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Diario di una mediatrice culturale

di Monia Ben R'houma

Photo credit: Schiermeyer

Questo è un inizio di una catena di racconti veri di migranti, delle loro disavventure, dei loro dolori e delle loro gioie.
Questa è una raccolta di emozioni che ho provato io personalmente, presentandomi come una pagina bianca davanti a queste persone, dando loro la possibilità di scrivermi addosso.
Accedendo a Wattpad avrete la possibilità di leggere e sarò lieta di ascoltare i vostri pareri.
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L’inferno di Jamila

Arrivo in quell’ufficio improvvisato con un tavolo e due sedie, sistemo le mie agende, il tablet con i questionari, le penne, l’elenco degli intervistati e una cartina geografica dell’Africa. Esco per prendermi un caffè alle macchinette e iniziare una nuova giornata, una giornata piena di storie nuove.

Entra in stanza Jamila, in arabo il suo nome significa Bella, ed era bella veramente. Una donna formosa, altissima e ben impostata, ha la pelle scura e liscissima, delle labbra carnose e degli occhi neri enormi. Porta il Hijab viola lasciato cadere leggero sulla testa definendo i lineamenti del suo viso.

Ha un abito lungo colorato. Una bambina la tiene dall’abito nascondendosi dietro di lei mentre entra nella stanza. Lei è Yasmine, gelsomino, figlia di Jamila. Una bambina di quattordici anni.

Jamila e Yasmine sono partite un anno fa dalla Somalia. In Somalia si vive una guerra civile già dagli anni ’90 che vede contrapposti il Governo federale agli Al-Shabab, un’organizzazione degli estremisti islamici. Oltre questo nel corso del 2017 scoppia una nuova carestia che ha portato il paese a una nuova emergenza dopo quella del 2011.

Jamila e Yasmine scappano da un regime estremista, dal terrorismo. Le donne e le ragazzine non possono girare per strada da sole o con il capo scoperto e non possono frequentare le scuole.
Jamila e Yasmine scappano dalla fame e dalla carestia. Hanno trovato un aggancio per lasciare il paese dove non è rimasto nessuno per loro.

Jamila mi racconta del suo viaggio e le mostro la cartina geografica per farmi indicare con il dito quali paesi ha attraversato durante il suo viaggio. Lei ha trentacinque anni e non ha mai frequentato la scuola, è cresciuta aiutando il padre e la madre con i lavori di campagna.

Jamila mi indica prima l’Etiopia, poi il Sudan, il Chad e poi la Libia. Sulla Libia si sofferma con il dito e mi dice che lì ha passato più tempo rispetto agli altri paesi. Ha visto il deserto, la fame, il caldo. Lei è stata trasportata con la sua piccola su pick-up da un posto all’altro. Tirava il Hijab sul viso suo e su quello di Yasmine per non farsi vedere dagli uomini che le trasportavano.

Il viaggio è stato molto difficile, mi racconta con tante pause tra una parola e un’altra. Il deserto era molto caldo e la notte tremavano di freddo, non avevano niente da mangiare o bere e i loro bisogni dovevano farle a pochi metri dagli altri. Tra i seni, Jamila, nascondeva la foto dei suoi genitori, una piccola immagine in bianco e nera con macchie marroni e qualche strappo.

Arrivate di notte in Libia dopo giorni di fame, dopo giorni in cui non hanno dormito per paura di essere separate, Jamila e Yasmine iniziano a percepire un clima abbastanza critico.

Vengono spinte giù dal pick-up, due uomini parlano in arabo, le urlano contro di seguirli senza parlare. Mi racconta di essere stata portata insieme alla figlia in un grande garage e chiusa in una stanza con altre donne, una cinquantina circa. Alcune donne piangevano e Jamila inizia a preoccuparsi, non era ciò che si immaginava di trovare. Si siedono a terra, in un angolino, Yasmine inizia a piangere chiedendo alla madre cosa stesse succedendo ma Jamila non riesce a spiegarlo nemmeno a se stessa…