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Disturbo da stress post-traumatico: un male dei rifugiati o un feticcio delle società ospitanti?

La diagnosi che deresponsabilizza la fabbrica dell’umanitario

Foto dal rapporto "I minori stranieri non accompagnati lungo il confine settentrionale italiano" realizzato da Intersos (2017)

Quasi tutti i bambini e i genitori richiedenti asilo separati con la forza dal governo USA al confine tra Stati Uniti e Messico nel periodo della politica trumpiana di “Zero Tolerance” riportano i segni del disturbo da stress post-traumatico: una patologia associata a un vasto insieme di sintomi che include pensieri e flashback intrusivi, “colpa del sopravvissuto” e stati dissociativi. È quanto risulta da un recente studio condotto dalla Brown University e pubblicato a fine novembre su Plos One 1. La ricerca, svoltasi con la collaborazione di operatori medico-legali coinvolti in interviste alle famiglie separate, riporta che genitori e figli condividono traumi pre-migratori simili e presentano segni e sintomi di trauma non solo legati al momento della separazione, ma anche a quello del ricongiungimento, e si manifestano in sentimenti di confusione, incubi ricorrenti, difficoltà a mangiare e a dormire.

Gli impatti psicologici della traversata, costellata da violenze, aggressioni, privazioni fisiche, sfruttamento sessuale e torture, è un tema trasversale e riguarda non solo i nuclei familiari ma anche i singoli, e non solo nelle rotte dirette negli Stati Uniti.

Nelle comunità per minori stranieri non accompagnati di Trieste giungono i ragazzi provenienti dalla rotta balcanica. In una di queste abbiamo incontrato Saif. Pakistano del Punjab, è giunto in Italia a inizio anno ed è entrato in comunità dopo l’identificazione sul confine italo-sloveno e un periodo di quarantena. Gli incontri con i mediatori culturali sono di routine nelle comunità di accoglienza, specie per minori che esprimono la volontà di richiedere la protezione internazionale. Saif ha espresso questa volontà e così è cominciato il lungo doloroso iter per il riconoscimento da parte delle autorità competenti.

Nei primi mesi della sua permanenza in struttura, si osservava un’alternanza di stati d’animo; ad atteggiamenti di condivisione e scherzosità si alternavano momenti ritrosia e irritabilità, in cui si chiudeva nel suo guscio di lenzuola e colloquiava con le immagini e i nodi del passato: fotografie di parenti rimasti in Pakistan, video di amici lontani, preghiere in urdu. A questo quadro si sommano tuttora sentimenti di chiara preoccupazione verso il futuro, che emergono frequentemente nel quotidiano: “cosa sarà di me quando uscirò da qui?”, “avrò con me tutti i documenti necessari?” sono domande ricorrenti quando il ragazzo incontra gli operatori.

Stando a quanto riportato dallo psicologo di struttura, Saif aveva tutti i tratti del disturbo da stress post-traumatico, e la storia che riportava durante i colloqui preliminari all’intervista con la commissione territoriale rafforzava tale diagnosi. Saif ha dichiarato più volte di essere fuggito da una condizione familiare complessa; ha raccontato di una madre morta molti anni prima e di un padre che, per proteggere e garantire economicamente suo figlio, aveva dato tutto, fino alla vita stessa. È stato riportato che durante i colloqui i suoi occhi erano gonfi e rossi e che il ragazzo era in uno stato di evidente sconvolgimento emotivo.

Il tempo di un migrante che entra in accoglienza è intriso di ambiguità. Si è appena giunti in una terra aliena, in cui si è scelto di approdare, eppure la terra d’origine brucia ancora nel cuore e nella testa. Nella sua analisi sulla condizione identitaria del migrante, il sociologo algerino Sayad, migrante a sua volta, sostiene che chi migra vive una duplice assenza 2: quella del paese di origine, cui ha rinunciato con la scelta di partire, e quella del paese di arrivo, in cui avverte la violenta cesura con il suo immaginario, la sua cultura e il complesso di simboli e metafore che avevano identificato fino al momento della partenza. Intorno alla condizione di chi migra, il medico e psichiatra Roberto Beneduce ha elaborato una psicologia della nostalgia che ha al centro quell’idealizzazione permanente della terra di origine in contrapposizione al sentimento di sradicamento vissuto nella terra e nel tempo presenti.

E lo stesso Beneduce, nella sua ricerca sul disturbo da stress post-traumatico nei migranti, rovescia la narrazione standard intorno a tale diagnosi a partire da storie simili a quella di Saif. Secondo Beneduce, nella diagnosi di PTSD ricadono in modo efficace tutti i traumi subiti dal migrante nel paese di origine e durante la rotta.

Questo calderone clinico riduce al paradigma del trauma tutta la sintomatologia che il migrante presenta quando giunge in Europa; in questo modo, il “post” implicito nel disturbo da stress post-traumatico riconduce tutta l’attuale sofferenza del migrante ai traumi passati e distoglie lo sguardo dalle sfide del presente, che non si esprimono in esperienze di acuto dolore, ma in una provvisorietà prolungata e altrettanto estenuante, in una forma continua di sofferenza, alimentata dall’iter burocratico dell’accoglienza e dell’asilo: “che cosa ne sarà di me quando uscirò da qui?”, “Come sta la mia famiglia lontana?”. Stando a questa lettura, le domande di Saif sarebbero quindi da inscrivere nel quadro psicologico di un ragazzo che non è solo portatore di traumi puntuali e acuti, ma accusa anche, istante per istante, gli impatti psicologici della prolungata provvisorietà e del tempo sospeso a cui è condannato dalle maglie dell’aiuto umanitario.

Qualche mese fa, in seguito all’analisi comparata delle carte e delle testimonianze a disposizione, la commissione territoriale ha contattato la referente di struttura per riferire che Saif non è affatto orfano. Il padre e la madre sono in Punjab, in salute. Al successivo colloquio con la mediatrice culturale, Saif ha confermato questa versione dei fatti e ha ammesso di aver mentito.

Il legale che aveva seguito da vicino la vicenda non era stupito dall’evoluzione degli eventi: negli anni ha imparato che i migranti diretti in Unione Europea vengono istruiti opportunamente su quali sono i canali privilegiati per sperare di ottenere tutele e riconoscimenti legali; perché una richiesta di asilo risulti realmente supportata, bisogna tirare fuori una storia atroce.

Altri autori si esprimono sulle interviste con le commissioni territoriali, meticolosamente preparate affinché emergano i dettagli e gli snodi traumatici dell’esperienza del migrante: persecuzioni, episodi di tortura o perdita di cari durante la rotta, un corpo dilaniato, tutto concorre a costruire una narrazione meritevole di essere presa in carico. A questa drammatizzazione del proprio vissuto il migrante è sottoposto in sede di richiesta di asilo, e in essa ricade anche il tentativo mal riuscito di Saif. “La conseguenza”, scrive Beneduce, “è che la sola possibilità dei cittadini stranieri irregolari di essere riconosciuti è quella di diventare malati.

Questi nessi sono fabbricati dai meccanismi stessi con cui i migranti giunti in Europa vengono regolarizzati entro le nostre burocrazie: dato che le procedure di legalizzazione danno massima importanza al corpo, essere riconosciuti nella propria identità personale e legale vuol dire innanzitutto essere riconosciuti come portatori di sofferenze psicofisiche da curare. Il migrante non è riconosciuto indipendentemente da queste considerazioni, ma nella misura in cui si denuncia come soggetto bisognoso di cure, sofferente, da aggiustare.

L’egemonia mondiale del PTSD in Europa e oltreoceano è dovuta al fatto che questa diagnosi rappresenta una strategia di riuscita medicalizzazione della sofferenza, che riduce il contenuto doloroso a singoli eventi traumatici, da superare durante il processo di (supposta) integrazione nella società ospitante. Questo meccanismo costringe la sofferenza del migrante in un territorio moralmente neutro, in cui non vi è possibilità di riscatto politico dal dolore – i migranti vittime di tortura o violenza sui confini non vedranno mai vendicato il trauma subito. Nessuna lettura morale viene prodotta del trauma, schiacciato com’è nella retorica binaria del migrante sofferente al cospetto dei beneficiari ospitanti.

Alla fine, Saif non è stato ritenuto idoneo alla richiesta di protezione internazionale. Da minore non accompagnato, usufruirà delle tutele del caso e una volta maggiorenne si traccerà un proprio percorso in Europa. La referente di struttura è abituata a queste dinamiche, ma dichiara di essere stata sorpresa.

Quegli occhi gonfi e rossi mi erano sembrati inequivocabili”, ha detto seduta dietro la scrivania piena di permessi, visti e regoli di matematica. Saif soffre comunque, nonostante i genitori siano in salute e lui non abbia una storia drammatica da sfoderare alla commissione. In questo gioco di narrazioni, nessuno è stato in grado di riconoscere Saif in quanto ragazzo, sano o malato a piacere di chi racconta, ma comunque in quanto ragazzo, con un corpo e una sua storia, un’identità personale e un diritto ai suoi diciassette anni.

  1. Il comunicato stampa della ricerca
  2. Abdelmalek Sayad, “La doppia assenza” – Abdelmalek Sayad – Raffaello Cortina Editore

Rossella Marvulli

Ho conseguito un master in comunicazione della scienza. Sono stata a lungo attivista e operatrice nelle realtà migratorie triestine. Su Melting Pot scrivo soprattutto di tecnologie biometriche di controllo delle migrazioni sui confini europei.