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Lampedusa. Non si ferma il mare con le mani

Maldusa: «La rete di solidarietà e le pratiche delle persone in movimento condividono la stessa base: reagire ad ogni imposizione dall'alto»

Photo credit: Maldusa

La cronaca e le riflessioni del progetto Maldusa presente a Lampedusa. Le attiviste hanno seguito e raccontato con un punto di vista interno, in antitesi al sensazionalismo mainstream, l’ennesima emergenza in 20 anni creata dai governi che però non ha sortito l’effetto sperato: mentre la premier Meloni e la presidente della Commissione UE Ursula von der Leyen hanno provato a far diventare l’isola una loro passerella per indicare risposte tanto securitarie quanto fallimentari, è andata in scena la protesta dei lampedusani e delle persone migranti. Secondo Maldusa la mobilitazione dei lampedusani e le lotte dei migranti “hanno riformulato il sistema dell’hotspot più importante d’Europa“.


Non può dire che viene con 45milioni di euro per Lampedusa che in realtà sono per i migranti” tuona Martello, l’ex sindaco di Lampedusa, inscrivendo la passerella della Meloni e della Van der Layen in un'”ennesima iniziativa che ci umilia e ci mortifica“.

Durante le prime ore del 16 settembre, il presidio che era iniziato in piazza il 13 settembre scorso ha deciso di bloccare un camion della Croce Rossa. L’obiettivo era quello di ostruire la costruzione di un altro campo sull’isola – probabilmente nell’ex base militare di ponente – intercettando l’arrivo dei tendoni necessari all’ipotetica struttura. Il messaggio era chiaro sin dall’inizio: la soluzione per i lampedusani al collasso dell’hotspot dovuto al numero di sbarchi non è creare più posto e più tende bensì avere meno coinvolgimento dell’isola nella gestione dei flussi migratori. Ma nel camion bloccato della CRI vi erano pacchi di brioche e pallet pieni di acqua indirizzati a Cala Pisana dove, nel frattempo, 300 persone aspettavano sedute da già 2 ore, in attesa di una nave che sarebbe arrivata solamente due ore dopo.

Lo stato, con noi, ha superato il limite, da tempo!” afferma Giacomo Sferlazzo, portavoce del movimento politico-culturale Isole Pelagie in una telefonata con il questore Ricifari. Il blocco stradale si scioglie, appuntamento per il giorno dopo con il questore in piazza e manifestazione a Porto Vecchio nel pomeriggio. Quest’ultimo assume immediatamente la forma di un sit-in al molo commerciale con l’intento di controllare il contenuto dei camion arrivati con il traghetto di linea Cossyra e bloccare, senza compromessi, l’arrivo di tensostrutture.

Blocco di un camion della croce rossa da parte dei partecipanti del presidio di fronte al municipio.

Alle 5 del pomeriggio del 16 settembre, lo spazio di fronte all’ingresso del molo commerciale era pieno di lampedusani e lampedusane di ogni età e con loro la storia sociale della crisi dei dispositivi frontalieri. Il mostro più grande nella mente dei lampedusani, infatti, non sono i turchi o cosiddetti stranieri che per quanto indice di alterità partecipano all’immaginario collettivo dell’isola. Il mostro è la gestione dei flussi e il trauma, per molt*, riconduce al 2011 quando, in seguito alla caduta di Ben Alì, l’isola si era trasformata in carcere per migliaia di tunisini e la tensione con la popolazione locale era salita al punto da assumere la forma di scontri e cariche con la polizia. In piazza, anche pescatori e armatori motivati dai danni sofferti durante questi mesi in cui le navi di linea subivano ritardi a causa dei trasferimenti dall’hotspot: “tre ore di ritardo nella nave di linea significa che il pescato non arriva sui banchi dei mercati che iniziano la notte!” dichiara un armatore locale. “Vogliamo vivere di turismo e di pesca” dichiarava la mattina stessa il leghista e vice-sindaco Attilio Lucia.

Mezzo militare sceso dal traghetto di linea e rispedito nella penisola dai manifestanti.

Il camion militare sceso dal traghetto di linea non è sbarcato a Lampedusa; gli interessi della popolazione locale e quelli dello Stato non combaciano più sul territorio di Lampedusa e la mobilizzazione pubblica gioca un ruolo fondamentale in questo gioco forza.

Dietro la massa di persone locali che partecipava alla manifestazione, gruppi di persone arrivate ormai da giorni stavano sedute a terra, sotto i tendoni della Croce Rossa o all’ombra dei cassoni dei camion. Erano lì da ore con l’obbiettivo di essere i primi a salire sulla nave per la penisola.

Negli ultimi giorni la tenacia delle persone e la loro motivazione a uscire dalle umilianti condizioni in cui erano costrette, ha ridefinito totalmente il funzionamento dell’hotspot: dalle identificazioni ai trasferimenti. Non erano più le chiamate degli ufficiali a definire chi partiva e chi restava piuttosto chi entrava prima negli autobus, non a discapito di ulteriori violenze e veementi confrontazioni. In questa serata, infatti, al molo commerciale, c’erano tre gruppi di persone organizzatesi e arrivate lì autonomamente. Un gruppo di sudanesi, uno di siriani e un gruppo di tunisini erano lì perché rivendicavano la necessità di andare ma soprattutto denunciavano anche l’esclusione e la non considerazione subita negli ultimi giorni; “Non c’è nessuno tra i lavoratori lì che può parlarci in arabo e spiegarci cosa succede, perché stiamo qui da giorni mentre altri gruppi partono” stando alla testimonianza di uno dei ragazzi. Nei giorni del collasso il personale delle associazioni che lavorano nell’hotspot non riusciva ad entrare e non era operativo né fuori né dentro.

Gruppo di persone migranti che protestano per lasciare l’isola

A contribuire alla confusione si sono aggiunte le comunicazioni stesse da parte delle diverse autorità. Nelle sere precedenti infatti, per diverse volte, le volanti della Guardia di Finanza effettuavano delle ronde in giro per la città comunicando ai gruppi di persone di dover andare al porto perché era in arrivo una nave per i trasferimenti. La nave sarebbe arrivata nelle prime ore della mattina, informazione che tradisce piuttosto l’intento di voler “pulire la città” dalla presenza di persone appena arrivate, e quindi in povere condizioni materiali, dallo sguardo degli altri, dei turisti, dei cittadini e dei giornalisti.

E’ quello che è successo, ad esempio, la sera del 15 settembre durante la distribuzione auto-organizzata da cittadin* nei locali della parrocchia. Durante il tempo della distribuzione, il prete, in maniera sempre più insistente, comunicava a volontari e volontarie la necessità di dover invitare i ragazzi a mangiare e ritornare rapidamente al centro. Il motivo, apparente, era che ci sarebbero stati i trasferimenti; quello reale era che don Carmelo Rizzo ha ricevuto pressioni da parte del prefetto per terminare le distribuzioni di cibo in città il più velocemente possibile. Il giorno successivo, infatti, nonostante in città vi fossero ancora persone che non riuscivano a mangiare in hotspot, la distribuzione di pasti è stata fatta senza poter utilizzare i locali della parrocchia e quindi, senza che vi fosse una qualsiasi responsabilità del prete di Lampedusa. In un contesto come quello di contrada Imbriacola degli ultimi giorni, pensare che “tornare al centro” potesse essere un rifugio o una soluzione, significa non aver compreso la miseria delle condizioni materiali e morali a cui le persone erano costrette. Per fortuna le volontari* e tutta la rete attiva aveva un’idea diversa di cosa fare nei “momenti di Apocalisse”, così come è stata definita la situazione sull’isola dallo stesso don Rizzo.

La passerella di Giorgia Meloni e di Ursula von der Layen fa del collasso dell’hotspot uno scenario emotivamente significativo – come lo ha definito qualcuno nella conferenza stampa del presidio in piazza. Una scena adatta, dunque, a rilanciare politiche di restrizione e criminalizzazione che custodiscono alternative per Lampedusa solamente nelle intenzioni. Dalle dichiarazioni di oggi, infatti, la struttura di via Imbriacola non perde la sua centralità nel sistema di prima accoglienza.

In occasione della stessa visita istituzionale a Lampedusa c’erano all’incirca 2.000 persone nell’hotspot. Non è una situazione migliore, è una situazione denigrante e estremamente problematica in un centro concepito per 400 persone. Nei ultimi due giorni meno persone riescono ad uscire dal centro e tutte le forze e i micro ingranaggi partecipano alla restaurazione dello status precedente.

Sebbene da Lampedusa non esca fuori una voce unica, il presidio in piazza e la manifestazione al porto nuovo, la rete di solidarietà e le pratiche delle persone in movimento condividono la stessa base: reagire ad ogni imposizione dall’alto e agire difronte a qualcosa di profondamente ingiusto.

Libertà di movimento per tutt* contro il regime di controlli e frontiere.

500 persone a Cala Pisana sedute dalle 8 di mattina al sole senza acqua nè cibo in attesa della nave per il trasferimento.