Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

La lingua italiana come costruzione del comune

Report dell'incontro delle scuole di italiano per migranti del 19 febbraio a Reggio Emilia

Siamo partiti dalla premessa su cui si fonda l’esperienza delle scuole di italiano per migranti auto-organizzate presenti all’incontro: conoscere la lingua del luogo dove si è scelto di stare è imprescindibile, non solo per i migranti, ma per tutti noi.

La capacità di esprimersi nella lingua italiana è il primo strumento di autonomia ed auto-determinazione per i migranti, al contempo essa rappresenta per noi “autoctoni” la possibilità su cui fondare modalità di incontro e conoscenza con i migranti, da cui si attivano i processi di autorganizzazione, di emancipazione e di difesa che intrecciano le attività degli spazi dove si sviluppano le nostre scuole.

La netta contrarietà delle scuole al provvedimento del test di italiano e all’Accordo di Integrazione è il presupposto con cui vogliamo affrontare il tema della “integrazione” o, come noi preferiamo chiamare il processo virtuoso di cooperazione tra diversità, il tema della “costruzione del comune”.

Non c’è dubbio per noi che parlare di integrazione ha senso solo se con questo concetto si indica un processo che punta al riconoscimento della dignità, dei diritti, delle opportunità e non a comportamenti che sono il prodotto di processi di selezione e verifica, che hanno invece l’effetto di mantenere nella precarietà giuridica i migranti, proiettandoli verso l’irregolarità permanente.

Mentre il discorso pubblico insiste su una retorica dell’integrazione intesa come processo univoco da incentivare tramite il ricatto della clandestinità, per noi insegnanti, attivisti, volontari questo è il momento giusto per una battaglia di civiltà con cui affermare la necessità di diritti nuovi, non ancora codificati, che consideriamo imprescindibili per la costruzione di una società includente e giusta.

Il diritto all’apprendimento della lingua italiana è uno di questi nuovi diritti.

Non basta nominarlo però, occorre che sia riconosciuto, praticato e tutelato. Occorre cioè una garanzia istituzionale per il diritto all’apprendimento della lingua.

Perché i migranti denunciano la difficoltà e l’impossibilità di dedicare il proprio tempo allo studio della lingua italiana, tempo interamente assorbito dal lavoro, organizzato su turni estenuanti imposti dal ricatto lavoro-permesso di soggiorno. Perché le migranti ci spiegano che il loro tempo è assorbito anche dai carichi familiari e domestici, con cui occorre “conciliare” il tempo del lavoro. E anche perché i/le migranti ci dicono che il tempo sottratto al lavoro è tempo sottratto al reddito, in un’economia della povertà in cui i costi connessi all’essere migrante sono elevatissimi.

In questa spirale di obblighi e doveri, l’apprendimento dell’italiano, nonostante sia per tutti una necesità, finisce allora per essere compresso e posto in secondo ordine.

Ecco perché la sfida da porci insieme ci è sembrata l’istituzione di un diritto alla formazione retribuito da realizzarsi attraverso strumenti diversi, quali, ad esempio

– l’erogazione di forme di reddito dedicate alla formazione (magari permanente!)

– l’inserimento di moduli di formazione per la lingua italiana nei contratti di categoria, laddove presenti (si veda ad es. il modulo di formazione previsto dal contratto collettivo nazionale del settore metalmeccanico)

In altre parole, il diritto dei migranti ad imparare la lingua richiede una battaglia condivisa per imporre – anche a prescindere dall’aberrazione dell’imposizione del test – impegni e risposte concrete a garanzia della facilitazione/praticabilità dei percorsi di apprendimento: un diritto allo studio su cui convergano anche adeguate risorse economiche!

Uno dei passaggi della battaglia necessita di individuare gli interlocutori possibili (Sindacati, Direzioni Provinciali del Lavoro, Prefetture, Enti Locali, Centri per l’Impiego) con cui dialogare per discutere modelli efficaci e garantiti di apprendimento della lingua e di formazione sui diritti e sulle procedure amministrative (perché non ci sfugge che i processi di autonomia e costruzione del comune passano anche attraverso la conoscenza di questi aspetti, su cui l’Accordo di Integrazione imposta il sistema dei crediti).

La volontà di “sradicare” questa normativa ingiusta (decreto interministeriale 4/6/2010 e Accordo di Integrazione) che si inquadra nell’intento discriminatorio e stigmatizzante del Pacchetto Sicurezza e della Legge Bossi Fini è l’assunto comune delle scuole. L’impatto sulle scuole degli effetti del provvedimento apre tuttavia percorsi di sperimentazione nuovi e molteplici, ognuno dei quali è orientato alla ricerca di forme di contrasto al meccanismo escludente del test, forme perseguibili in maniera diversa a seconda del territorio e delle caratteristiche, anche organizzative, di ogni scuola.

Sarebbe errato pensare che esiste una soluzione, e ancor più un’unica soluzione, a cui far tendere le molte opzioni che ogni scuola può mettere in campo rispetto alla ricerca delle forme di contrasto al test. Pensiamo che il metodo sia piuttosto quello di uno scambio continuo di informazioni e di esperienze tra le scuole poiché già in questa prima occasione di incontro sono emerse diverse “strategie” per influenzare l’impatto del test, quali ad esempio ampliare il più possibile la sfera degli aventi diritto all’esonero, oggi partcolarmente ristretta, facendovi rientrare tutte le persone che secondo gli insegnanti non hanno adeguati back ground scolastici, le persone analfabete, le persone anziane ecc, oppure approfittare della richiesta della preparazione al test per promuovere invece il percorso per il conseguimento della licenza media, sicuramente più impegnativo ma anche più qualificante ed alternativo alla certificazione, anche sviluppando collaborazioni con i CTP.

In generale occorre puntare sul protagonismo delle scuole nei diversi territori per influenzare CTP e Prefetture, con l’obiettivo di inibire il risultato sanzionatorio del test, promuovendo vertenze dal basso che rendano meno drammatico l’esito degli esami o puntino a semplificazioni per un successo certo per tutti. Ed interagire con CTP ed altri soggetti per un riconoscimento dei titoli di studio, dal diploma in poi, oggi carta straccia.

Non temiamo il rischio di “corruzione” del percorso indipendente ed autonomo che da sempre caratterizza le scuole, connotate tra l’altro dalla scelta di non richiedere il possesso del permesso di soggiorno; il nostro rifiuto ci porta piuttosto ad assumere fino in fondo, come terreno di azione concreta, la contradditorietà che caratterizza qualsiasi nostro intervento sull’immigrazione: siamo infatti contrari alle leggi in materia di immigrazione, come ad esempio l’istituto del permesso di soggiorno, tuttavia con esse ci confrontiamo continuamente per costruire insieme ai migranti processi di trasformazione che forzino quelle norme, che mettano in crisi i soggetti istituzionali che le applicano, che ne denuncino gli effetti disumani e, quando possibile, li annullino.

La questione va dunque ben oltre le nuove implicazioni, i nuovi meccanismi, in cui si trovano coinvolte scuole ed insegnanti militanti e volontari dal 9 dicembre scorso, ma apre ad una battaglia culturale, una battaglia che allude alla necessità di gettare le fondamenta per una diversa società. E’ una battaglia che deve essere condotta insieme agli studenti, insieme ai migranti, perché solo insieme possiamo ribaltare l’idea che l’ “esistenza a punti” sia la scorciatoia per la convivenza tra diversità.