ridimensionamento delle possibilità di ingresso legale, effetto della legge n. 189 del 2002. Ancora nel 2004 invece, durante l’azione di salvataggio della nave tedesca Cap Anamur, si è discusso per settimane della nazionalità dei naufraghi, come se l’attribuzione della nazionalità fosse una condizione per la legalità dell’intervento di salvataggio, come se i flussi d’ingresso dei potenziali richiedenti asilo fossero affatto diversi di quelli dei migranti economici.
Anche in quel caso si trattava di flussi migratori misti, con migranti provenienti dalla Sierra Leone, dal Sudan, dalla Nigeria, tanto musulmani che cristiani, dal Ghana. L’esperienza maturata a partire dal 2001 nell’isola di Lampedusa ed i dati raccolti dalle numerose delegazioni italiane e straniere che hanno visitato l’isola, come le testimonianze di centinaia di migranti transitati da Lampedusa e rimessi in libertà dopo il trattenimento nei centri di detenzione italiani,confermano la presenza ormai inconfutabile, in ogni tentativo di traversata, di persone provenienti da diverse regioni dell’Africa, settentrionale, sub-sahariana e dal Corno d’Africa ( Somalia, Eritrea, Etiopia).

La legge Bossi Fini ed il successivo Decreto interministeriale del 19 giugno del 2003 definivano le competenze delle diverse autorità militari operanti nel Canale di Sicilia individuando nella “ Direzione centrale dell’immigrazione e della polizia delle frontiere del Dipartimento di pubblica sicurezza del Ministero dell’interno” l’autorità centrale competente a coordinare gli interventi di sorveglianza e di salvataggio delle diverse amministrazioni. La legge ed il decreto interministeriale stabiliscono che nelle acque territoriali le responsabilità degli interventi di soccorso siano affidate primariamente al Corpo delle capitanerie di porto, mentre nelle acque contigue ( di estensione non meglio definita) e nelle acque internazionali le stesse responsabilità sono affidate alla Marina Militare. Nel corso del 2005 i mezzi navali italiani hanno salvato oltre 7.000 migranti, mentre si hanno scarne notizie sull’esiguo numero di persone salvate da unità maltesi o libiche nelle loro acque territoriali o nelle acque che sarebbero di competenza di questi paesi per gli interventi di soccorso. Negli incontri tra le organizzazioni non governative e la Commissione De Mistura, istituita dal Ministero dell’interno per ispezionare i centri di detenzione amministrativa in Italia, è emersa la conferma che una buona parte di coloro che sono scampati ad un sicuro naufragio, sbarcati a Lampedusa e poi trattenuti nei CPT , giudicati sommariamente come “clandestini” ( e come tali destinatari di provvedimenti di espulsione o di respingimento dalle Questure di Agrigento e di Ragusa) erano in realtà richiedenti asilo, come accertato successivamente anche dagli esiti delle istanze presentate alle nuove commissioni territoriali istituite per il riconoscimento dello status di rifugiato. Una conferma ulteriore, quindi ,del carattere composito dei movimenti migratori che attraversano il canale di Sicilia, conferma che purtroppo ricorre puntuale nelle tragedie che segnano periodicamente la storia dell’immigrazione in questa parte del Mediterraneo. Tra le vittime, sempre più spesso somali, eritrei sudanesi, e tanti altri migranti che provengono dalle nuove zone di crisi, come il Togo o il Ciad. E l’elenco delle aree di fuga si allunga ogni giorno senza che gli strumenti legislativi e gli apparati di controllo ne tengano minimamente conto.

Appare dunque evidente la necessità di garantire a tutti i migranti che giungono via mare in prossimità delle coste italiane, in particolare nel Canale di Sicilia, anche quando sono intercettati in acque internazionali, lo sbarco e l’accesso alla procedura di asilo in Italia, dal momento che i criteri stabiliti dalla Convenzione di Dublino non possono certo servire a rimandare verso Malta i migranti che sono transitati non dalle acque maltesi ma dalla zona che in base alla Convenzione di Amburgo del 1979 sarebbe di competenza degli interventi di soccorso di quello stato, una zona peraltro nella quale sono assai spesso le unità italiane, con l’avallo delle autorità maltesi, a prestare interventi di soccorso, accompagnando poi i migranti verso i porti di Lampedusa e di Pozzallo. Ancora più evidente questa necessità quando gli interventi di salvataggio avvengono ai limiti delle acque territoriali libiche, per la mancanza di unità di soccorso libiche e soprattutto per la mancata adesione della Libia alla Convenzione di Ginevra, oltre che per la miserabile condizione nella quale le autorità libiche detengono gli immigrati irregolari respinti in Libia dai paesi europei (condizioni sulle quali si sono soffermate inchieste assai ben documentate del Parlamento Europeo, di Amnesty e di Human Rights Watch).
Se i pattugliamenti congiunti, coordinati dall’Agenzia europea Frontex, dovessero servire effettivamente a realizzare interventi di respingimento a mare ( come in qualche occasione è avvenuto verso la Tunisia ed il Marocco già nell’estate del 2006) non vi sarebbe nessuna garanzia per l’accesso alla procedura di asilo e comunque per i diritti fondamentali della persona riconosciuti dalle Convenzioni internazionali anche ai migranti irregolari.
Si potrebbe inoltre realizzare una grave violazione del divieto di respingimento collettivo, sancito dall’art. 4 del Protocollo aggiuntivo n.4 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo, disponendosi una misura di allontanamento forzato dalle nostre frontiere marittime senza procedere ad una identificazione individuale e dunque senza una cognizione, sia pure sommaria, delle singole posizioni individuali e dei motivi del loro tentativo di ingresso in Italia.
Gli accordi di riammissione e di cooperazione nel contrasto dell’immigrazione clandestina dovranno essere riformulati tenendo conto che gli obblighi degli Stati verso i migranti in mare, quale che sia la loro provenienza, non possono essere attenuati dalle esigenze di ordine pubblico interno tendenti a contrastare l’immigrazione clandestina. Solo una volta giunti a terra, in un paese nel quale siano riconosciute le libertà democratiche fondamentali, a partire dal diritto di asilo e di protezione umanitaria, si potrà procedere ad una identificazione individuale ed all’espulsione di quanti non avessero diritto all’ingresso nel territorio nazionale. Ma tutto questo nel quadro di una profonda riforma della normativa nazionale sull’immigrazione e sull’asilo che riformuli le ipotesi di espulsione, introduca forme individuali di regolarizzazione successiva, con lo svuotamento degli attuali centri di detenzione, riconducendo le limitazioni alla libertà personale a quanto previsto dall’art. 13 della Costituzione italiana. Anche in questo quadro sarebbe possibile dare effettività alle espulsioni ed ai respingimenti, come richiesto dagli accordi di Schengen, senza misure detentive generalizzate, tanto vessatorie quanto inefficaci, come l’esperienza di questi anni ha dimostrato, in base a quanto emerso dalla documentazione fornita negli incontri che la Commissione De Mistura ha effettuato durante le visite ai centri di detenzione italiani.
Solo una collaborazione con i paesi di provenienza che accresca le possibilità di ingresso legale e favorisca la cooperazione allo sviluppo, nel rispetto dei diritti fondamentali della persona umana, potrà consentire una maggiore salvaguardia della vita umana a mare, rallentando i flussi migratori irregolari. Come insegna l’esperienza di tutti i pesi di immigrazione, anche quelli caratterizzati dalle normative più drastiche, i “viaggi della speranza” potranno diminuire ma continueranno comunque. Come insegna la tragica fine di Mohammed Yussif , naufrago salvato dalla Cap Anamur nel 2004, espulso in Ghana, annegato nel mese di aprile del 2006 durante un successivo tentativo di ingresso in Italia, sulla rotta tra la Libia e Lampedusa.
Occorre una depenalizzazione sostanziale di tutti gli intereventi di soccorso a mare che non sono diretti ad eludere i controlli ma che possono anticipare il momento del salvataggio e salvaguardare la vita umana. Di fatto la cd. esimente umanitaria, dettata dall’art. 12 del T.U. sull’immigrazione per coloro che prestano soccorso ed assistenza umanitaria agli immigrati irregolari nel territorio italiano, non è servita a proteggere quanti prestavano soccorso in acque internazionali, come si è verificato in numerosi casi, il più eclatante di tutti, quello della nave tedesca Cap Anamur nel 2004. E dire che proprio la Cap Anamur apparteneva ad una organizzazione non governativa dedicata istituzionalmente agli interventi di salvataggio a mare . La stessa nave godeva di un riconoscimento formale da parte delle autorità marittime tedesche come un mezzo destinato ad interventi umanitari, ma questo non è bastato ad evitare che il presidente del Comitato Cap Anamur, il comandante della nave ed il suo secondo finissero sotto processo.

Se si dovesse mantenere, o aggravare ulteriormente l’ inasprimento delle normative e delle sanzioni contro l’immigrazione clandestina introdotto nel 2002 dalla legge n.189 ( cd. legge Bossi Fini) si farà soltanto la fortuna dei trafficanti del mare e si accrescerà ancora il numero già insopportabile delle vittime, mantenendo un impianto penalistico talmente rimesso alla discrezionalità dell’autorità amministrativa ( che può concorrere a posteriori alla definizione delle fattispecie incriminatici) da mettere in dubbio il principio di legalità, cardine della responsabilità penale individuale.
Non si possono ritenere atti di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina interventi di soccorso prestati dai mezzi commerciali e dalle unità navali impegnate nella pesca, quali che siano i tempi e le modalità degli interventi di salvataggio, anche tenendo conto della natura comunque mista dei flussi di ingresso, e della concreta impossibilità di stabilire in mare aperto, subito dopo l’intervento di salvataggio, la nazionalità dei naufraghi. In numerosi casi ( oltre il 50 per cento) neppure lo Stato ci riesce dopo 60 giorni di detenzione nei centri di permanenza temporanea. Non si può imputare a chi conduce una unità navale in acque internazionali di non avere effettuato quel riconoscimento -con la attribuzione della nazionalità- che neppure lo Stato, avvalendosi di impronte digitali, fotografie ed agenti consolari riesce a effettuare. E non sono mancati casi, anche a ridosso della vicenda della Cap Anamur nel 2004, nei quali sono state espulse in paesi diversi da quello di provenienza persone che potevano ottenere in Italia il riconoscimento dello status di rifugiato ( come un cittadino della Sierra Leone in Ghana).
Il Protocollo sottoscritto a Palermo nel 2000 contro il traffico dei migranti afferma la prevalenza degli obblighi di protezione derivanti dal diritto umanitario internazionale, dalla CEDU e dalla Convenzione di Ginevra. E il Codice penale italiano prevede comunque all’art. 54 la esimente dello stato di necessità: il salvataggio di vite umane a mare, quella situazione di stato di necessità che può desumersi anche da elementi oggettivi senza che una valutazione discrezionale possa negarne successivamente l’esistenza. Il diritto internazionale del mare comprende nelle attività di soccorso a mare anche l’assistenza sanitaria ed il trasporto in luogo di sbarco sicuro ( delivery to a place of safety) anche in considerazione degli obblighi di protezione dei diversi stati e dell’ effettiva garanzia dei diritti fondamentali delle persone salvate, offerta dai paesi rivieraschi.

Non vorremmo che si ripetesse ancora il caso del peschereccio Cartagena di Mazara del Vallo che nel pomeriggio del 22 marzo del 2005, poco prima di sera, aveva avvistato a sud di Lampedusa una barca di dieci metri carica di un centinaio di migranti, proseguendo nella navigazione dopo avere lanciato l’allarme via radio ed allontanandosi dopo avere saputo dell’intervento della marina militare. Di quella imbarcazione e dei suoi disperati occupanti scomparsi nella notte non è rimasta alcuna traccia. Vogliamo sperare che siano comunque sopravvissuti, ma nessuno saprà mai la verità.
E non vorremmo neppure che le grandi navi commerciali continuino ad ignorare sistematicamente le imbarcazioni dei migranti in procinto di affondare. In base al diritto internazionale i comandanti di queste navi hanno l’obbligo di salvare ogni persona che si trovi in pericolo di vita a mare lungo la loro rotta. Come testimoniano molti superstiti delle ricorrenti tragedie dell’immigrazione clandestina, troppo spesso i comandanti di queste grandi unità non si fermano in prossimità di “carrette del mare” sempre più piccole (per sfuggire ai controlli), in evidenti condizioni di instabilità anche con il mare calmo, e dunque di fronte a situazioni di grave pericolo per le persone. Spesso, prevale la paura di restare bloccati dai controlli di polizia con il rischio di compromettere il risultato economico del viaggio. Occorre ribadire la necessità che anche le navi commerciali concorrano alla salvaguardia della vita umana a mare, sbarcando poi i migranti nel porto che riterrà più opportuno il comandante, rispetto alla rotta ed ai tempi del viaggio, a condizione però che si tratti di un luogo nel quale sia possibile avere accesso alla procedura di asilo, godere della libertà personale, dell’assistenza di un interprete e di efficaci mezzi di ricorso legale. Come prescritto dalle direttive comunitarie e dalle Costituzioni nazionali.Nulla di più di quello che dovrebbe garantire un paese democratico. Nulla di più di quello che qualunque paese stipuli un accordo di riammissione dovrebbe garantire ai democratici governi della fortezza Europa.