Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
Ph: Valentina Delli Gatti
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Ventimiglia. La memoria dal confine per Said e tutte le morti dell’ultima frontiera

Persecuzione, segregazione, violenza fisica e psicologica hanno condotto Said alla morte

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Siete arrivati tardi, troppo tardi,
e ci sarà sempre un mondo –
un mondo bianco fra voi e noi.
Fanon, Pelle nera, maschere bianche

Passata una certa galleria lo scenario cambia repentinamente. Il verde piemontese di piena primavera si mescola con l’azzurro del mare ligure ingrigito dal finestrino di un treno che mai si stanca di trasmettere malinconia. Non a caso è un pomeriggio uggioso. Pioverà a Ventimiglia. Piove ancora a Ventimiglia.

Arrivati in quest’ultimo lembo di terra, la netta demarcazione, non solo paesaggistica, si fa sempre più chiara. Non più striature di azzurro chiaroscuro della costa, ma case di pietra, hotel e lidi balneari colano a picco sulle baie. Fuori dalle ferrovie la discesa al mare è molto breve, sempre più stretta. Lasciando la costa a sinistra, lo sguardo arriva in Francia. Un monte roccioso divide in due il confine. O meglio, il confine divide in due il monte, il monte del passo della morte.

A lungo è stato il sentiero della libertà ma il percorso è ripido e solo chi segue i passi tracciati dalla storia in movimento – quella mai raccontata – lo attraversa.

Quei passi lasciano tracce invisibili, cancellate dalla violenza dell’ultima frontiera che respinge le persone migranti già stremate dal lungo cammino che portano in spalla. Quelle tracce parlano di vite logorate, di alternative disgraziate e di una via di fuga. Chi ne tiene memoria lo sa che quella via di fuga è l’unico accesso alla libertà, il solo passepartout per fuggire dai conflitti armati in Africa, dalle persecuzioni in Asia, per evadere dalla violenza del potere e da feroci dittature. Paura, angoscia, disagio e rabbia muovono le persone in tutte le direzioni possibili, alla ricerca di pace al di là del confine, senza spesso riuscirci.

La frontiera è transito ma la frontiera italo-francese non è un passaggio universale, costituisce un passaggio unilaterale. Per le persone migranti, per le persone che non possono superare una certa linea, quella del colore, il confine non è solamente un luogo fisico, né simbolico. Il confine è gerarchia e posizionamento, un dispositivo di filtraggio che non solo contiene ma respinge la vita altra, la vita che non conta, la vita “non identificabile” perché invisibile o forse troppo visibile, scomoda, fastidiosa, dunque ghettizzata, segmentata e razzializzata in base al luogo di origine, identità culturale, religiosa, sessuale. Un luogo che appare enormemente contraddittorio, ma che in realtà è segnato da una coerenza altamente spietata e inflessibile: quella armata dalla Fortezza Europea.

Il confine italo-francese è l’ultima frontiera che separa le persone migranti sul territorio italiano dall’esistenza sperata altrove, lontano dai marginali frantumi della sopravvivenza, quella che da anni diventa normalità per tutti. Non solo una barriera ma un dispositivo di controllo sofisticato e organizzato da cui si declinano molteplici politiche violente e mortifere intensificate ed agite dalla polizia transalpina.

Se è vero, infatti, che non tutti i luoghi di frontiera sono uguali, e che a marcare la differenza è soprattutto il territorio tracciato dalle cartografie globali, esse ritrovano la propria connessione e similitudine nella logica necropolitica che le delinea.

Ventimiglia è un luogo di transizione sempre più sorvegliato, militarizzato ed esternalizzato sui territori internazionali come ogni territorio frontaliero, e applicare un metodo al confine, citando l’analisi di Mezzadra, ci permette di conoscerlo per ciò che realmente è, mostrando il funzionamento globale del meccanismo di confine nel quadro specifico dell’area Ventimiglia-Menton.

E come ogni terra di mezzo, il confine agisce come campo di forza in cui sono molteplici i dispositivi in gioco. Il territorio francese immediatamente adiacente, come Casteller, uno dei luoghi oltrefrontiera, ne costituisce la sua prolungazione.

La Francia ha un controllo diretto e ormai costante della mobilità dall’Italia, anche e soprattutto per scoraggiare i tentativi dal monte e sul litorale.

Un doppio confine che agisce separato proprio per permettere il monitoraggio su ogni persona transitante in cui, certamente, la linea del colore, è la principale arma per scoraggiare i soggetti non desiderati.

Solo lo scorso marzo 2023 il nuovo prefetto di Imperia, Valerio Massimo Romeo, ha presieduto a Ventimiglia una riunione del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica con l’obiettivo di adottare iniziative volte a gestire lo stazionamento delle persone migranti in alcune aree del centro cittadino. Nessuna tutela per le persone, ma disposizioni di una “Forza” dell’ordine che progressivamente viene liberata e legittimata sulle persone migranti, in transito verso la Francia o bloccate al margine della città.

A pochi metri dal giardino in cui lo scorso 30 aprile si è tenuta l’assemblea contro la progressiva corporazione poliziale sempre più compattamente schierata su questo fronte, contro le tende dei migranti. Sotto un viadotto si riunisce l’angoscia e lo sconforto di chi ogni giorno subisce la brutale paura delle retate e l’orrore degli sgomberi. Le tendopoli erano e rappresentano una chiara conseguenza del degrado sociale in cui le persone che vivono il confine vengono rilegate, senza poter andare oltrefrontiera.

Vite negate, storie dimenticate, corpi neri e indesiderati, “corpi del dolore” impiegando le parole di Achille Mbembe. Lo scenario è un film dell’orrore, ma senza tempi di suspense, perché qui è già tutto sotto gli occhi di tutti. Proprio come sul fronte di guerra, vigilata ininterrottamente da tanta, troppa, polizia, è un terrore annunciato.

Ma anche il nulla va raso al suolo e alle prime luci del passato 30 maggio, il prefetto Romeo, accompagnato dal nuovo sindaco Di Mura nel primo giorno di mandato, munito di un ingente schieramento di forze armate, ha autorizzato la circoscrizione e l’invasione di quel luogo, sgomberando le persone – afgani, somali, eritrei, tunisini, sudanesi – camuffando un’operazione di cleaning per legittimare una vera e propria operazione militare contro chi non ha nulla, chi non conta nulla. Le ruspe hanno distrutto tutto, l’abuso del potere ha violato ogni diritto alla vita di questa gente. L’alternativa non esiste. Reprimere o punire è l’unica missione pensata, sancita con l’ordinanza anti-bivacco che prevede il DASPO per chi si accampa, e l’arresto per chi lo vìola 1.

Chi ha potuto si è messo in marcia ma sono sempre meno coloro che tentano l’attraversamento. Le persone vengono fermate dalla polizia francese, identificate e rimandate in Italia. Fino a quando l’ultima frontiera lo diventa per davvero.

Il 4 giugno, il corpo di Said, un ragazzo somalo di 29 anni che quella realtà la viveva ormai da troppo tempo, è stato rinvenuto sulla spiaggia di Bordighera per circostanze ancora da chiarire.

Persecuzione, segregazione, violenza fisica e psicologica hanno condotto Said alla morte.

Lo avevo incontrato nell’ultima assemblea indetta dalle solidali locali, contro gli sgomberi e la violenza della polizia che da tempo lo stavano logorando. Non riusciva a parlare dal tremore che i traumi lasciavano sul suo corpo. Riusciva solo a esprimere il proprio timore, la paura di passare la frontiera, paura di non passarla, paura di andare ma anche di restare. Timore di essere lasciato solo come di fatti lo era. Senza un posto dove stare, dopo l’ultimo e violento sgombero di ciò che restava di una tenda, Said, ha chiuso quegli occhi dolci, probabilmente trovando respiro solo nell’apnea del mare 2.

Dinanzi all’atroce notizia di questa ennesima morte di frontiera, passata indisturbata, la collera ci guida e ci protegge da tutto il malessere che nutriamo con loro.

Oltre alla geografia di dispositivi confinari, ve n’è un’altra che dal basso si alimenta per emergere e resistere. Il confine ci è entrato dentro, lo portiamo nell’esposizione estrema alla violenza che indirettamente viviamo e patiamo perdendo un amico, un fratello, una sorella. Ha invaso la nostra vita in ogni suo aspetto così fortemente che ha spostato i confini delle nostre soggettività per avvicinarci a quella delle persone che la frontiera la patiscono con la vita.

Said non ce l’ha raccontata la violenza, ce l’ha dimostrata, ce l’ha sbattuta davanti agli occhi, picchiata nel cuore. Forse Said ha trovato ora la sua pace, ma noi non riusciamo a darcela pensando a quanto si poteva fare e non è stato fatto. La collera non impedirà che altre vite vengano spezzate, ma scongiura ogni indifferenza e rassegnazione. Continueremo a stringere il rapporto che dai confini del mondo si lega alle memorie. La memoria ha un ruolo strategico nell’oltrepassare il confine e per combatterlo. Agisce anch’essa costruendo una rete di forze che non lascia sol* chi ha memoria delle storie dimenticate.

Le morti di frontiera sono memorie che non faranno forse la storia ma troveranno nel ricordo di chi racconta la libertà. Oltre il volto violento dell’Europa e la guerra che combatte dall’interno, oltre la guerra che fa morti, c’è un grido che solca il cammino: Said, Moussa, Ali, Seid … Non sono morti casuali, sono morti di frontiera!

Siamo arrivat* tardi, Fratello, ma non ce ne andremo più.

  1. La nota di Progetto20K
  2. https://www.lastampa.it/imperia-sanremo/2023/06/09/news/identificato_il_migrante_morto_trovato_sulla_spiaggia_di_bordighera-12849526/

Valentina Delli Gatti

Antropologa e attivista per la libertà di movimento e il supporto delle persone migranti.
Sono specializzata in migrazioni internazionali e indago il tema della mobilità e delle mobilitazioni migranti con particolare attenzione all’etnografia delle frontiere e le strategie di lotta nell’area euromediterranea e nel contesto sud e centro americano.
Sono operatrice del progetto Mem.Med per la ricerca e l'identificazione delle persone migranti scomparse.