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Alla ricerca di un’ “Alternativa mediterranea”. Intervista con Danilo Zolo

Dalle politiche migratorie ai movimenti di resistenza contro le basi militari. Come resistere al "neoimperialismo atlantico"

L’alternativa Mediterranea

D. Cosa è oggi il Mediterraneo nel panorama geopolitico globale, e in che senso esso potrebbe rappresentare un’alternativa, come lei ha scritto, “alla deriva universalistica e monoteistica dell’Estremo Occidente”, e a quello che lei ha definito “fondamentalismo neoimperiale” facendo un chiaro riferimento all’egemonia atlantico-americana?

R. Il Mediterraneo è in questo momento l’epicentro di un conflitto di grandi dimensioni, forse planetario.
Il Mediterraneo si prolunga fino al Medio Oriente: penso in questo momento alla questione palestinese che io considero il fulcro generativo del conflitto mondiale. Non c’è dubbio, infatti, che il grande e terribile tema del terrorismo abbia avuto la sua nascita nell’area palestinese. I primi atti terroristici si hanno in Libano, forse in parte anche nell’Iran, e poi ovviamente in Palestina.
In questo momento il Mediterraneo – che potrebbe essere, ed è la tesi forse azzardata del libro ‘L’alternativa mediterranea’, un crocevia di pace – è invece il fulcro di un conflitto che contrappone l’Occidente, in particolare l’Estremo Occidente e cioè la grande potenza statunitense, al mondo islamico con conseguenze gravissime per l’ordine internazionale, per la pace, e direi anche per la stabilità del Mediterraneo.
Quindi non c’è dubbio che parlare di ‘alternativa mediterranea’ significhi impostare un tema di grandissime ambizioni perché è il tema della capacità dei paesi mediterranei delle due sponde, quindi i paesi euro mediterranei e i paesi arabo-islamici che si affacciano sul Mediterraneo, di riuscire, in certe condizioni non facili, ad operare in qualche misura in alternativa o contro la dimensione atlantica.

Il Partenariato Euromediterraneo

D. Lei ha citato il mondo euromediterraneo. In che senso stiamo assistendo al fallimento del processo di Barcellona, di quel partenariato euro mediterraneo basato su grandiosi presupposti? Quali limiti intrinseci aveva questo processo e in che modo, soprattutto, esso è stato ostacolato da una parte dalla nuova Politica Europea di Vicinato, ma soprattutto dal nuovo Dialogo Mediterraneo avviato fin dal 1994 proprio dalla Nato, e quindi da questa influenza atlantica di cui Lei parlava?

R. Il processo di Barcellona è stato per un verso importante, perché è stato il primo tentativo dopo la fine del secondo conflitto mondiale, da parte dell’Europa, di stabilire un rapporto non direttamente coloniale con l’altra sponda del Mediterraneo e in particolare con il mondo maghrebino.
Quindi, come tentativo, come progetto, è sicuramente un evento di grande rilievo che però oggi tutti concordiamo nel considerare in larga parte privo di successo, se non proprio fallito del tutto, per varie ragioni.
C’erano tre settori del progetto di Barcellona, che riguardavano la politica, l’economia e il dialogo culturale.
Per quanto riguarda la politica, il fallimento di Barcellona si deve in larga parte al fallimento del tentativo di pacificazione della Palestina.
L’Europa non ha fatto nulla per stabilire un rapporto che non fosse di oppressione spietata da parte di Israele nei confronti del popolo palestinese, ha assecondato le strategie neocoloniali degli Stati Uniti e ha assecondato soprattutto il progetto sionista di Israele.
Nel progetto di Barcellona erano presenti sia Israele che l’autorità palestinese, poteva essere un’occasione eccezionale di dialogo tra le due parti in conflitto e invece niente si è fatto perché il conflitto venisse superato e questo ha ovviamente osteggiato gravemente l’interazione politica tra le due parti e tra le due sponde del Mediterraneo.
Sul piano economico c’è stato un gravissimo peccato originale e cioè il fatto che l’Europa intera, ovvero una delle massime potenze economiche e commerciali del mondo, abbia stabilito rapporti di cooperazione con i singoli paesi della sponda arabo-islamica.
Facile immaginare come questo rapporto totalmente asimmetrico abbia prodotto frutti totalmente negativi a discapito dei paesi arabi e a vantaggio, ovviamente, dell’Europa, al punto che, dal 1995 ad oggi, il dislivello economico tra le due sponde si è enormemente aggravato invece che attenuarsi.
Infine, lo scambio culturale è stato modestissimo e sempre all’insegna di un tentativo dell’Europa di condizionare le attività economiche e il soccorso finanziario ad un’adesione preventiva formale dei paesi arabo-islamici ai principi dello Stato di diritto, dei diritti dell’uomo, insomma alle categorie politico-giuridiche dell’Occidente e in particolare dell’Europa.

La retorica dei valori occidentali

D. Vediamo del resto come questa retorica dei diritti umani sia effettivamente solo una retorica: l’ultimo esempio è quello dell’ incontro che si è tenuto la settimana scorsa a Lisbona tra Unione africana ed Unione europea, in cui il colonnello Gheddafi ha spadroneggiato dettando sostanzialmente le condizioni a tutti i convenuti tanto europei quanto africani.
Eppure noi conosciamo bene le condizioni politiche e sociali della Libia, ci sono rapporti molto dettagliati di Amnesty International e di Human Rights Watch. R. La situazione è molto complessa. Esiste un progetto statunitense di democratizzazione forzata del mondo islamico. Io non condivido questo punto di vista.
Riconosco ovviamente che quasi tutti i paesi arabo-islamici sono gestiti da élite fortemente autoritarie, conosco bene la Tunisia, meno bene la Libia, e non posso non affermare con forza che si tratti di regimi autoritari.
Non credo però che il compito dell’Europa sia quello di imporre la democrazia secondo le categorie occidentali.
Imporre significa farlo con le armi, o comunque con strumenti coercitivi di carattere giudiziario, o con ricatti economici.
Non credo che si possa ottenere nessun risultato significativo in questo senso, mentre auspico un dialogo tra le due parti che, per un verso consenta all’Europa di proporre le sue vie verso la democrazia e la partecipazione politica popolare, vie oggi fortemente ostruite – pensiamo al governo Berlusconi che ci ha appena lasciato e che forse tornerà: non lo presenterei come un modello di democrazia mediterranea – mentre dall’altra parte manifesti una forte ‘pazienza’ nei confronti del mondo islamico. Quest’ultimo, attraverso autori importanti e movimenti importanti come il Femminismo islamico, cerca di recuperare alcuni valori molto vicini a quelli dell’Europa democratica senza però rifiutare la propria tradizione, non negando la propria grande civiltà e cultura, ma cercando invece di recuperare all’interno di quella cultura – la tradizione coranica – le premesse per una maggiore uguaglianza fra i soggetti, i cittadini, e soprattutto una maggiore dignità dei soggetti femminili.

D. Sono d’accordo con lei ma volevo solo rimarcare l’ipocrisia di una retorica dei diritti umani che da una parte, quando serve, fa leva su questi principi per dimenticarsene poi completamente nelle trattative economiche o altrove…

R. Si, certamente, questi principi sono serviti soltanto per escludere la Siria per ragioni puramente politico-strategiche mentre, nonostante la retorica, nessuna pressione è stata fatta nei confronti di altri regimi. Ripeto però che, secondo me, non vanno fatte pressioni, bisogna operare in modo meno coloniale, senza negare ovviamente la gravità di alcune cose. Non c’è dubbio, ad esempio, che Gheddafi ha un rapporto col fenomeno migratorio che a volte si rivela assolutamente criminale, però lo abbiamo anche noi.

Migrazioni e politiche migratorie

D. Proprio a proposito di questo, infatti, il rapporto criminale che Gheddafi ha con il fenomeno migratorio sembra strettamente connesso a quelle che sono le politiche migratorie europee.
Gheddafi anzi ha forse avuto il merito, al vertice di Lisbona, di disvelare la reale strumentalizzazione di questo fenomeno utilizzato come minaccia da sbandierare o come moneta di scambio.
E, allora, quale significato profondo hanno oggi, secondo Lei, le migrazioni e le politiche migratorie messe in atto nel Mediterraneo, l’esternalizzazione di dispositivi di controllo come la detenzione amministrativa, e in generale il coinvolgimento dei paesi arabi nelle migrazioni verso l’Europa?

R. Io sono naturalmente molto attento al problema migratorio, anche se non sono uno specialista, e credo che sia un aspetto decisivo per ritrovare la pace nel Mediterraneo anche perché c’è la tendenza di molti paesi europei a stabilire quasi un’equivalenza tra migrazioni e terrorismo all’insegna di una concezione pericolosissima di sicurezza.
Questo è un grandissimo tema che andrebbe affrontato in termini generali e non in termini polizieschi. Sono naturalmente un critico severissimo delle politiche migratorie poliziesche praticate dai paesi euro mediterranei, Italia compresa , e penso che nessun passo in avanti si farà senza una visione mediterranea del problema che includa, naturalmente, anche buona parte dei paesi africani, da cui ha origine la deriva migratoria, in termini che non siano ovviamente di carattere poliziesco o di repressione come se fosse un evento paraterroristico ma in termini di cooperazione politica, economica e culturale.

Genesi e strumentalizzazione del terrorismo mediterraneo

D. L’altro fenomeno che appare ampiamente strumentalizzato dai governati di entrambe le rive e che Lei ha già citato è quello del terrorismo.
Si tratta di un fenomeno che certamente esiste, come dimostrano anche gli attentati di Algeri di qualche giorno fa, ma che, specie dopo il 2001, è diventato il pretesto per una declinazione multidimensionale della sicurezza che ha invaso ogni settore della politica e della società.
Due domande a questo proposito. La prima: è innanzitutto possibile secondo Lei rintracciare delle responsabilità europee nello sviluppo recente del fondamentalismo che ha attecchito sempre più nei paesi arabi del Mediterraneo?
E la seconda: esiste un legame, a Suo avviso, tra le retoriche e le pratiche della lotta al terrorismo e le retoriche e le pratiche della cosiddetta lotta all’immigrazione clandestina?

R. Andiamo per ordine: sul tema del terrorismo credo che l’Europa, nonostante qualche cenno retorico, si sia assolutamente accodata alle politiche statunitensi che sono in grandissima parte responsabili dell’esplosione del terrorismo.
Dobbiamo rifiutare assolutamente l’idea che l’Europa e l’Occidente in generale si stia difendendo nei confronti della minaccia terroristica come se il terrorismo fosse il prodotto di una civiltà, di una cultura, di una religione – quella islamica – che odia l’Occidente e sta operando per distruggerne i valori, la libertà, lo Stato di diritto, la democrazia, l’economia di mercato; l’idea insomma che siano le scuole coraniche a diffondere l’odio e la violenza, e l’idea che il mondo islamico sia sostanzialmente un mondo orientato all’uccisione, alla morte e al suicidio terroristico.
Tutto questo è secondo me profondamente falso mentre è vero il contrario: il fondamentalismo, anche nelle sue forme suicide è una risposta all’espansione neocoloniale dell’Occidente nel mondo islamico.
Non dimentichiamo che, sicuramente, l’inserimento del ‘cuneo atlantico’ Israele nel mondo mediterraneo ha rappresentato per l’Islam intero una sconfitta, un trauma gravissimo, che si è aggravato ancora con la Guerra del Golfo del 1991 che ha consentito alle armate statunitensi, 200.000 soldati, di occupare stabilmente il cuore del mondo islamico, l’Arabia Saudita.
Non dimentichiamo poi la guerra in Afghanistan e soprattutto la guerra in Iraq.
Tutti questi fenomeni sono all’origine. Ci sono documenti inconfutabili elaborati dallo studioso statunitense Robert Tape che dimostra come il terrorismo, e quello suicida in particolare, non sia affatto il prodotto di un fanatismo religioso ma sia una risposta razionale in termini di scontro asimmetrico fra due belligeranti. Risposta razionale, come ultima istanza, perché consente una replica efficace e molto economica.

Sulla seconda domanda: si, certo, l’Europa ma anche gli Stati Uniti hanno diffuso questo ‘panico morale’. Ovviamente sullo sfondo c’è l’11 settembre, ma non c’è dubbio che siamo tutti profondamente insicuri perché ci sentiamo esposti all’evento terroristico che è sempre presente, imprevedibile, minaccioso e pericolosissimo.
Questo diffuso panico morale si rovescia su ‘tutti gli altri’, quelli che non appartengono alla proprio autoctonia, e quindi non c’è dubbio che la figura del migrante sia la figura di un potenziale nemico e di un potenziale terrorista.

La cultura del limes

D. In sintesi – anche se è una domanda molto complessa che rischia di essere troppo generale e di banalizzare i suoi argomenti – Lei ha parlato, nel suo saggio introduttivo al libro, di “cultura del Limes”, Cassano ha valorizzato invece la “sapienza del confine” come luogo “sempre più avanti di ogni centro perché è costretto ogni giorno ad affacciarsi sull’altro”.
Ma, alla luce della situazione molto negativa che stiamo analizzando in questo momento, e alla luce del fatto che il confine mediterraneo sembra essere diventato sempre di più luogo di morte, di violenza e di paura, come possiamo fare allora per tornare a considerare il Mediterraneo non solo come “fossato profondo”, come scrive Latouche ancora nel libro che Lei ha curato, e per guardare invece ad esso come ad una dimensione diversa del confine inteso come ibridazione, meticciato, possibilità, laboratorio, ecc.?

R. Non ci sono ricette che forniscano soluzioni sicure.
Il libro “L’alternativa mediterranea” è un libro molto arrischiato che indica un’alternativa ma non è in grado di proporre con precisione le operazioni da mettere in campo.
La tesi fondamentale è che non ci sarà pace nel Mediterraneo se non ci sarà un dialogo tra le due sponde, e questo significa che dovremmo aprirci alla cultura islamica e riconoscere che l’Europa, l’Italia in particolare, ignora la cultura islamica, la rifiuta, la ritiene una cultura ormai decaduta: il mondo islamico come mondo che non riesce a stare ai ritmi dello sviluppo della modernità, un mondo che deve essere sopportato ma un mondo che non ha più niente da dirci.
C’è una negazione radicale delle redici mediterranee dell’Europa e dell’intero mondo occidentale e una negazione dell’immenso contributo che la cultura islamica ha fornito allo sviluppo della cultura, della scienza, della medicina occidentale.
Quindi il primo obiettivo è far cadere la muraglia di ignoranza e rifiuto che separa il mondo europeo dal mondo islamico.
Questo è un obiettivo fattibile. Io, ad esempio, sono riuscito, per primo in Italia, a dar vita ad una cooperazione scientifica, culturale e accademica tra l’Italia e la Tunisia e sono riuscito a pubblicare in Italia un volume a cura mia e a cura di uno studioso tunisino, evento senza precedenti nella cultura italiana. Dico questo per sottolineare che c’è la possibilità di rivolgere un’attenzione non strumentale e neocoloniale al mondo ‘altro’ rispetto alla cultura europea.
L’altro grande tema è quello della capacità dell’Europa, di un ‘Europa che riscopra le sue radici mediterranee, di darsi un profilo identitario più energico e più forte rispetto al presente.
L’Europa oggi è un grandissima potenza economica, la prima potenza commerciale del mondo, ma dal punto di vista della sua identità politica e della sua soggettività internazionale la sua quotazione è molto prossima allo zero.
Non ci sarà autonomia europea e non ci sarà quindi una società civile europea finché l’Europa non sarà riuscita ad affrancarsi dalla subordinazione spesso servile nei confronti dell’impero atlantico.

L’espansione militare Usa nel Mediterraneo. il nodo delle basi

D. Proprio a proposito di questa subordinazione servile nei confronti dell’impero atlantico, io chiuderei questa intervista con una domanda che riguarda l’attualità molto presente, molto vicina a noi.
Lei saprà che questo fine settimana decine di migliaia di persone sfileranno a Vicenza per ribadire il loro No all’ampliamento della base militare americana.
Alla luce di tutto quanto abbiamo detto, quale valore dare oggi a questa battaglia in corso tra chi sembra disposto a cedere definitivamente il territorio italiano ed europeo come avamposto nordamericano verso l’Oriente, e chi invece, come questa moltitudine variegata, si oppone in nome di una pace che non viene strumentalizzata ma è un vero obiettivo, di un’idea di bene comune e di territorio che non è in vendita e di un’autonomia degli individui, dei territori e dell’Europa che resiste ad oltranza rispetto alla prepotenza atlantica e alla volontà statunitense di gestire gli equilibri mondiali?

R. Ritengo che la battaglia contro Ederle sia importantissima, che abbia un grandissimo valore simbolico, anche se il suo successo è improbabile.
Credo che sia importantissima perché si tratta di una battaglia per l’autonomia europea.
Non c’è nessuna ragione per cui oggi l’Europa, e soprattutto una parte d’Europa, sia tappezzata di basi militari statunitensi – la Nato stessa andrebbe profondamente rivista – in Italia abbiamo circa 200 forme di presenza militare degli Stati Uniti: basi militari ma anche altre istituzioni che cooperano con le basi militari. È un assoluto scandalo, ed è grave che il governo italiano attuale sia complice con questa situazione.
Non dimentichiamo che D’Alema ha sempre sostenuto che la politica estera statunitense è il cardine della politica estera italiana e non dimentichiamo che sia Prodi che soprattutto D’Alema sono i responsabile della partecipazione entusiasta dell’Italia alla guerra di aggressione del ’99 della Nato contro la Repubblica federale jugoslava.
È chiaro che un governo di questo tipo non è in grado, ed entrerebbe in gravissima contraddizione se lo facesse, di opporsi all’espansione della presenza statunitense in Europa – non soltanto Ederle ma anche Aviano che è stata raddoppiata anche a spese del nostro governo – e non dimentichiamo che la conseguenza più concreta della guerra della Nato contro la Serbia, alla quale l’Italia ha partecipato con un’attività molto intensa anche di bombardamenti, oltre alla strage di persone innocenti e alla devastazione, è stata la costruzione da parte degli Stati Uniti, illegalmente di una grande base nel cuore del Kosovo, di cui oggi discutiamo il destino, con 5000 soldati ancora presenti in Kosovo.
Questa è la prova provata che la motivazione statunitense e italiana nel fare quella guerra era profondamente ‘umanitaria’…

D. Siamo perfettamente d’accordo con la sua lettura anche se ovviamente ci auguriamo che la vittoria del movimento No Dal Molin non sia poi così improbabile anche se ci rendiamo conto che si tratta di una battaglia difficilissima.

R. Si, ed è importantissimo farla comunque.