Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

I limiti dei diritti umani: l’esempio emblematico del diritto d’asilo

di Alessandra Sciurba, Università di Palermo

Nel IX capitolo de “Le Origini del Totalitarismo”, intitolato “Il tramonto dello stato nazionale e la fine dei diritti umani”, infatti, Hannah Arendt si concentra a lungo sulla figura dell’apolide nel contesto della fine della prima guerra mondiale, quando frettolosi accordi di pace e violente rivoluzioni provocarono un continuo e sempre crescente afflusso di profughi.
In questo testo gli apolidi vengono definiti innanzitutto come soggetti che hanno subito delle perdite:
la prima perdita da loro subita è quella della patria”, mentre “la seconda perdita è stata quella della protezione del governo che implicava la perdita dello status giuridico in tutti paesi, e non soltanto nel proprio”.

La Arendt mette in luce perfettamente ciò che ancora oggi possiamo considerare uno dei nodi fondamentali di qualunque discorso relativo alla possibile tutela dei diritti umani in generale, e alla tutela del diritto d’asilo in particolare: il rapporto tra la proclamata seppur problematica universalità dei diritti in questione, e il fatto che, storicamente, tali diritti risultano almeno in parte tutelati solo per chi è titolare di statuti giuridici ben definiti legati al possesso della cittadinanza. Per di più, come appare evidente prendendo in analisi la realtà globale contemporanea, non solo è necessario essere titolare di una cittadinanza in generale ma, in particolare, si hanno molte più possibilità di vedere garantiti i propri diritti se si è possessori di determinate cittadinanze “forti” piuttosto che di altre più deboli perché di Stati meno potenti dal punto di vista politico ed economico.

Come ci spiega la Arendt, “l’ambiguità” del sistema dei diritti umani legata al problema della loro attribuzione, inizia già con l’enunciazione del titolo del testo in cui vengono positivizzati all’indomani della Rivoluzione francese: la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Parlando di “cittadino” come attributo sostanziale dell’uomo in questione, la Rivoluzione francese, infatti, combina da subito la sovranità nazionale con i diritti umani: “l’uomo si era appena affermato come essere completamente isolato, emancipato da qualsiasi autorità e vincolo, come un essere che portava in sé la sua dignità senza riferimento ad un ordine superiore più vasto, che già si riduceva a membro di un popolo

Ciò che, secondo la Arendt rende espliciti ii limiti intrinseci nei diritti e li fa “esplodere” portandoli alle estreme conseguenze è proprio la figura del profugo per come si presenta tra le due guerre mondiali che hanno infestato il XX secolo. Partendo dall’analisi di quella situazione contingente la Arendt arriva a stabilire come, in realtà, “I diritti umani si sono rivelati inapplicabili, persino nei paesi che basavano su di essi la loro costituzione, ogni qual volta che sono apparsi individui che non erano più cittadini di nessuno stato sovrano ”.
Nel caso degli apolidi – sempre più denominati semplicemente come “displaced persons”, con l’esplicito intento di liquidare una volta per sempre l’apolidicità ignorandone l’esistenza – “la privazione della legalità, cioè di tutti i diritti, non ha più alcuna relazione con specifici reati”.(…)Quelli enunciati (nelle varie dichiarazioni) sono diritti spettanti ai cittadini, la cui perdita non comporta l’assoluta mancanza di diritti”. (…) “La disgrazia degli individui senza status giuridico non consiste nell’essere privati della vita, della libertà, del perseguimento della felicità, dell’eguaglianza di fronte alla legge e della libertà di opinione (…), ma nel non appartenere più al alcuna comunità di sorta, nel fatto che per essi non esiste più alcuna legge, che nessuno desidera più opprimerli (…) in altre parole è stata creata una condizione di completa assenza di diritti prima di calpestare il diritto alla vita”. Un esempio per tutti è la sollecitudine con cui i nazisti privarono meticolosamente della cittadinanza tutti gli ebrei tedeschi prima di deportarli verso i lager.
Per la Arendt, dunque, il cuore del problema è che “la privazione dei diritti umani si manifesta soprattutto nella mancanza di un posto nel mondo che dia alle opinioni un peso e alle azioni un effetto”. La cittadinanza, come formalizzazione di un proprio posto nel mondo, sembra essere pertanto l’unica via di accesso possibile all’acquisizione non di uno specifico diritto particolare, ma del generale “diritto ad avere diritti” di cui, secondo Arendt, ci siamo accorti “solo quando sono comparsi milioni di persone che lo avevano perso e non potevano riacquistarlo a causa della nuova organizzazione globale del mondo”.

Proprio nel momento in cui dovrebbero entrare in gioco come sola protezione possibile per un individuo privato di qualunque statuto giuridico e politico, per un uomo cui è rimasta solo “l’astratta nudità” del suo essere uomo, i diritti umani avrebbero pertanto dimostrato tutta la loro fallibilità.
Da quando è stato scritto quel capitolo de Le Origini del Totalitarismo, sono ormai passati quasi sei decenni. In questo relativamente lungo lasso di tempo si sono succeduti vari tentativi di dare al diritto d’asilo, e quindi alla protezione dell’ “uomo senza Stato”, così centrale per la credibilità dell’intera dottrina dei diritti umani, strumenti di garanzia e tutela.

Già nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, all’articolo 14.1 si legge come “ogni individuo ha diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni”. Ma, dopo gli orrori della seconda guerra mondiale le Nazioni Unite decisero di implementare questo diritto anche attraverso la stesura di un’apposita Convenzione dedicata alla definizione e alla tutela dell’asilo, e tramite la creazione di un’apposita Agenzia ONU che avesse come mandato specifico quello di verificarne la reale applicazione nei diversi paesi aderenti e di promuoverla in tutti gli altri. Nel 1951 si assistette così alla promulgazione della Convenzione di Ginevra (cui si è aggiunto poi il Protocollo addizionale di new York del 1967), e alla nascita dell’Unhcr, in italiano Acnur, acronimo di Alto Commissariato Nazioni Unite per i Rifugiati.
Alcuni anni prima, la Costituzione italiana aveva dato una definizione molto inclusiva del rifugiato, stabilendo, all’Articolo 10, che “lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge (…)”.
Anche in tempi più recenti, l’Unione europea, in quanto nuovo soggetto che affacciatosi sulla scena del diritto internazionale, ha sentito il bisogno di dire qualcosa sul diritto d’asilo, introducendo, nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 2000, l’Articolo 18 in cui si legge come “il diritto di asilo è garantito nel rispetto delle norme stabilite dalla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e dal protocollo del 31 gennaio 1967, relativi allo status dei rifugiati e, a norma del trattato che istituisce la comunità europea”.

A questi documenti siglati prevalentemente nel cosiddetto “Nord” del mondo, possiamo aggiungere anche la Convenzione OUA (Organizzazione Unità Africana) sui rifugiati, promulgata ad Addis Abeba nel 1969, e la Dichiarazione di Cartagena siglata invece nel 1984, che definisce rifugiati “coloro i quali fuggono dal loro paese perché la loro vita, la loro sicurezza o la loro libertà è minacciata da violenze generalizzate, un’aggressione straniera, un conflitto interno, massicce violazioni dei diritti umani o altre gravi turbative dell’ordine pubblico”.

Ci troviamo quindi, davanti a quella che potremmo quasi definire una “sovrapproduzione” di Convenzioni, Dichiarazioni e testi di legge vari, volti alla promozione e alla tutela del diritto d’asilo. La situazione, pertanto, dovrebbe oggi apparire molto diversa da quella analizzata da Hannah Arendt più di mezzo secolo fa.
Eppure, ad un’analisi attenta, si scopre che la realtà dei fatti è invece diversa da quella che si potrebbe immaginare leggendo tutti i documenti sopra citati.
A questo punto, infatti, si aprono due diversi ordini di problemi entrambi molto importanti:
– Il primo riguarda la definizione stessa di rifugiato per come è sancita dalla sopraccitata Convenzione. La Convenzione di Ginevra, infatti, è stata elaborata in tempi lontani e differenti da quelli attuali, ovvero in un momento storico in cui, effettivamente, moltissime persone migravano realmente per cause che potremmo definire “politiche” tout court. Nell’attuale sistema politico globale, invece, la classificazione tra rifugiati e migranti appare sempre più forzata, dato che spesso, le ragioni che hanno determinato la partenza delle persone in questione sono una miscela di bisogni economici urgenti e di violazioni di diritti fondamentali. E’ evidente allora come il fatto che anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Ue faccia esclusivo riferimento – in questa materia – alla Convenzione di Ginevra, senza procedere minimamente all’elaborazione di un concetto nuovo di asilo, sia assolutamente un limite alla tutela reale di questo diritto.
Il secondo ordine di problemi riguarda quelli che potremmo definire dei veri e propri “ostacoli” posti in essere dagli Stati cosiddetti “di arrivo” dei migranti rispetto a un efficace esercizio del diritto d’asilo, ostacoli così imponenti da spingere alcuni studiosi a parlare dell’asilo come di un “diritto individuale monco ” o imperfetto al quale non corrispondono delle obbligazioni precise da parte dei singoli Stati.
Partiamo dal presupposto che al “diritto di emigrazione” come diritto “di lasciare qualsiasi paese incluso il proprio” sancito dalla Dichiarazione del ’48 all’Articolo 13 e dai Patti internazionali sui Diritti Civili e Politici del 1976 all’Art.12.2, non corrisponde un “diritto di immigrazione” che presupporrebbe dei doveri di accoglienza da parte degli Stati. La conseguenza di questa “lacuna giuridica” è stata il fatto che, sostanzialmente, tutti i paesi di arrivo dei migranti hanno notevolmente limitato – e in alcuni casi letteralmente impedito – l’accesso legale dei migranti sui loro territori. Pertanto, l’unico diritto che, secondo ordinamenti nazionali e internazionali, i migranti possono rivendicare per non venire espulsi quando attraversano “irregolarmente” una frontiera, è quindi il diritto d’asilo. Ed è appunto per questo motivo che – allo scopo di metter in pratica le sopraccitate politiche di dissuasione delle migrazioni che almeno a partire dagli ultimi trent’anni hanno caratterizzato tanto gli Stati europei quanto gli Stati Uniti e l’Australia – questi paesi hanno dovuto in qualche modo procedere a un graduale “svuotamento” del diritto di chiedere asilo. Oggigiorno, infatti, i migranti vengono fermati “in blocco” tramite i meccanismi di controllo delle frontiere con scarsissime possibilità di verificare il loro potenziale status, e per giustificare tali procedure si è assistito ad un crescente abuso della retorica della “richiesta d’asilo strumentale” che, secondo i governi dei paesi che la ricevono, verrebbe inoltrata dalle persone che arrivano nei nostri Stati per celare il loro status di “semplice” migrante per altri motivi.

Prendiamo ora in esame il caso specifico della gestione del diritto d’asilo da parte dell’Unione europea, dopo aver ribadito ancora una volta la difficoltà, e riteniamo anche l’inadeguatezza, nell’attuale situazione politico-economica, di tracciare una linea di separazione netta tra rifugiati e migranti tout court.
La Convenzione di Dublino del 1990, poi sostituita dal Regolamento cosiddetto “Dublino II” (Ce n.343/2003), cui hanno aderito tutti i paesi dell’Ue ad eccezione dell’Inghilterra e dell’Irlanda, e che determina quale sia lo stato competente per l’esame della richiesta d’asilo di un migrante, è certamente frutto della tendenza ad affrontare le migrazioni come un problema e un’emergenza, e a criminalizzare la figura del richiedente asilo politico. Il principio seguito è quello che la richiesta d’asilo possa essere inoltrata solo nel primo Stato, tra quelli che hanno aderito alla Convenzione, di cui il richiedente asilo ha varcato la frontiera. Lo scopo dichiarato è di evitare le cosiddette “richieste d’asilo multiple”, negando di fatto la possibilità a un rifugiato di vedere valutata la propria situazione da più di un governo diverso. Le conseguenze dirette dell’applicazione di tale Convenzione sono il trasferimento forzato dei migranti da uno Stato all’altro qualora vengano fermati dalla polizia in un paese diverso da quello di primo ingresso, e il fatto che un diniego ricevuto in uno qualunque degli Stati firmatari della Convenzione è immediatamente valido anche in tutti gli altri.
v
A rendere ancora più difficoltosa e inefficace la richiesta di asilo politico da parte di un migrante, è stato poi introdotto nel 1993 in Germania, e poi esteso a tutta l’Unione europea, il Principio dei “paesi terzi sicuri”, ovvero di quei paesi in cui si ritiene di poter espellere migranti e richiedenti asilo in conformità con l’Articolo 19.1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea in cui si legge che “nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti”. Questo articolo è stato in realtà violato moltissime volte dagli Stati membri dell’Unione che hanno spesso deciso di espellere i migranti verso paesi dichiarati sicuri in modo quanto meno opinabile. Un esempio di questo comportamento illegale, oltre che riprovevole, è quello seguito dall’Italia quando, tra il 2004 e il 2005, ha effettuato deportazioni collettive di migliaia di migranti da Lampedusa verso la Libia (paese che non ha neppure firmato la Convenzione di Ginevra), contravvenendo così anche al comma 2 dello stesso Articolo che proibisce espressamente di effettuare espulsioni collettive e al Principio di non refuolement dei richiedenti asilo, sancito dall’Articolo 33 della Convenzione di Ginevra.
A fare da pendant con la Convenzione di Dublino e con il principio dei paesi terzi sicuri esistono poi, in generale, tutti gli Accordi di riammissione dei migranti – verso il paese dal cui territorio i migranti in questione avrebbero transitato- che hanno progressivamente vincolato tutti gli Stati membri e i paesi candidati all’ingresso dell’Unione europea. A loro volta, come era prevedibile, questi paesi hanno sottoscritto accordi con Stati che si trovano a Sud o a Est dei loro confini esterni. Il risultato complessivo di tutte queste procedure è un rimando continuo da uno Stato all’altro dell’onere di gestire i migranti in generale e i richiedenti asilo politico in particolare.
A quanto appena detto si aggiunge inoltre il fatto che, ad oggi, anche nei rari casi in cui un migrante riesca ad inoltrare una richiesta di asilo politico in uno Stato membro dell’Unione europea da lui in qualche modo scelto, è prassi quasi generalizzata che si proceda alla sua detenzione amministrativa per tutto il tempo considerato “necessario” alla valutazione della sua domanda. In Germania, ad esempio, la detenzione amministrativa dei richiedenti asilo può durare fino a un massimo di 18 mesi e in Inghilterra può essere protratta per un periodo di tempo sostanzialmente indefinito. È importante rimarcare che ciò accade nonostante la Convenzione di Ginevra, all’Articolo 31, vieti agli Stati contraenti l’irrogazione di “sanzioni penali, a motivo della loro entrata o del loro soggiorno illegali, contro i rifugiati” e imponga che gli stessi Stati “limitino gli spostamenti di tali rifugiati soltanto nella misura necessaria”, e nonostante anche la recente disciplina comunitaria in materia, contenuta nella Direttiva europea n.9 del 2003 relativa agli standard minimi di tutela dei richiedenti asilo, deplori la loro detenzione come strumento generalizzato. In Italia, da quando è entrata in vigore la Legge n. 189 del 2002, la cosiddetta Legge Bossi-Fini, la detenzione dei richiedenti asilo- eseguita nella maggior parte dei casi nei Cpt, centri di permanenza temporanea dove i migranti vengono rinchiusi per semplici violazioni amministrative, e in minima parte dentro appositi “centri di identificazione”- riguarda il 70% dei soggetti in questione. Infine, la possibilità di ricevere lo status di rifugiato a conclusione di tutto questo percorso è nei fatti quasi nulla, stando a statistiche come quelle che l’Acnur ha elaborato nel 2005 secondo le quali, in Italia, su 9.346 richieste d’asilo inoltrate, i dinieghi sono stati 9.157 . Va detto poi che, anche nei pochi casi in cui i governi decidono di concedere un qualche tipo di protezione, scelgono quasi sempre istituti giuridici come la Protezione temporanea o la Protezione per motivi umanitari, che comportano, per i migranti che le ricevono, diritti molto meno robusti e una tutela molto più precaria.

Su questo già fosco panorama si allunga infine l’ombra ancor più scura delle cosiddette “proposte britanniche del 2003”, ovvero dell’idea promossa dal Regno Unito ma progressivamente accolta da altri paesi dell’Ue di un’esternalizzazione delle procedure di riconoscimento dell’asilo politico al di fuori del territorio dell’Unione, bloccando gli aspiranti rifugiati in quelli che sono stati ambiguamente definiti “portali dell’immigrazione” o “Transit processing center”, nella realtà, semplicemente, luoghi di detenzione amministrativa ancor meno controllati di quelli nostrani perché collocati al di fuori dei confini comunitari. Informalmente, questo meccanismo funziona già, ad esempio, nei centri di detenzione finanziati dall’Italia in Libia, dove avvengono quotidiane violazioni dei più elementari diritti dell’uomo e ovviamente del diritto di asilo, delegate e finanziate, per così dire, dal nostro paese.

A fronte di tutto questo, non c’è da stupirsi allora leggendo i comunicati allarmati dell’Acnur (in realtà spesso colpevole di eccessiva morbidezza verso i governi dai quali dovrebbe tutelare i rifugiati, e che, in fin dei conti, sono i suoi finanziatori), quando annuncia che, a fronte di una situazione mondiale devastata dalla guerra e dalla violenza, il numero dei richiedenti asilo nei paesi per così dire “industrializzati” è drasticamente in calo. Nei fatti, la vita del richiedente asilo è resa impossibile dalle politiche migratorie messe in campo dai governi degli Stati di arrivo dei migranti, che sembrano considerare il diritto d’asilo non come un diritto umano fondamentale, ma piuttosto come un orpello da aggirare, una scocciatura di cui liberarsi per poter agire più liberamente nella gestione delle migrazioni secondo le loro necessità politico- economiche.

Questa lunga parabola sull’asilo, racconta quindi come i diritti, anche quando vengono riconosciuti come universali, necessitano di un dove e di un quando perché possano essere esercitati e, ancora adesso, la loro stessa esistenza appare vincolata a determinati requisiti che il soggetto deputato ad esercitarli deve possedere preliminarmente, primo tra tutti quello di essere titolare di una cittadinanza, meglio se della cittadinanza di uno Stato per così dire “forte”.

Di fronte alle continue violenze esercitate su migranti e richiedenti asilo, alle loro detenzioni arbitrarie anche in luoghi di vero e proprio concentramento, alle deportazioni collettive, alle centinaia di migliaia di morti per mare che le politiche di controllo delle frontiere hanno prodotto come “effetti collaterali” negli ultimi decenni, ai campi profughi dimenticati da Dio e dagli uomini ai margini dei paesi in guerra, sembra purtroppo ancora attuale la riflessione amara di Hanna Arendt da cui siamo partiti all’inizio di questo percorso, e, pertanto, chiudiamo con un suo brano che riteniamo ancora di grande attualità:
Gli individui costretti a vivere fuori di ogni comunità sono confinati nella loro condizione naturale, nella loro mera diversità, pur trovandosi nel mondo civile. Essi sono sottratti a quella tremenda livellatrice di tutte le differenze che è la cittadinanza; e, poiché sono esclusi dalla partecipazione all’attività edificatrice degli uomini, appartengono alla razza umana allo steso modo che degli animali a una determinata specie animale. Il paradosso è che la perdita dei diritti umani coincide con la trasformazione in uomo generico- senza professione, senza cittadinanza, senza una opinione, senza un’attività con cui identificarsi e specificarsi- e in individuo generico, rappresentante nient’altro che la propria diversità assolutamente unica, spogliata di ogni significato perché privata dell’espressione e dell’azione in un mondo comune”.
“La concezione dei diritti umani è naufragata nel momento in cui sono comparsi individui che avevano perso tutte le altre qualità e relazioni specifiche, tranne la loro qualità umana
”.

Il mondo non ha trovato nulla di sacro nell’astratta nudità dell’essere-uomo.