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“Bilal” Sulla rotta degli schiavi

Un libro di Fabrizio Gatti

E’ disponibile dal 24 ottobre in libreria il libro di Fabrizio Gatti dal titolo Bilal. Il libro racconta il viaggio dell’autore da infiltrato tra gli immigrati: i camion nel Sahara, i boss in Tunisia, gli schiavi in Italia, gli incontri di Prodi e Berlusconi con Gheddafi, le espulsioni in massa in cambio di gas,l’approdo a Lampedusa, gli scomparsi.
Di Fabrizio Gatti, giornalista dell’Espresso, ricordiamo i numerosi reportage a partire dal CPT di via Corelli a Milano, passando per gli schiavi in Puglia, tra i disperati in Libia fino al CPT di Lampedusa. Ora pubblica questo resoconto-romanzo-saggio di tutte queste esperienze. Ne pubblichiamo un breve estratto tratto dal sito della casa editrice.

Nel deserto del Ténéré. Gli autisti rimettono in moto. Suonano due volte il clacson e partono senza aspettare che tutti siano a bordo. Ai piedi della scaletta si affannano mani, teste, corpi. Il camion va pianissimo. Ma corrergli accanto con i piedi che affondano nella crosta di sassi e sabbia non è facile. Soprattutto per i ragazzi che da giorni si alimentano solo con acqua e zucchero. Inutile gridare agli autisti di fermarsi. Bill ha la bocca gonfia. La ferita è aperta e gli sanguina. A terra, durante la sosta, raccontava di non essere riuscito a vedere in faccia chi l’ha ridotto così: «Sta con quelli che hanno i coltelli. Ma non posso riconoscerlo».
Ci si guarda negli occhi senza parlare. Adesso è evidente quanto sia profondo il baratro dentro cui stiamo scendendo. Questi ragazzi sanno che nessuno, qualunque cosa succeda, verrà mai a tirarli fuori. Nessun padre. Nessun fratello. Nessuno Stato. Nessuna organizzazione umanitaria. Nessuno dei governi, che con le loro scelte corrotte li hanno portati qui, piangerà mai la loro morte. Qui nel deserto siamo tutti figli di nessuno. Centottantadue teste si muovono sincronizzate dai rimbalzi delle sospensioni. Centottantadue vite con il loro futuro stretto tra le mani. Il dodici per cento delle persone che partono dalla Libia e dalla Tunisia non arriva in Europa. L’ha rivelato la cronaca di questi anni. Il dodici per cento muore in mare. Il dodici per cento significa che tra i passeggeri di questo camion, ventidue moriranno. E se di questo si salveranno tutti, del prossimo ne moriranno forse quarantaquattro. Oppure sessantasei di quello che verrà dopo. E poi ci sono Kofi, Oliver, gli sconosciuti già sepolti nel deserto: gli stranded per sempre che il mare non lo vedranno per sempre…

L’arrivo a Dirkou. Appare una striscia verde oltre i cordoni di dune ocra. Dirkou, l’oasi degli schiavi, se ne sta accovacciata a perdita d’occhio, sotto una parete di montagne piatte. Il colore dell’argilla dipinge le case di rosa. Il resto è un mondo di sabbia. Sembra di atterrare. Per mezz’ora si scende dal pendio di una duna gigantesca. Il camion gira a sinistra ed entra in uno spiazzo di deserto recintato da pali e filo di ferro. Arrivano altri soldati armati. Gridano ordini incomprensibili, forse in hausa. I passeggeri scesi per primi devono inginocchiarsi sulla sabbia e mettere le mani sulla testa. Basta fare come loro. Veniamo allineati in cinque file davanti al camion. Daniel e Stephen si inginocchiano nella fila accanto. Hanno la faccia stravolta, smagrita, impolverata. Nessuno parla. Un soldato obbliga tre ragazzi a seguirlo dentro una piccola baracca. Ricomincia la rapina. Il sibilo dei colpi e il lamento dei tre rompe il silenzio. Il sibilo soprattutto. È quello caratteristico dei tubi di gomma e dei grossi cavi elettrici usati come fruste. Non si butta via niente nel Sahara. Il loro soffio attraversa l’aria come una pennellata messa lì a rendere più efficace il disegno. Chiudi gli occhi. Aspetti il tonfo finale e quel lamento appena pronunciato…

La base di Al Qaeda. Il pozzo è un buco al centro del solito copertone coricato sulla sabbia. L’acqua è a tre metri. Bisogna avere un po’ di dimestichezza con la corda e il secchio di plastica. Quando è vuoto, il secchio galleggia. Yaya ride: «Tu vieni dalla civiltà dei rubinetti. Lascia fare a me». «As salam aleykum». L’uomo che saluta alle nostre spalle ha la pelle abbronzata. Dalla faccia pende una barba lunghissima e curata, rasata soltanto sotto il naso. I capelli tagliati a zero. I muscoli degli avambracci ben formati. La sua fronte è segnata al centro dal callo tipico di chi calca, più volte al giorno, la testa sul tappeto per pregare. Indossa una jallaba marrone, macchiata e rotta. Dietro di lui aspettano altri due uomini, agghindati allo stesso modo. Il primo dei tre prende Yaya in disparte. Lo porta vicino al tamarisco che fa ombra al pozzo. Se ne vanno dopo una decina di minuti. «Yaya, che accento hanno?». «Algerino. Sono algerini», dice lui. «Li hai mai visti prima qui?». Yaya mette le mani ai fianchi e guarda nella direzione dove i tre se ne sono andati. Stanno parlando in mezzo a un gruppo di uomini vestiti come loro. «Sono salafiti?». «Sì, credo di sì», risponde Yaya, «quell’uomo mi ha detto che è il capo di un convoglio di algerini e stranieri. Mi ha chiesto di te. Da dove vieni, chi sei, cosa fai qui, se siamo in viaggio da soli». «Questo, Yaya, è un campo di Al Qaeda. Andiamocene subito». All’orizzonte si alza una scia di polvere. E non è la nostra. «Ci inseguono«, avverte all’improvviso l’amico di Yaya…

Sulla rotta per Lampedusa. «Voi non sapete nulla dei cinquemila egiziani scomparsi?», chiede l’alto funzionario dello Stato. Se ne sta seduto in maniche di camicia, tra la bandiera blu dell’Unione europea e il Tricolore italiano. Ha partecipato alle trattative con la Libia su immigrazione e rimpatri. Ora si occupa d’altro. «Il ministero dell’Interno egiziano ha chiesto alla Libia dove siano finiti cinquemila connazionali. Gli egiziani, anche se clandestini, restano in contatto con i loro consolati. Così i colleghi del Cairo tengono aggiorante le cifre. Ora hanno fatto la somma: nel giro di qualche anno, tra gli egiziani partiti e gli egiziani che loro credevano arrivati in Italia ne mancano cinquemila». Cinquemila uomini, donne, ragazzi, bambini non sono invisibili. Sono venti grossi pescherecci. Sono quasi duecento barche di legno. Sono un convoglio stracarico di 25 camion del deserto. «Noi nelle nostre indagini», spiega l’alto funzionario, «non avevamo mai saputo che esisteva un’altra rotta. Il passaggio che dalla Libia sale verso Nord Est. Verso la Grecia. E non possiamo escludere che in questi anni in molti ci abbiano provato». «Finora però gli sbarchi in Grecia sono rari». «Appunto», aggiunge lui. Ci si guarda un po’ negli occhi. Il tempo dell’incontro è scaduto. «Il viaggio in barca dalla Libia alla Grecia è troppo lungo in quelle condizioni», dice l’alto funzionario nel breve percorso verso la porta. Si ferma un istante. Conclude la frase: «Io credo che quei cinquemila egiziani siano morti in mare».

Bilal. Il mio viaggio da infiltrato nel mercato dei nuovi schiavi
di Fabrizio Gatti
Rizzoli, pp.54, 18,50 euro