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Il Libro Bianco sul governo delle migrazioni economiche

Tra paradigmi da scardinare e linee di azione concrete

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È stato presentato lo scorso gennaio il Libro Bianco sul governo delle migrazioni economiche 1. Il testo, pubblicato dal settore Economia e Lavoro della fondazione ISMU – Iniziative e studi sulla multietnicità 2 con la collaborazione di ASGI, fornisce un’analisi dei principali settori professionali interessati dalla presenza straniera, analizza le cause di alcuni trend italiani ricollocandoli nel contesto di fragilità demografica che caratterizza il nostro Paese, e ne mette in luce le criticità, fornendo indicazioni nell’ottica di ripensare gli schemi di governo delle migrazioni economiche e le procedure per l’incontro tra domanda e offerta di lavoro straniera.

Se nel 2021 il numero complessivo di nascite ha toccato un record negativo storico dall’Unità d’Italia, con 400mila nuovi nati, quasi 58mila di questi nascono da genitori entrambi stranieri. Questo trend sembra non fermarsi e porterà ben presto alla crescita del numero di stranieri residenti in Italia o di persone straniere con background migratorio. Eppure, la fragilità demografica dell’Italia, responsabile di un saldo negativo delle nascite rispetto alle morti, è soltanto in parte compensata dal saldo migratorio.

È stata registrata infatti una riduzione del tasso di natalità anche tra le famiglie straniere, che a loro volta recepiscono il clima di difficoltà economica e la forte connessione tra il benessere di un nucleo familiare e il numero di figli piccoli al suo interno. Dal 2014, dunque, l’apporto demografico positivo della componente immigrata non è più in grado di controbilanciare la diminuzione della popolazione autoctona. 

Ma in che modo le oscillazioni demografiche impattano sul mondo del lavoro e sulle capacità di reclutamento di un Paese? Nonostante il crescente ricorso a tecnologie labour saving e gli sviluppi della robotica e dell’intelligenza artificiale, si prevede che queste dinamiche demografiche accentueranno le difficoltà di reclutamento che le imprese italiane già incontrano. È pertanto questa la matrice di quell’atteggiamento nei confronti delle migrazioni e dell’accoglienza in Italia che potremmo definire “pragmatico” – ovvero considerare le persone migranti come risorsa e “riserva da cui attingere per coprire i posti di lavoro altrimenti destinati a restare vacanti”. Va inoltre sottolineato che una delle principali cause dell’impoverimento delle famiglie è proprio il basso livelli di occupazione della popolazione in età attiva, con categorie particolarmente svantaggiate in questo senso, donne e giovani in primis.

L’Italia nel quadro della crisi globale della cura

La crescita dell’età media della popolazione in Italia, relativa per la stragrande maggioranza alla componente italiana, ha definito l’urgenza di costruire sempre più spazi lavorativi dedicati alla cura e dell’assistenza, e dunque di favorire l’inserimento lavorativo delle persone straniere. Si stima inoltre che, a differenza di quello che accade attualmente, le famiglie delle persone anziane non riusciranno più a coprire il fabbisogno di cura della persona e dell’abitazione dei cosiddetti “grandi anziani”, oltre al fatto che la decrescita della natalità porterà a un inevitabile incremento di anziani soli. Tutto questo avrà un impatto decisivo sull’universo dei servizi socio-sanitari e sui bisogni di personale nell’ambito dell’assistenza. Si stima inoltre che, se immaginassimo una situazione di emersione di tutta la popolazione straniera che vive di lavoro sommerso, quello del lavoro domestico sarebbe il primo contratto collettivo per numero di addetti. Come riportato in uno studio promosso dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro, la regolazione del lavoro domestico retribuito e del lavoro degli immigrati e delle immigrate costituisce una componente cruciale per la creazione di personale qualificato e sollevato dal rischio di sfruttamento.

I lavori degli immigrati e il loro “costo”

Nel Libro Bianco si riporta che, nonostante i livelli di qualificazione mediamente più bassi degli immigrati rispetto ai lavoratori italiani, le persone immigrate hanno mantenuto nel tempo un buon livello di occupabilità anche nelle fasi di congiuntura più acute. Questo è dovuto alla loro elevata disponibilità, dettata dalle condizioni, a svolgere mansioni manuali di tipo low-skilled, spesso anche con connotazioni servili e a bassa retribuzione. Tutto questo ha portato a un modello di integrazione “di basso profilo” sempre più diffuso e sistematico: circa tre stranieri su quattro sono inquadrati come operai, e la loro presenza diminuisce man mano che ci si avvicina ai ruoli apicali; se 2 lavoratori italiani su 10 svolgono mansioni al di sotto delle qualifiche, nel caso dei lavoratori stranieri il rapporto è di 5 su 10; i lavoratori stranieri sono sovra rappresentati tra gli intestatari di contratti a tempi determinato, di contratti part-time involontari e nel lavoro sommerso.

Un modello di integrazione di basso profilo genera un’immigrazione strutturalmente svantaggiata, non sostenibile sul lungo periodo, con famiglie straniere soggiornanti sul territorio italiano e incapaci di soddisfare i bisogni essenziali. Le condizioni dell’occupazione delle persone straniere definite da questo modello rischiano di rovesciare il paradigma che lega integrazione e occupazione, trasformando il lavoro in un ulteriore antro di esclusione e marginalizzazione. Inoltre, l’overqualification già menzionata, così presente nella categoria dei lavoratori stranieri, genera uno sperpero di capitale umano, con l’effetto di impiegare le persone straniere in professioni che non ne valorizzano le competenze acquisite nei paesi di origine o quantomeno le competenze linguistiche e interculturali che inevitabilmente hanno sviluppato nel radicamento in un nuovo continente.

Il Libro Bianco segnala quanto le condizioni del lavoro e l’iter giuridico verso la regolarizzazione siano legati a doppio filo: l’irregolarità giuridica da cui spesso le persone straniere partono o nella quale cadono conduce inoltre i lavoratori immigrati dentro la spirale dell’economia sommersa nelle fila dei lavoratori sfruttati, vittime di caporalato o di prostituzione. È per questo che delle politiche migratorie consapevoli, che implichino una presa in carico lungimirante delle persone straniere, costituiscono uno strumento fondamentale, con effetti positivi che si riverbererebbero a cascata anche sulla dimensione lavorativa, perché consentono di tutelare i lavoratori e le lavoratrici, ma anche di favorire le esigenze di reclutamento delle imprese che operano nella legalità, togliendo al contempo forza-lavoro a quelle imprese che al contrario rimpolpano l’economia sommersa.

Al contrario, considerazioni sui lavoratori immigrati interamente focalizzate sulla collocazione (talvolta illegale se non criminale) della popolazione straniera negli interstizi dell’attuale sistema socio-economico non favorisce l’inserimento di tale categoria in maniera davvero lungimirante e integrata; ovvero, come si dice testualmente nel Libro Bianco, “politiche (o non politiche) migratorie che si limitano ad assecondare le aspettative della domanda di lavoro sono destinate, prima o poi, a rivelarsi un boomerang”. 

Perché la legge italiana non funziona

L’Italia, e specularmente molti altri Paesi, soffrono un profondo disallineamento tra il quadro legislativo e regolamentare delle migrazioni economiche e i modelli reali di inclusione occupazionale. Tutto questo è emerso in maniera palese durante la pandemia, quando la chiusura delle frontiere esterne e interne ha reso evidente la dipendenza delle catene di approvvigionamento alimentare dal lavoro stagionale degli immigrati. A questo si aggiungono le condizioni per l’ingresso regolare delle persone migranti in Unione Europea, raccolte nel Testo Unico sull’Immigrazione del lontano 1998.

Stando al Testo unico, annualmente deve essere rilasciato un permesso di soggiorno lavorativo a una quota di persone straniere che fanno regolarmente ingresso in Italia per il lavoro stagionale. Dal momento che tali condizioni hanno sistematicamente dimostrato di non garantire un incontro reale tra domanda e offerta di lavoro, la maggior parte degli osservatori ritiene che il Testo unico sia stato prodotto non tanto per dare una regolazione e una struttura ai lavoratori migranti in funzione delle esigenze del mondo del lavoro, quanto per ridurre la pressione migratoria a opera dei flussi irregolari. Di più: se nel Testo unico il meccanismo delle quote è definito in modo tale che i migranti assunti entrino in Italia solo al completamento dell’assunzione, di fatto tale meccanismo si è trasformato in uno strumento di regolarizzazione degli stranieri già presenti sul territorio italiano.

Nel Libro Bianco si osserva anche che, considerato che il meccanismo delle quote è il frutto di accordi con Paesi che collaborano al contrasto dell’immigrazione irregolare . e che hanno dimostrato di avere capacità contrattuale nelle relazioni con i Paesi europei ., stipulare tali accordi porta a discriminare i potenziali emigrati da quei Paesi extra europei che, al contrario, in questa materia non riescono a negoziare un accordo con l’Unione. In merito a questo tema, il Libro bianco menziona le numerose proposte di riforma elaborate in questi anni a fronte dell’insoddisfazione per il quadro normativo vigente, tutte convergenti sulla necessità di passare a un approccio meno respingente e restrittivo nella gestione delle migrazioni economiche. Le iniziative in questa direzione sono accomunate dalla proposta di ampliare la possibilità di ingresso legale mantenendo soltanto il meccanismo delle quote ordinarie ed eliminando invece quello delle quote transitorie; inoltre, tali iniziative propongono un meccanismo di regolarizzazione sistematico, basato sulla valutazione di casi individuali che dimostrano di soddisfare determinate condizioni (ad esempio, un certo grado di integrazione nel Paese o l’intenzione di un datore di lavoro di assumere una persona soggiornante irregolarmente). 

Ma ci sono delle categorie di migranti che possono legittimamente fare ingresso in Italia ed esercitare regolare attività lavorativa al di fuori del meccanismo delle quote? Stando all’art.27 del Testo unico, ben poche categorie godono di questa opportunità: si tratta dei migranti altamente qualificati (per i quali, comunque, l’Italia non rappresenta una meta attrattiva), la categoria egli expat e specifiche figure professionali come gli infermieri assunti da strutture pubbliche e private, per i quali la legge Bossi-Fini ha previsto la possibilità di ingresso al di fuori di decreto flussi.

Inoltre, si consente l’esercizio di attività lavorativa ad almeno una decina di titoli di soggiorno rilasciati in Italia per motivi diversi (ad esempio, il permesso di soggiorno per motivi di ricongiungimento familiare o di protezione internazionale, dunque ai titolari di status di rifugiato e di protezione sussidiaria, o ai richiedenti asilo); quanto invece alla possibilità di convertire in permesso di soggiorno lavorativo un qualsiasi altro titolo di soggiorno, questa possibilità è consentita soltanto a determinate condizioni (ad esempio, ai titolari di permesso di soggiorno per ragioni familiari, di asilo, di protezione umanitaria, ai minori che raggiungono la maggiore età). Al contrario, non sono mai beneficiari di una conversione in permesso di soggiorno lavorativo i titolari di permessi di soggiorno per brevi periodi (precisamente per periodi non superiori a 90 giorni) – ma questi, paradossalmente, sono per la maggior parte lavoratori assunti tramite il meccanismo delle quote, sempre più associato all’assunzione di lavoratori stagionali.

Tutto questo conferma l’inconsistenza e l’inefficacia del meccanismo delle quote nell’ottica di offrire regolare ingresso, permanenza e attività lavorativa a una categoria di persone migranti: infatti, dall’esclusione dei migranti stagionali rientranti nelle quote dalla possibilità di proseguire la propria permanenza in Italia per lavoro, e dalla possibilità di esercitare attività lavorativa, anche sul lungo periodo, data a titolari dei più diversi permessi di soggiorno, consegue che la stragrande maggioranza di richiesta di lavoro extra-europeo è soddisfatta non da chi vorrebbe entrare in Europa tramite decreto flussi ma da chi in Europa vi è già entrato, “irregolarmente” o tramite permessi diversi da quelli per esercizio di attività lavorativa.

Che fare?

Il Libro Bianco analizza i paradigmi più comunemente adottati per leggere l’universo delle migrazioni economiche in Italia e propone nuove forme di azione e gestione. Tra le retoriche ricorrenti attorno al fenomeno dei migranti economici, viene nominata l’illusione che si possa raggiungere l’obiettivo della cosiddetta migrazione “zero”, un’opzione irrealistica per la natura stessa di un contesto democratico, che imponendo l’apertura dei confini espone fisiologicamente il proprio territorio all’ingresso “irregolare” di migranti (in primis quelli in cerca di protezione). E tuttavia, mantenere aperto un canale legale di ingresso in Unione Europea è un’opzione utile ad assicurare un apporto positivo dell’immigrazione ai tassi di attività e di occupazione, specie considerando il generale processo di invecchiamento della popolazione che l’Italia attraversa, insieme al crescente disallineamento tra domanda e offerta di lavoro (causato dall’assottigliamento delle fasce di età più giovanili).

Pertanto, è proprio in un paese come il nostro che il ricorso all’immigrazione rappresenta invece una delle possibili soluzioni per rispondere ai fabbisogni professionali. Nello specifico, la retorica dei migranti che non ci servono è fuorviante; gli ultimi anni hanno dimostrato che non vi è un nesso causale tra l’azzeramento degli ingressi regolari e una maggiore inclusione di italiane e italiani inattivi o disoccupati nel mondo del lavoro: una parte delle imprese italiane si è ormai abituata a contare sui lavoratori stranieri poiché ne apprezzano l’adattabilità, oltre al fatto che coprono il vuoto lasciato nelle attività di tipo manuale dalle nuove generazioni italiane, sempre più istruite e specializzate e sempre meno inclini a cercare impiego in attività quali l’edilizia, la saldatura e la carpenteria.

Una delle principali “buone politiche” per il governo delle migrazioni economiche deve essere quella di garantire a tutti i lavoratori e le lavoratrici delle condizioni di lavoro dignitose, anche dal punto di vista salariale; occorre dunque un riconoscimento sociale e retributivo di tutte quelle categorie (la logistica, le pulizie, i trasporti, l’agricoltura) che la pandemia ha contribuito a far emergere, dal momento che durante l’emergenza sanitaria la condizione di svantaggio connaturata in questi profili occupazionali ha ridotto alla povertà questa frangia della popolazione (italiana e straniera).

Inoltre, risulta fondamentale implementare e conservare la politica delle quote per garantire un costante ingresso regolare in territorio europeo; e tuttavia non bisognerebbe pensare che una politica delle quote anche molto generosa possa portare spontaneamente alla completa chiusura dei canali “irregolari” o impropri, innanzitutto perché non potremo prescindere dall’arrivo di persone con un effettivo bisogno di protezione; in secondo luogo, perché lo squilibrio tra la quota di migranti chiamati regolarmente in Europa e il numero di migranti economici che desiderano lasciare i propri paesi permarrà. 

D’altro canto, con questo non si vuole negare lo scenario che un maggior numero di canali regolari possa ridurre gli ingressi “irregolari” e il ricorso improprio alla richiesta di protezione internazionale, ma per riuscire a creare davvero una relazione tra i due eventi è necessaria un’operazione ben più complessa e ambiziosa, in grado di distinguere con sguardo davvero critico i migranti economici dai migranti forzati e di raccordare la gestione della mobilità umana con un ripensamento radicale dei sistemi di produzione in Europa e nel mondo, per costruire modelli di sviluppo sostenibili, che rendano superflua e accessoria l’opportunità di partire per ragioni economiche.

Il governo delle migrazioni economiche implica dunque la capacità di gestire una serie di trade-off sottovalutati nel dibattito pubblico, eppure cruciali: in primo luogo, quello che lega la dimensione economica implicita nella programmazione dei flussi, finalizzata a rispondere a specifici fabbisogni del mercato del lavoro, e la dimensione politica incline a rappresentare i canali legali come strumenti di contenimento dell’immigrazione irregolare e del ricorso improprio alla richiesta di asilo politico; considerato che, al di là delle ragioni (familiari, politiche, economiche) che portano le persone a spostarsi – che si tratti di migranti entrati attraverso la politica delle quote o di beneficiari di qualche forma di protezione – la loro permanenza regolare sul territorio italiano implica comunque un aumento dell’offerta di lavoro.

Le proposte di ISMU

L’ISMU infine offre indicazioni e proposte. Innanzitutto, occorre passare da una prospettiva di contenimento dei flussi in ingresso a una prospettiva di governo degli stessi. Un primo passo in questa direzione è la reintroduzione del carattere di obbligatorietà dei decreti annuali e l’introduzione della possibilità di ingresso regolare “fuori quota per quei profili professionali dei quali l’Italia rimane sistematicamente carente. Una particolare attenzione viene posta sui profili sanitari, dal momento che le strutture sanitarie ne rilevano una sempre maggiore difficoltà di reclutamento; a questo proposito, si suggerisce di progettare schemi migratori ad hoc per il settore della cura e per il settore infermieristico. Dal momento che i settori per i quali di propone una politica di ingressi fuori quota sono ben specifici, si ipotizza di attivare corsi infermieristici all’estero, di modo da uniformare la formazione dei profili che faranno poi ingresso in Italia e in Europa.

Considerazioni simili vengono fatte in merito al settore del lavoro domestico e dell’assistenza familiare – settori strettamente connessi con quelli appena menzionati e inficiati negli ultimi anni dalla “crisi globale della cura”; a questo riguardo, ISMU suggerisce di mettere al centro il riconoscimento sociale delle professioni della cura – specie quelle esercitate nelle case degli assistiti -, ovvero legittimarle e collocarle dentro un sistema retributivo uniforme e strutturato; suggerisce inoltre di professionalizzare queste occupazioni, ovvero di reclutare personale sulla base di attestazioni ufficiali e/o della partecipazione a programmi formativi. Implementare questi due aspetti che sono fortemente interconnessi permetterebbe di rilanciare questi settori in uno scenario di maggiore attenzione ai requisiti di regolarità, professionalizzazione e qualità del lavoro di cura.

In questa maniera, questi e altri settori professionali verrebbero finalmente strappati dall’etnicizzazione del lavoro, ovvero da quel fenomeno generato da una bassa considerazione sociale (e di conseguenza retribuzione) di questi servizi e una grande disponibilità di persone straniere ad accettarne le condizioni. Sempre in merito alle professioni della cura e in particolare dell’assistenza domiciliare degli anziani, il Libro Bianco propone di integrare la figura dell’assistente familiare nella rete dei servizi territoriali, di modo da favorire una maggiore presenza di tali figure sul territorio e da garantire una rete più fitta di servizi di prossimità a sfavore dell’istituzionalizzazione (ad esempio, tramite RSA e ospizi). 

Un’attenzione tutta particolare viene posta sul delicato settore agricolo, nel quale risulta prioritario il contrasto dell’irregolarità e dello sfruttamento, insieme all’attivazione di soluzioni abitative che risparmino ai lavoratori l’alloggio in ghetti e campi informali, nella precarietà e con gravi pericoli per la salute. Nell’ambito agricolo, inoltre, si suggerisce l’adozione di una prospettiva di genere nel contrasto al lavoro irregolare e allo sfruttamento, dal momento che in quegli stessi campi informali abitati dai lavoratori sfruttati vive anche una componente femminile non direttamente soggetta a caporalato e sfruttamento del lavoro agricolo, ma ad abusi di natura sessuale che sono invariabilmente sommersi nella narrazione “maschile” del caporalato e delle sue vittime, anche quando questa è finalizzata a proporre misure di contrasto. 

Si suggerisce anche l’introduzione di una forma di permesso per ricerca di lavoro, da rilasciare sotto opportune condizioni e comunque a patto che chi ne beneficia rispetti l’obbligo di lasciare l’Italia alla scadenza del permesso, qualora non vi sia stata conversione in un permesso di lunga durata (ad esempio, se la persona in questione non ha centrato l’obiettivo di trovare lavoro).

Da un punto di vista organizzativo-logistico, si suggerisce l’opportunità di introdurre un dispositivo per la regolarizzazione individuale delle persone nel caso in cui si presenti la possibilità di procedere a una regolare assunzione di un lavoratore irregolarmente soggiornante – una misura che, di fatto, è già contemplata dal nostro ordinamento (l’attuale decreto-legge 130/2020) ma scarsamente applicata, nel quali si prevede la possibilità di rilascio di un permesso di protezione speciale a quanti sono in possesso di determinati requisiti di inclusione sociale o di legami familiari. 

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Rossella Marvulli

Ho conseguito un master in comunicazione della scienza. Sono stata a lungo attivista e operatrice nelle realtà migratorie triestine. Su Melting Pot scrivo soprattutto di tecnologie biometriche di controllo delle migrazioni sui confini europei.