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PH: Refugees In Libya

Le proteste di fronte a UNHCR di Tripoli: continua la lotta per i diritti umani in Libia

Intervista a David Yambio di Refugees in Libya

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A dicembre 2022, avevamo incontrato David Yambio in occasione dell’evento “Oltre e contro i confini – Beyond and Against Borders”, tenutosi al Centro Sociale Bruno di Trento. In quell’occasione, David ha raccontato a Melting Pot la sua esperienza di persona in movimento, le torture e le violenze vissute in Libia, i diversi tentativi di lasciare la Libia e attraversare il Mediterraneo, e di come ha deciso di dare vita al movimento di protesta Refugees in Libya.

Attualmente, le proteste e le mobilitazioni di Refugees in Libya vanno avanti da più di 700 giorni, quasi due anni. Lo scenario politico ha subito diversi cambiamenti, a cui il Movimento si è adattato, assumendo progressivamente il ruolo di osservatore della società civile sui diritti umani.
In continuità con la precedente intervista, abbiamo chiesto a David di raccontare come sia la situazione delle persone migranti in Libia al momento attuale, e di come il ruolo di Refugees in Libya si sia evoluto nel corso dei mesi 1.

David Yambio a Lampedusa, settembre 2023
David puoi dire qualcosa sulla situazione attuale, sulla protesta in corso? Come si è evoluta la situazione in Libia dal 2022 a oggi? Cosa è successo nell’ultimo anno?

Grazie mille. Credo che dall’anno scorso, se parliamo dell’evoluzione delle cose, non sia cambiato molto in senso positivo. Vediamo un continuo aumento delle violazioni dei diritti umani, ma se si parla specificamente di Refugees in Libya, penso che abbiamo già ottenuto buoni risultati. Abbiamo storie positive che possiamo condividere. Dall’anno scorso abbiamo continuato ad aumentare la nostra visibilità, a incrementare il livello della nostra campagna in Libia, fuori dalla Libia e anche qui in Europa.

Attraverso la nostra attività di advocacy, uno degli obiettivi principali di allora, è stato quello di spingere per la liberazione dei compagni detenuti ad Ain Zara (centro abitato nella regione di Tripoli n.d.R), e questo ha richiesto un lungo percorso, che ha coinvolto molte persone, molti attivisti e diversi sforzi strutturali. Fino a pochi mesi fa, l’11 luglio, quando sono stati rilasciati dal governo libico. E poi, con l’UNHCR, abbiamo cercato di fare loro pressione per farsi avanti e fornire un riparo a queste persone, anche se non attraverso rifugi fisici, con un supporto materiale, per rispondere alle loro necessità. Questo è ciò che è successo. Poi, abbiamo visto anche un aumento del riconoscimento da parte delle istituzioni libiche e poi di UNHCR, compresa l’autorità europea.

Durante la crisi al confine tra Tunisia e Libia, dove le persone sono state scaricate, avevamo sviluppato ottimi contatti con i libici. In questo senso, credo che questi ultimi stessero cercando di denunciare che la Tunisia stava cercando di fare una cosa del genere e hanno cercato di usare noi e la nostra piattaforma per ricattare la Tunisia in questo senso. A questo proposito, credo che per noi sia stata una vittoria, visto che ci hanno riconosciuto.

Le guardie di frontiera libiche ci hanno inviato dettagli e informazioni su quanto stava accadendo dicendoci di pubblicarli. Non solo, credo che siamo riusciti anche a fare pressione per diversi progressi, tra cui il rilascio delle donne detenute nella prigione di Abu Salim.

Qualche giorno fa, a fine agosto, abbiamo pubblicato dei video in cui una donna gridava che erano chiuse nella prigione di Abu Salim e che una delle donne, che lei diceva essere somala, era morta e il suo corpo giaceva lì.

Abbiamo cercato di comunicare con lo Stato libico, che ci ha risposto, e abbiamo poi ricevuto l’ottima notizia che queste persone sono state rimpatriate, anche se non si tratta di una libertà completa, perché sono ancora nello stesso circolo, nelle stesse dinamiche all’interno di un Paese in cui la tutela dei diritti umani non è un elemento fondamentale nella maggior parte delle situazioni.

La vediamo come una delle tante storie positive che sono accadute e se parliamo di casi singoli, abbiamo per esempio la storia di Pato, il marito di Fati Dosso e padre di Marie, morte al confine tra Tunisia e Libia. Quando la foto ha circolato, penso che per noi essere in grado di risalire alle loro identità e di dire al mondo che sono persone è già una narrazione positiva, perché oggi vediamo che lo Stato libico sta collaborando sul dossier di Pato, in modo da poter accertare la responsabilità di questo omicidio – se non della Libia – delle autorità tunisine. Queste persone si trovavano all’interno del territorio tunisino, sono state scaricate nel deserto e sono morte: non si tratta di una normale morte per sete, o fame o caldo, è stato commesso un omicidio.

Mentre parlo ora (settembre 2023 n.d.R.), ci sono ancora più di 150 persone, per lo più donne e bambini arrivati dall’imperversare della guerra in Sudan, che stanno ancora protestando davanti alla sede dell’UNHCR a Tripoli. Ecco perché vi dico che anche sotto questi aspetti c’è ancora una continua violazione dei diritti umani da parte della Libia, la cui incapacità di fornire un riparo a queste persone sta aumentando, e dalla passività dell’UNHCR perché il suo trattamento ingiusto continua a ripetersi, al punto che dobbiamo fargli pressione, scrivergli, inviargli comunicazioni. Questo è ciò che è indicato nel loro mandato e che dovrebbero fare.

Refugees in Libya quindi sta diventando un importante osservatorio della società civile sui diritti umani in Libia. Puoi confermarlo?

Sì, lo confermo. Perché non ci occupiamo solo di rifugiati, ma anche di sfollati interni e di minoranze o popolazioni indigene. A questo proposito, mi riferisco ad una questione iniziata di recente, una sorta di pulizia etnica a Umm Al Aranib, nel sud della Libia. Si tratta della tribù dei Toubou, che è stata ripulita dalle milizie di Haftar e rispedita in Ciad con il pretesto che si trattasse di lavoratori ciadiani 2. In questa situazione, queste persone ci contattano e ci chiedono di raccontare la loro storia, perché sono costantemente e deliberatamente messe a tacere. In questo modo, vediamo che non agisce solo come un osservatorio dei diritti umani, una struttura per i rifugiati, ma anche per coloro la cui voce non viene ascoltata e che vogliono essere ascoltati. Questo è ciò che posso confermare.

La campagna d’odio fomentata dal presidente Kaïs Saïed ha scatenato molte violenze in Tunisia verso le persone subsahariane. L’evolversi della situazione in Tunisia ha avuto conseguenze anche sui flussi migratori e su ciò che sta accadendo socialmente in Libia?

Penso che il famoso discorso di Kaïs Saïed sulla teoria complottista della grande sostituzione (etnica ndr) abbia una conseguenza o una forte influenza non solo nella regione o in Libia, ma in tutta la regione del Maghreb. Onestamente, quando si vede il sentimento degli arabi verso gli africani, gli africani con la pelle più scura, è un meccanismo esistente, per cui quando guardiamo indietro alla tratta degli schiavi, i mediatori erano gli arabi e gli arabi si vedono nella regione del Magreb, cioè Libia, Tunisia, Marocco e Algeria.

Quindi, quando questo discorso è stato elaborato, ha immediatamente oltrepassato il confine perché la propaganda è così. La propaganda è molto ricca e molto rapida nel raggiungere i luoghi. Quando è arrivata in Libia, vedete che la Libia sta addirittura copiando la stessa cosa e dice “non vogliamo rifugiati, non vogliamo che le persone che arrivano dalla guerra in Sudan vengano qui perché vengono a sostituire la composizione demografica del Paese“.

Poco fa ho parlato di pulizia etnica: quando trovi una persona di pelle scura che vive in Libia come tutti i suoi antenati, antenati che sono lì da almeno 200 anni, e poi ti dicono “sei di pelle scura, il che significa che vieni da altri Paesi africani e devi lasciare la Libia“. Queste sono le conseguenze che vediamo, che stanno già attraversando i confini e si diffondono da una persona all’altra.

La gente comune è stata sottoposta a un lavaggio del cervello e manipolata in questo senso. Penso a come questo abbia influenzato il movimento sociale delle persone: vediamo che ora c’è un circolo continuo e ripetitivo di persone. Si vede una persona che cerca di fuggire dalla Libia che va in Tunisia perché per loro è come un buco così piccolo da cui uscire e quando non riesce ad arrivare in Tunisia torna di nuovo in Libia e poi cerca di andare in Marocco: questo cerchio continua a ripetersi, il che significa che questo movimento non riguarda solo i migranti, ma anche gli abitanti di questi due Paesi.

Queste persone non hanno più libertà di movimento, sono bloccate, devono fare la fila al confine di Ras Jedir, questo significa che ogni libertà di movimento per le persone di quella particolare regione è stata ristretta e che sono state limitate.

Che cosa significa quando si cerca di entrare in un Paese e il visto non viene concesso, cosa che era libera in passato, pochi anni prima di questo Memorandum e di tutti questi interventi politici nella politica tunisina. Quindi, ci sono molte cose che stanno cambiando e le persone stanno diventando sempre più consapevoli perché, se si guarda ai nuovi arrivi di quest’anno, quando abbiamo parlato di più di 100.000 persone che hanno attraversato i confini soprattutto dalla Tunisia, vediamo che queste persone sono tunisine, perché pensate che stiano fuggendo?

Si pensa che si sta rendendo la situazione molto più pesante solo per i migranti, ma la società non è autosufficiente, deve dipendere dai migranti, deve dipendere da tutte queste cose che uniscono la società perché, quando si crea insicurezza per un particolare popolo in un determinato spazio, allora si destabilizza l’intera struttura della società e questo è ciò che sta accadendo esattamente.

Se guardiamo alla Libia, anche quest’anno i libici stanno arrivando in gran numero dalla Libia all’Europa, perché sta succedendo qualcosa che non permette loro di restare. Non stiamo parlando degli africani sub-sahariani che arrivano dalla Somalia, dall’Eritrea, dal Sudan o dal Senegal, ma delle persone che si trovano sulla costa meridionale del Mediterraneo, proprio sotto l’Europa, e non è interesse dell’Europa migliorare la situazione.

  1. L’intervista è stata realizzata il 10 settembre 2023
  2. Libia: le forze di Haftar bombardano gruppi armati al confine con il Ciad, Nova News (settembre 2023)

Francesca Reppucci

Laureata nel corso di studi magistrale di Human Rights and Multi-level governance presso l’università di Padova, attualmente lavoro come operatrice sociale in un progetto di accoglienza straordinaria per richiedenti asilo.