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Assegno sociale: illegittima la sua sospensione e la richiesta dell’INPS di restituzione degli importi

Corte di Appello di Bari, sentenza del 16 ottobre 2023

Foto INPS

Un caso molto complesso deciso dalla Corte di Appello di Bari, Sezione lavoro: la ricorrente, con ricorso ex art. 414 c.p.c., conveniva in giudizio l’INPS e la Sede Provinciale di Bari al fine di ottenere dal Tribunale di Bari una pronuncia sulle seguenti conclusioni:

  • accertare illegittimità della richiesta di restituzione dei ratei corrisposti tra il 01/06/2011 ed il 31/10/2015, per insussistenza del diritto, per omessa e insufficiente motivazione e per l’assenza di un formale provvedimento di sospensione o revoca dell’assegno sociale, e per l’effetto dichiarare che nulla è dovuto a titolo di indebito;
  • accertare il diritto della ricorrente, ora come allora, alla riscossione dell’assegno sociale indebitamente non corrisposto dal 01/11/2015 e per l’effetto condannare l’INPS, in persona del legale rappresentante pro tempore, a ripristinare la prestazione sospesa ed a corrispondere i ratei arretrati dovuti dal 01/11/2015 ad oggi per un importo complessivo di € 29.532,20 comprensivi di 13°, ovvero, la minore o maggiore somma che dovesse determinarsi in corso di causa, previa nomina di un CTU, oltre interessi e rivalutazione come per legge”.

In particolare, la ricorrente deduceva:

  • di essere beneficiaria dell’assegno sociale AS dal 01.03.2004 e invalida al 100%;
  • di essere stata informata, in data 20.06.2016, dall’INPS di aver ricevuto, per il periodo 01.06.2011- 31.10.2015, € 13.068,42 in più sulla pensione AS in ragione di un periodo di permanenza all’estero superiore a 30 giorni, con conseguente sospensione del pagamento dell’AS;
  • di non aver mai trasferito la propria residenza e/o dimora abituale all’estero, ma di essersi recata in Albania nel periodo estivo o per motivi di natura familiare e di aver, difatti, vissuto continuativamente in Italia (ha acquistato la cittadinanza italiana nel 2010), risiedendo a Bari dal 1995;
  • di aver presentato tempestivo ricorso amministrativo il 19.09.2016, senza ottenere riscontro dall’INPS;
  • l’illegittimità del provvedimento di recupero dell’asserito indebito in quanto privo di motivazione;
  • la tardività della richiesta di restituzione delle somme erogate in quanto prescritta“.

Con sentenza n. 1310/2021 del 28.04.2021 il Tribunale di Bari in funzione di Giudice del Lavoro aveva accolto parzialmente il ricorso “nei limiti indicati in parte motiva e, accertata l’insussistenza dell’indebito di cui alla comunicazione INPS del 31.05.2016 per l’importo di € 13.068,42, dichiara la ricorrente non tenuta alla restituzione della predetta somma“.

Nello specifico, lo aveva accolto sulla scorta dei seguenti punti motivazionali:

  • esaminata la normativa in tema di assegno sociale e richiamato il principio di inesportabilità all’estero della detta prestazioni, ha ribadito l’obbligo del beneficiario di informare l’ente previdenziale in caso di lunghi, seppur temporanei, allontanamenti dal territorio italiano, potendo gli stessi incidere sulla sussistenza del diritto e sull’ammontare della prestazione;
  • ha preso atto del fatto che, dal passaporto della ricorrente, dal mese di maggio 2010, risulta un numero limitato di trasferte di durata variabile, contrariamente a quanto dedotto dall’INPS il quale ha, invece, prodotto un prospetto delle trasferte, “privo di intestazione e di qualsivoglia riferimento alla provenienza/paternità”;
  • a conferma della prospettazione della ricorrente, ha tenuto conto inoltre delle risultanze delle prove testimoniali espletate, dalle quali è emerso che la signora ha sempre coltivato i propri interessi e intrattenuto le proprie relazioni sociali e familiari a Bari;
  • ha quindi ritenuto illegittimo l’indebito avanzato dall’Inps, per il periodo dal 01.06.2011 al 31.10.2015, dichiarando non dovuto l’importo di € 13.068,42, richiesto con atto del 31.05.2016;
  • ha invece disatteso la richiesta di ripristino della prestazione avanzata dalla ricorrente a far data dal 01.11.2015, rilevando che la stessa non avrebbe comprovato il requisito reddituale previsto dalla legge.

Avverso la già menzionata decisione la signora ha interposto appello chiedendone la parziale riforma limitatamente al rigetto della domanda di ripristino della prestazione, con conseguente condanna dell’Inps al ripristino della prestazione sospesa nonché alla statuizione sulle spese di lite.

In primis, ha chiesto la riforma della sentenza per asserita violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c.. In particolare, l’appellante ha sostenuto che il primo giudice non avrebbe tenuto conto del fatto che, nella memoria difensiva, l’Istituto ha fatto esclusivo riferimento alla domanda di indebito, non anche quella di rifusione dei ratei non corrisposti; al riguardo, ha rilevato che l’Inps non ha formulato alcuna contestazione in merito all’ulteriore domanda avanzata, essendosi, tra l’altro, avvalso di una memoria difensiva relativa alla posizione di diverso ricorrente; di conseguenza, la sentenza sarebbe affetta da vizio di ultrapetizione, atteso che il primo giudice avrebbe disatteso una domanda neppure contestata dall’ente.

Ha sostenuto ancora la ricorrente che, contrariamente a quanto asserito dal Tribunale, la prestazione de qua non è stata mai revocata dall’Inps ma piuttosto sospesa per presunta carenza del requisito della residenza continuativa in Italia: motivo per cui, una volta esclusa la ragione dell’indebito, l’assegno sociale avrebbe dovuto essere ripristinato senza necessità di verificare gli ulteriori requisiti, come quello di carattere reddituale, che peraltro l’Istituto è in grado di verificare autonomamente.

Tanto detto, l’appellante ha contestato la sentenza anche con riferimento alla statuizione sulle spese, ritenendo che la disposta compensazione sarebbe inconciliabile con la ricorrenza dei presupposti reddituali di cui all’art. 115 c.p.c., oggetto di dichiarazione sostitutiva di certificazione.

L’appello è fondato e deve essere accolto, alla stregua dei seguenti motivi.

Com’è noto, l’assegno sociale, introdotto con la L. 335/1995, in sostituzione della pensione sociale, rappresenta una prestazione di base avente natura assistenziale e, in quanto tale, è volta ad assicurare «i mezzi necessari per vivere» (ai sensi dell’art. 38, primo comma, della Costituzione) alle persone anziane che hanno superato una prefissata soglia di età e che non dispongono di tutela previdenziale per fronteggiare l’evento della vecchiaia.

L’erogazione dello stesso presuppone la sussistenza di uno stato di bisogno accertato del titolare che va desunto dalla mancanza di redditi o dall’insufficienza di quelli percepiti al di sotto del limite massimo indicato dalla legge; viene infatti corrisposto per intero – ovvero ad integrazione – a coloro che, compiuta l’età prevista (oggi 67 anni), siano privi di reddito o godano di un reddito inferiore al limite fissato dalla legge (raddoppiato in ipotesi di coniugio) ed adeguato nel tempo dal legislatore (cfr. da ultimo art. 38, comma 1 lett. b, della l. n. 448 del 2011).

Inoltre, l’assegno sociale è una prestazione assistenziale spettante ai cittadini residenti e non esportabile all’estero, in quanto la residenza effettiva, al pari del requisito economico, della cittadinanza e della dimora stabile e continuativa in Italia è elemento costitutivo del diritto alla prestazione assistenziale, sicché l’allontanamento dal territorio dello Stato e la permanenza all’estero comportano il venir meno del presupposto, cui è ancorata l’erogazione della prestazione.

In questo senso, si è espressa altresì Cass. n.21901 del 2018, nella cui motivazione si legge: come di recente riaffermato da questa Corte (sentenza 7914/2017), per quel che concerne la cosiddetta inesportabilità in ambito comunitario delle prestazioni in danaro non contributive si rileva che la disciplina comunitaria in materia di coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale contempla un principio per cui le prestazioni speciali in denaro, sia assistenziali che previdenziali, ma non aventi carattere contributivo, sono erogate esclusivamente nello Stato membro in cui i soggetti interessati risiedono ed ai sensi della sua legislazione, e dunque sono inesportabili negli Stati membri dell’Unione europea. Per l’Italia, tra le prestazioni inesportabili si ricomprendono: le pensioni sociali; le pensioni, gli assegni e le indennità ai mutilati ed invalidi civili; le pensioni e le indennità ai sordomuti; le pensioni e le indennità ai ciechi civili; l’integrazione della pensione minima; l’integrazione dell’assegno di invalidità; l’assegno sociale; la maggiorazione sociale. Infatti, il Regolamento (CEE) n. 1247/92 del Consiglio, del 30 aprile 1992, che ha modificato il regolamento (CEE) n. 1408/71 relativo all’applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati, ai lavoratori autonomi e ai loro familiari che si spostano all’interno della Comunità, ha previsto all’art. 1, punto 4), l’inserimento dell’articolo 10bis (Prestazioni speciali a carattere non contributivo) che stabilisce quanto segue: Nonostante l’articolo 10 e il titolo III, le persone alle quali il presente regolamento è applicabile beneficiano delle prestazioni speciali in denaro a carattere non contributivo di cui all’articolo 4, paragrafo 2 bis esclusivamente nel territorio dello Stato membro nel quale esse risiedono ed in base alla legislazione di tale Stato, purché tali prestazioni siano menzionate nell’allegato II bis. Tali prestazioni sono erogate a carico dell’istituzione del luogo di residenza.

Tanto premesso in linea generale, si osserva che, nel caso di specie, l’Inps ha inteso avanzare nei confronti della signora una pretesa di ripetizione di indebito solo in ragione dell’asserito venir meno del requisito della dimora stabile e continuativa in Italia, per aver la stessa fruito di periodi di “permanenza all’estero” superiori trenta giorni.

Tale richiesta di indebito, ritenuta infondata dal primo giudice con statuizione rimasta inoppugnata dall’Inps, lungi dall’essere accompagnata da un provvedimento esplicito di revoca della prestazione, è conseguita ad un atto di sospensione dell’erogazione dell’assegno sociale, cui non è mai seguito alcun atto definitivo.

Ed invero, come si evince dalla documentazione in atti, l’Inps con nota del (…) ha comunicato alla (…) quanto segue: «nel periodo che va dal 01/06/2011 al 31/10/2015 sono stati pagati 13.068,42 € in più sulla sua pensione AS 04049374 per i seguenti motivi: “periodi di permanenza all’estero superiori a 30 giorni. Il pagamento dell’assegno sociale è sospeso».

In tale contesto e a smentita della tesi dell’Istituto, non può che ritenersi ammissibile la domanda di ripristino dell’assegno sociale avanzata dall’appellante unitamente a quella (già accolta dal primo giudice) di accertamento negativo dell’indebito, non essendo all’uopo necessaria, come dedotto dall’ente, la presentazione di nuovo istanza amministrativa volta al conseguimento della prestazione a decorrere dalla data di sospensione.

D’altra parte, quand’anche si volesse qualificare il provvedimento Inps in guisa di revoca della prestazione, l’infondatezza della deduzione discende dall’applicazione al caso di specie del principio di recente affermato da Cass. civ. sez. un., 09.05.2022, n.14561, secondo cui, in caso di revoca di una prestazione assistenziale, non è indispensabile presentare una nuova domanda prima di agire giudizialmente.

Più nello specifico, come affermato in tale pronuncia in termini estensibili alla fattispecie, la domanda amministrativa trova la sua ragione d’essere nell’esigenza di provocare una verifica anticipata, in sede amministrativa, dell’esistenza dei requisiti per ottenere la prestazione.

Questo è particolarmente vero nel caso in cui la domanda viene presentata per ottenere il riconoscimento di una prestazione di cui non si sia in precedenza beneficiato ovvero nel caso in cui, a prescindere dalla legittimità della revoca intervenuta, si ritenga che siano insorti nuovamente e da data successiva, i presupposti per il riconoscimento di una prestazione di invalidità. Ove, invece, si contesti il venir meno dei requisiti sanitari e socio economici della prestazione già in godimento e se ne affermi la persistenza senza soluzione di continuità, allora, un nuovo accertamento in sede amministrativa risulta essere un duplicato di un’azione amministrativa appena conclusasi.

In ragione di tanto e del sopravvenuto accertamento, da parte del giudice di prime cure, dell’illegittimità del provvedimento di sospensione della prestazione, non sussisteva in capo all’appellante alcun onere specifico di prova del requisito reddituale, atteso che l’esistenza di tale presupposto già verificato in sede di riconoscimento della originaria prestazione, non è mai stato posto in discussione dall’Istituto, con conseguente relevatio ab onere probandi da parte del richiedente (cfr. Cass. n. 3680 del 2019; Cass. n. 27490 del 2019; in motivazione, tra le tante, Cass. nn.18824 e 19086 del 2022).

Aggiungasi peraltro, che, a riprova del detto requisito e su espressa sollecitazione della Corte, parte appellante, ad integrazione di quanto già attestato dai modelli ISEE, ha depositato la certificazione reddituale rilasciata dall’Agenzia delle Entrate, da cui risulta che per gli anni dal 2015 al 2021 non ha prodotto alcun reddito.

Ne consegue che l’appellante ha diritto anche alla corresponsione dei ratei maturati a decorrere dal 01.11.2015, con condanna dell’Inps alla corresponsione dell’importo indicato in ricorso, in carenza di specifica contestazione dei conteggi da parte dell’Istituto.

L’accoglimento del principale motivo di appello comporta l’assorbimento della censura sulla condanna alle spese, essendo noto che la riforma, seppur parziale, della sentenza di primo grado determina l’automatica caducazione del capo della pronuncia relativa alle spese disposta dal primo giudice, dovendosi dunque procedere a una nuova regolamentazione in ossequio ai parametri di cui al D.M. n.55 del 2014, tenuto conto dell’esito complessivo della lite e dunque dell’accoglimento integrale della domanda proposta da parte appellante.

Le spese di entrambi i gradi di giudizio seguono dunque l’integrale soccombenza dell’Inps e sono liquidate come da dispositivo, in ossequio ai parametri di cui al D.M. n.55 del 2014 (come mod. dal D.M. n.147 del 2022) e tenuto conto del valore della controversia, della sua complessità e dell’attività processuale in concreto espletata”.

Si ringrazia l’Avv. Uljana Gazidede per la segnalazione.