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Rwanda: un film per non dimenticare il genocidio

La recensione del film del 2018 del regista Riccardo Salvetti

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Il 6 aprile si è celebrata la Giornata della Memoria del Genocidio del 1994 contro i Tutsi in Rwanda. Un’occasione per tornare a riflettere su come, quando e perché nella storia, anche presente, possano verificarsi spirali di violenza tali, da sembrarci apparentemente irrazionali e inspiegabili. Delle spiegazioni sono invece possibili e necessarie, attraverso un approccio storico e critico che rimetta in causa le percezioni comuni su quelle che definiamo “etnie”, su come elaboriamo la violenza, i conflitti (e gli esodi) che ne scaturiscono.

Un film-spettacolo teatrale italiano su quei fatti: Rwanda (2018)

Per ricordare quegli eventi, suggeriamo la visione di un film del 2018, del regista Riccardo Salvetti, girato a Forlì e prodotto grazie a un crowdfunding, con il supporto della Regione Emilia Romagna e di Emilia Romagna Film Commission1

Il film, dal titolo “Rwanda”, vincitore di numerosi riconoscimenti internazionali, è tratto da uno spettacolo teatrale omonimo, di Mara Moschini e Marco Cortes, prodotto da Ass. Moka – Teatro Civile con il patrocinio di Amnesty International Italia. 

La trama, tratta da una storia vera, racconta  la storia di due famiglie che, pur nella loro lotta per la sopravvivenza, non sono ridotte a semplici vittime: nel corso del genocidio, riusciranno a proteggere altrǝ perseguitatǝ, seppur al costo di grandi perdite.

Il rifiuto di una restituzione esplicita e morbosa della violenza; una rappresentazione dei corpi bianchi e neri che sfida la linea del colore; lo spazio dedicato alla violenza di genere e allo stupro di guerra: tutti aspetti che fanno di questo film/spettacolo uno strumento di approfondimento artistico interessante sui fatti del genocidio.

Rwanda sembra evitare una rappresentazione ridondante della violenza genocida, mentre rimane evidente lo sforzo investito nella riproduzione verosimile delle ambientazioni. Significativamente, il regista sceglie degli attori bianchi, Moschini e Cortes, per interpretare, nella maggior parte delle scene, i protagonisti. Una scelta che si può forse interpretare avendo in mente il pubblico a cui è destinato il film: quello italiano, in cui la componente bianca è la più numerosa. Il vergognoso passato coloniale italiano si é sedimentato in un razzismo sistemico che permea l’intero edificio sociale nazionale. Una delle sue conseguenze (normalizzate ma non per questo innocue) sulla psicologia collettiva riguarda una certa resistenza di questa ed altre audience bianche occidentali ad immedesimarsi nei corpi non-bianchi. Mettere al centro della scena due corpi bianchi per la maggior parte delle scene sembra uno strumento, quindi, per operare una dissociazione percettiva nella spettatrice.

In alcune scene topiche, infatti, i protagonisti Cecile e Augustin sono invece interpretati da Christelle Yonga e Serge N’Guessan 2. Le immagini di questi quattro corpi si incrociano, allora, in un rimando di immagini che riesce a mettere in discussione, confondendola con rapidissime evocazioni, la stessa percezione visiva (e simbolica) del colore della pelle.

Secondo alcune stime, durante il genocidio almeno 250.000 persone furono vittime di strupro come arma di guerra. Questo elemento non poteva, dunque, sfuggire alla rappresentazione: ancora una volta la scelta in Rwanda è quella, peró, di non feticizzare le scene di violenza.

La costruzione delle “etnie”: divide et impera

Le origini profonde del genocidio sono da ricercare nelle strategie coloniali del “divide et impera”, con cui il Belgio creava e disfaceva alleanze di comodo con diversi gruppi sociali del Rwanda già dagli anni Trenta del novecento. Questo processo di disgregazione e riassemblamento dei gruppi sociali veniva condito di caratteri identitari e razziali (la presunzione di una diversità genetica, di una maggiore predisposizione a determinati lavori o ruoli, di una distinzione tra “veri” e “falsi” autoctoni) al fine di consolidare i gruppi così formati. Nel gioco delle alleanze e della distribuzione ineguale dell’accesso al potere e alle risorse, i gruppi si cristallizzano di conseguenza come “nemici oggettivi” o “naturali” gli uni degli altri. Già a partire a partire dagli  anni Sessanta si verificano i primi esodi di massa dei Tutsi del Rwanda: identificati come élite minoritaria dominante, crescono le persecuzioni a loro danno.

Oltre la “pulizia etnica”: il genocidio come violenza politica strategica e centralizzata

Il 7 aprile 1994, le Forze Armate Rwandesi, con il sostegno di miliziani, diedero inizio a un ciclo di massacri durato 100 giorni. Come pretesto, usarono la morte del Presidente Habyarimana, provocata dalla collisione del suo aereo con un missile di origine tutt’oggi non accertata. Il genocidio spazzò via almeno 800.000 vite.

Per giustificare un genocidio motivato da interessi politici ed economici, i suoi organizzatori diffusero, con l’aiuto dell’apparato di sicurezza nazionale e dell’emittente Radio Télevision Libre des Milles Collines, una teoria del complotto che opponeva le due principali “etnie” rwandesi.
Tutte le persone “Hutu” furono costrette a massacrare e sterminare i loro connazionali “Tutsi”, presunti autori dell’omicidio del Presidente Habyarimana e dipinti come nemico oggettivo e storico degli “Hutu”. Anche quelli tra di loro che si opposero al genocidio rimasero vittime del massacro.

Quando il genocidio ebbe inizio, 450 caschi blu delle Nazioni Unite erano presenti in Rwanda, nell’ambito di un’operazione di “Peace Keeping” avviata con la presunta fine della guerra civile (1990-1993). Il contingente fu ritirato dal Paese una settimana dopo, il 14 aprile 1994, in seguito all’uccisione brutale di alcuni suoi membri. Questa fu l’ultima azione concretamente intrapresa dalla “comunità internazionale”, che per i 100 giorni successivi rimase a guardare. 

Spesso ricordiamo il genocidio in Rwanda come una spirale di violenza spontanea e incontrollata, animata da un “odio etnico” cieco ed efferato. A supporto di questa narrazione, l’arma più diffusamente utilizzata per i massacri, di cui è divenuta simbolo: il machete.

Strumento perfetto per essenzializzare l’identità degli “Hutu” in quanto “coltivatori”, il suo ampio utilizzo rispondeva invece a una strategia razionale elaborata dal governo, che di fronte alla scarsità di armi da fuoco disponibili, ha istruito i diversi comuni a economizzare il loro impiego e a incentivare l’utilizzo dei machete, di cui invece i Rwandesi disponevano in abbondanza.

Non è possibile sostenere che l’odio razziale su base etnica non abbia avuto un ruolo nel dispiegamento dei massacri, tuttavia è necessario evidenziare che l’effettivo genocidio – lo sterminio di un intero gruppo sociale identificato come tale – è necessariamente il risultato di una strategia razionale elaborata.

Raccontare le logiche politiche e gli interessi economici dietro a questo eccidio non serve solo a mettere i puntini sulle i: diversi modi di interpretare le cause di un conflitto portano alla formulazione di differenti interventi e possibili soluzioni. L’intervento dei caschi blu si è dimostrato in più occasioni fallimentare, se non addirittura complice delle violenze, come testimoniato non solo nel caso del Rwanda, ma anche dell’ex-Jugoslavia.

Analizzare le dinamiche sociali della violenza ci permette di comprendere conflitti apparentemente irrazionali e insanabili, influenzando la nostra capacità di prevenire il loro dispiegarsi o perpetuarsi. 

Ci sembra interessante segnalare il racconto di queste complessità anche attraverso gli strumenti dell’arte, largamente autoprodotta, come nel caso del film di Salvetti, Cortes e Moschini, di cui torniamo a consigliare la visione.

  1. Rwanda – Un Film per fare la Differenza. Vedi: produzionidalbasso.com
  2. https://it.wikipedia.org/wiki/Rwanda_(film_2018)

Valentina Lomaglio

Studio la mobilità umana nell'area mediterranea, ed in particolare nel contesto tunisino. Mi interessano le prospettive intersezionali, teoriche e militanti, alle questioni di genere, razza e classe. Sono laureata in Scienze Politiche, Sociali e Internazionali presso l'Università di Bologna, e sto frequentando il master in Mediazione Inter-Mediterranea delle Università Ca' Foscari di Venezia e Paul Valéry di Montpellier.