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No. Tu no.

La spirale di negazione del richiedente asilo

Photo credit: Gabriel Tizon

D’improvviso, S. si trova faccia a faccia col vuoto.
Il suo futuro, le sue prospettive, i suoi desideri si sono rumorosamente schiantati contro otto banalissimi fogli bianchi, tenuti insieme fra loro da una piccola graffetta argentata. Sopra quei fogli, parole nere e vischiose come la pece: il Tribunale rigetta la domanda di protezione internazionale.

Il mio sguardo scorre da una riga all’altra. Sento la fronte accartocciarsi in grovigli di rughe, la bocca deformarsi in una smorfia di preoccupazione. Con la mano sinistra sollevo le otto pagine dalla scrivania e le avvicino alla faccia, come a voler scovare errori nascosti che potrebbero ribaltare il significato di quello che sto leggendo. La mano mi fa quasi male, pochi grammi di peso che però a me sembrano quintali.

Alzo lo sguardo ed incrocio quello di S., terribilmente imbarazzata. Devo trovare un modo per spiegargli che nella civile e democratica Italia la legge è uguale solo per alcuni. Devo spiegargli che normalmente esistono tre gradi di giudizio, ma il suo è un caso a parte. S. è alto e bello, ha modi gentili e porta anelli d’argento sulle dita affusolate di entrambe le mani. Ma è anche un immigrato, nero e richiedente asilo, ed è questo ciò che conta. Due anni fa alcune norme sono cambiate, e i richiedenti asilo sono stati trasformati nell’unica categoria a cui è precluso un grado giudizio: il secondo, cioè quello che di fatto rappresenta l’ultima vera possibilità.

Io ora devo scegliere le parole per spiegargli tutto questo. Dovrò anche aggiungere che trovare un avvocato disposto a seguirlo in terzo grado – l’unico a cui può accedere – sarà difficilissimo. E anche se lo dovessimo trovare, le possibilità di avere un risultato favorevole sono molto ridotte.

Mentre scavo negli angoli del mio cervello e del mio stomaco per racimolare lembi di parole adatte, mi si dispiega davanti tutta l’insensatezza della situazione.
S. è giovane, un’entità in divenire. Come chiunque altro, è il risultato ancora non compiuto di una stratificazione incessante di esperienze, incontri, traumi, conquiste.

Un mosaico composto da migliaia di tessere colorate, la cui bellezza si sta consumando sotto il peso di un’infinita ed inconsistente attesa per il tanto agognato documento.

Il documento.

Un pezzo di carta, un banalissimo pezzo di carta spiegazzato. Fulcro di desideri e aspirazioni, causa scatenante di insonnie e dolori più o meno profondi. Esistenze protese e sospese nello sforzo per raggiungere il documento, moderno feticcio il cui possesso segna idealmente il passaggio al mondo dei vivi. Ma poi accade che il pezzo di carta venga negato da un altro pezzo di carta. E allora tutto si svela, apparendo per quello che realmente è: preziosi e insostituibili istanti di vita barattati in cambio di comunissimi rettangoli di cellulosa.

Due settimane dopo, sto preparando lo zaino per andare a trascorrere un fine settimana in un minuscolo paesino della campagna laziale. Si tratta di un ritiro in preparazione ad un campo di volontariato estero a cui prenderò parte nel mese di dicembre. Non so bene cosa aspettarmi.

La stazioncina in cui scendo è completamente deserta: due soli binari, incorniciati a sinistra dal fiume e a destra da un’alta parete di roccia che sovrasta una sparutissima fila di case dall’intonaco scrostato. M’incammino sotto i raggi ormai indeboliti di un sole che si prepara a lasciar spazio al tepore serale, e dopo mezz’ora di passi lenti fra cipressi e ulivi arrivo alla tenuta. Ad aspettarmi c’è un gruppo di persone provenienti da ogni parte d’Europa.

Seduta in un angolo, guardo i volti che mi circondano alla ricerca di indizi che possano suggerirmi la loro provenienza: gesti, movenze, inflessioni nel parlare.

Riesco a farmi un’idea su tutti eccetto che su M. Lui, infilato in un paio di pantaloni di lino accorciati all’altezza dei polpacci con dei lacci colorati, sembra un circense appena sbarcato da Marte. Scopro da dove viene soltanto la sera dopo, quando ci attardiamo a chiacchierare sotto le stelle.

Abbiamo abbandonato le scarpe da qualche parte in mezzo al prato – because Camilla, you have to feel your feet on the ground -, le piante dei piedi godono del contatto con la brina notturna. Io ogni tanto annuisco con un mh-mh alle frasi di M., che ad un certo punto interrompe perplesso il flusso del discorso. Ha bisogno di capire che cosa io intenda con quel mh-mh cadenzato, perché lui lo interpreta come un segnale di disaccordo. In Grecia, mh-mh means no.

M. viene da Atene, cammina sempre a piedi nudi ed è un ballerino. E’ affascinato dal mito della metà narrato da Aristofane e mi indica le costellazioni, nominandole in greco. Mi chiede di insegnarli qualche espressione tipicamente romana e mi racconta la storia del rebetiko, la musica dei ribelli greci. Da quel poco che ho potuto osservare in questi giorni, è irrimediabilmente attratto dalla diversità insita in ciascun essere umano.

Racconto a M. che, nonostante i miei italianissimi nome e cognome, ho qualcosa di greco anche io. La famiglia di mia madre proviene da una zona del sud Italia che faceva parte della Magna Grecia, ed il loro cognome porta ancora i segni di quelle radici elleniche. M. risponde raccontandomi estasiato l’incredibile vicenda di un suo amico che, facendo il test del dna, ha scoperto di non avere praticamente nulla di greco nel patrimonio genetico. Sorridiamo nel buio, in silenzio, soppesando la bellezza dell’idea che ciascuno di noi sia un’irripetibile miscuglio di tantissime cose.

Poi poso lo sguardo sul piccolo tatuaggio egizio impresso sulla spalla sinistra di M., chiedendomi cosa rappresenti per lui. Istintivamente, provo ad immaginare il suo documento. Un rettangolino di carta ripiegato nella tasca di un paio di pantaloni consumati, con appiccicata una foto anonima ed inespressiva. Accanto, nome-cognome-indirizzo-nazionalità. Sotto, una firma scarabocchiata.

M. ha potuto lasciare la Grecia e raggiungere questo posto sperduto in mezzo alla campagna laziale grazie a quel pezzetto di carta. E’ un cittadino ufficialmente riconosciuto. Formalmente, lui esiste perché possiede quel banalissimo pezzetto di carta.

Ma tutto il resto dov’è? I suoi movimenti a ritmo di musica, i suoi piedi sempre scalzi, il rebetiko, la sua implacabile fame di persone dove sono? Tutto quello che M. è, tutto quello che davvero lo fa esistere, non potrà mai ridursi a qualche parola stampata su un rettangolo di carta di pochi centimetri.

La mia mente torna al sorriso incerto di S. mentre a tentoni cercavo di spiegargli che avrebbe dovuto abituarsi all’idea di avere ormai poche possibilità in Italia. Non riesco a non pensare alla violenza di tutto questo: costringere un’esistenza ad appiattirsi su di un pezzo di carta, facendola diventare sbiadita, muta ed accartocciata esattamente come un ammasso informe di inanimate fibre di cellulosa.

Sarebbe bello se nelle tasche, al posto dei documenti, avessimo tanti coriandoli colorati.