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Roma – I fantasmi dell’Ambasciata Somala

Un inchiesta di Fabrizio Ricci e Rassegna.it

Via dei Villini è una zona per ricchi. Lo dice il nome d’altronde, non c’è da stupirsi. Per arrivarci devi passare davanti a Porta Pia, fare inversione a U e poi infilarti in questa strada piena di verde e di palazzi in stile vittoriano, per lo più ambasciate o sedi diplomatiche. Ci sono tante bandiere di Paesi stranieri alle finestre e c’è un silenzio profondo, come non ne trovi facilmente a Roma.

Quando siamo arrivati, pensavamo di aver sbagliato indirizzo, ma Mohamed sul sedile posteriore si è tolto la cintura. Eravamo dove dovevamo essere: in via dei Villini numero 9, davanti alla sede dell’ambasciata somala a Roma. O almeno, davanti a quello che ne resta.

Abbiamo conosciuto e intervistato Mohamed a Perugia, circa due mesi fa, grazie ad un’iniziativa di Libera. Lui è un rifugiato politico, perché la Somalia è un Paese da cui un ragazzo deve scappare se non vuole accettare la regola “uccidi o sarai ucciso”. Mohamed è un infermiere e durante la sua fuga verso l’Europa è stato 5 mesi in una prigione in Libia. Se gli chiedi com’era, risponde: “Ci trattavano come animali”. Poi, qualche giorno fa, Mohamed è venuto a trovarci insieme ad Hasan, anche lui fuggito dalla follia del suo Paese. Ci hanno spiegato che a Roma ci sono tanti somali come loro, rifugiati politici, che però vivono in condizioni disumane. Ci hanno raccontato di un posto, che un tempo era l’ambasciata del loro Paese.

Con Carlo Ruggiero siamo venuti a Roma per testimoniare in un video questa situazione, che ci hanno descritto così drammatica e assurda. Quasi subito però capiamo che le cose non andranno come avevamo previsto. Dall’ambasciata escono alcuni ragazzi. Sono tutti giovani, la maggior parte indossa un abito tradizionale somalo, una sorta di pareo che copre le gambe fino alle caviglie. Ai piedi invece hanno tutti dei sandali infradito, oppure scarpe di gomma, di quelle che si usano in spiaggia, anche se siamo in ottobre inoltrato. Sono persone che Mohamed e Hasan conoscono e con le quali hanno preso accordi per realizzare il video documentario all’interno dell’ambasciata. Però, dopo i primi abbracci e i salamelecum, la discussione, naturalmente in somalo, prosegue troppo a lungo. Ci sono dei problemi. Il fatto è che tutti temono che le immagini registrate all’interno dell’ambasciata possano arrivare in Somalia. E che parenti dei ragazzi che vivono nell’edificio abbandonato a Roma possano vedere le condizioni in cui versano i propri figli, scappati dalla guerra in cerca di un vita decente.

Dunque non possiamo entrare, ma dopo una rapida mediazione troviamo una soluzione che sembra accettabile: le riprese all’interno le farà un ragazzo somalo, Awes, che vive a Roma e che conosce bene gli “ospiti” dell’ambasciata. Mohamed e Hasan andranno dentro con lui, mentre noi aspetteremo fuori, davanti al grande cancello nero accanto al quale campeggia ancora la targa con il nome dell’ambasciatore che ha occupato per ultimo l’edificio nel lontano 1991.

I tre amici somali entrano e con loro entra la nostra telecamera. Dopo pochi minuti cominciamo a sentire delle voci sempre più forti che vengono dall’interno. Sono voci arrabbiate che presto si trasformano in vere e proprie grida. Tre ragazzi si affacciano da uno dei balconi della palazzina. Anche loro alzano la voce e indicano verso il basso. Noi non capiamo quello che si dicono, ma è chiaro che stanno litigando per via della telecamera. Poi, passato meno di un quarto d’ora, il cancello si riapre e i ragazzi escono a passo spedito.

“Andiamo andiamo, dobbiamo andarcene”, ci dicono con concitazione. Noi vorremmo fare come dicono, ma non facciamo in tempo a salire in macchina. Dal cancello infatti escono almeno altri 10 ragazzi, tutti “ospiti” dell’ambasciata, che rapidamente ci circondano. Indicano la telecamera e continuano a gridare contro i loro connazionali che hanno fatto le riprese. Non vogliono che ce ne andiamo con le immagini, un po’ per paura che possano arrivare in Somalia, un po’ perché qualcuno pensa che possiamo lucrarci sopra. Oltre a questo è evidente che alcuni di loro sono davvero esasperati, “non ci stanno più con la testa, sono impazziti”, ci diranno poi i nostri amici.

La situazione comunque è molto tesa e il fatto di non capire quello che si stanno dicendo non aiuta a mantenere la calma. La discussione prosegue per un po’ e noi siamo spettatori inerti di un film che non possiamo capire. Poi, però uno dei somali usciti dall’ambasciata ci si rivolge in inglese: “You can go now”, adesso potete andare. E lo dice in un modo che è più che altro un consiglio.

Allora noi facciamo per salire in macchina. La più vicina è quella di Carlo. L’altra la recupereremo quando la situazione si sarà calmata. Ma una volta saliti a bordo, i due ragazzi più agitati del gruppo si piazzano davanti e ci fanno segno di fermarci. C’è ancora un momento di confusione, di nuovo non capiamo cosa dobbiamo fare. Intanto, qualcuno colpisce il tetto dell’auto con la mano. Poi, Hasan con l’aiuto di altri ragazzi riesce ad allontanare i due connazionali più arrabbiati. Così possiamo partire ed allontanarci, mentre alle nostre spalle la discussione continua.

Appena fermiamo la macchina poche centinaia di metri più avanti e accendiamo la videocamera per vedere le immagini riprese all’interno dell’ambasciata ci appare immediatamente chiaro quanto sia drammatica la situazione di queste persone e quanto sia comprensibile la loro rabbia e la loro sfiducia verso noi italiani. Là dentro, in via dei Villini 9, proprio di fronte all’Ambasciata ungherese, vivono decine e decine (qualcuno ci ha detto addirittura centinaia) di somali, tutti rifugiati politici o comunque titolari di permessi per protezione umanitaria. Le immagini catturate all’interno dell’ambasciata sono raccapriccianti. Quello che i nostri amici sono riusciti a riprendere in pochi minuti (solo una parte dell’edificio e nemmeno quella in condizioni peggiori, a quanto ci dicono) dà la misura dell’assoluta gravità della situazione da un punto di vista igienico, sanitario e soprattutto umano.

Nell’ultima parte del video girato da Awes si vede qualche altro particolare, come la targa dorata posta all’ingresso dell’edificio dove si legge ancora “Ambasciata Repubblica Democratica Somalia”. Ma soprattutto si cominciano a sentire le voci che si alzano, di chi protesta perché non vuole quella telecamera “in casa”. Quello che succede dopo lo abbiamo già detto. Ma le immagini da sole non bastano a comprendere appieno l’assurdità di questa situazione. E se molti degli abitanti dell’ambasciata non sopportano telecamere e giornalisti tra i piedi, altri al contrario vogliono raccontare, vogliono descrivere la loro situazione di rifugiati politici (questo occorre tenerlo sempre in mente) completamente abbandonati a se stessi.