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Lodi – Prima di Natale sgomberata la “città” dei senza tetto nell’indifferenza assordante

Di Ermanno Merlo

Una vicenda accaduta il 22 dicembre 2023. Siamo a Lodi, ma potrebbe essere benissimo qualsiasi altra città della provincia italiana: «Qualche giorno prima di Natale – ci scrive Ermanno Merlo – la Prefettura ha ordinato uno sgombero, obbligando le decine di ragazzi a spostarsi, per andare a dormire chissà dove. Tutto questo nell’indifferenza generale. Ho pensato fosse giusto scrivere una sorta di racconto, partendo anche dalla mia esperienza personale, di attività nei servizi della Fondazione Caritas Lodigiana. Li ho conosciuti, visti, ascoltati. Ho passato con loro sotto a quel ponte momenti di profonda condivisione».

E’ quasi mezzogiorno e il passaggio ciclopedonale del ponte della tangenziale, sospeso sull’Adda, che fino a qualche ora prima era un grande dormitorio a cielo aperto, ora non esiste più.

Sono terminate proprio nel primo pomeriggio le operazioni dei carabinieri che, con l’intero comando, sotto richiesta della Prefettura, hanno sgomberato la ‘città’ dei senza tetto. Materassi, biciclette, vestiti, pentole, bicchieri, sedie rotte sono tutti accatastati vicino ai pilastri di cemento.

Sono i resti delle vite dei soli, degli ultimi, degli abbandonati, di una parte di mondo a cui nessuno fa caso, ma vive, cammina, si trascina nei giorni tutti uguali.

Sono i frammenti perduti di chi ha sperato di costruire una vita migliore, ha affrontato il deserto, la Libia, il mare e poi si è trovato da solo, in un mondo diverso, con una possibilità mancata, a dormire sotto a un ponte, sospeso tra il cielo e la terra, a due passi dalle vetrine dei negozi del centro città.

Basterebbe avvicinarsi, scambiare due parole con i tanti Mamadou, Daouda, Lamine, Moussa, guardarli negli occhi, ascoltarli, per rendersi conto della loro umanità che vibra, per farsi aprire la porta dei ricordi.

Ci si muove a malapena tra la montagna di oggetti che circondano i piedi del ponte. La luce del sole scalda, nonostante l’inverno alle porte, i campi verdi, che si allungano all’orizzonte, nelle prospettive del cielo.

Tra qualche giorno sarà Natale, le tavole si riempiranno, le borse dei regali stracolme di ogni lussuria faranno capolino nelle case calde, tra un brindisi e l’altro. Sarà Natale anche per chi una casa non ce l’ha più.

Nell’indifferenza assordante di un’intera comunità che fa finta di non accorgersi, di non pensare a chi invece c’è e non sparirà, nonostante lo sgombero.

«Cosa dobbiamo fare? Andare tutti a dormire davanti alla stazione come avviene a Milano Centrale? E’ questo che vogliono?» si chiede Salif, appoggiato al muro di pietra, da cui prendono vita i bracci del ponte.

Il ragazzo gambiano ha gli occhi profondi, raccolti in un velo di tristezza. Sul volto i segni della Libia, tracce indelebili che non hanno bisogno di risposte. Contempla il fiume che scorre senza fine e gli oggetti accatastati ai suoi piedi, si passa una mano sul viso, come se non ci credesse ancora.

«Hanno portato via anche i miei documenti, li conservavo in una busta», racconta disperato. «Sono qui da sei anni eppure non ho mai dato fastidio a nessuno, Vogliamo solo stare tranquilli, cosa dobbiamo fare adesso? Dove andiamo? Siamo poveri, soli, senza niente, in un paese in cui è difficile sentirsi a proprio agio e in più siamo costretti ad andare via da un luogo in cui almeno stiamo al sicuro. Ti dico la verità, io sicuramente non mi sposterò da qui».

Forse per questa notte potrà ancora andargli bene, ma non è difficile notare proprio all’ingresso del passaggio, delle grate di ferro, pronte per essere fissate, in modo che nessuno possa più farvi ritorno.

Beati i poveri perché saranno i primi nel giardino del Paradiso, nella luce dell’eterna Pasqua.

Così il Magnificat: ha innalzato gli umili – ancora – ha rovesciato i potenti dai troni.

Cristo non insegnava a chiudere, a costruire muri, a togliere, ma a lasciare il cuore sempre aperto, a plasmarsi nell’amore, nella parola sponsale, fondatrice, che crea, dona voce al silenzio delle vite vissute ai margini.

Salgo senza pensarci troppo, per vedere cosa è rimasto in casa.

Quella che per Diamanka e i suoi amici era semplicemente Casa Bianco.

«Ma come? – mi disse un giorno – non vedi? Tutte le pareti sono bianche, ecco perché per noi è Casa Bianco. E’ la nostra casa».

Lo ricordo, buttarsi sul materasso divertito. Accanto a lui qualche borsa in cui conservava vestiti e un po’ di cibo di scorta: biscotti, delle bustine di tè e del latte in polvere.

Sono immagini che mi passano davanti agli occhi, intrisi di commozione alla vista di un luogo adesso vuoto, senz’anima.

Ricordi che scaldano improvvisamente il cuore. E’ agosto, l’aria afosa irrespirabile e il sole cocente.

Scivolo tra le vie della città, in una passeggiata pomeridiana, fino a camminare lungo al fiume. Sento qualcuno che mi chiama da dietro, mi volto, è Kande, un amico senegalese conosciuto alla Mensa della Caritas Lodigiana, che sfreccia sulla sua bicicletta, proseguiamo insieme «Grande Ermanno, allora come stai?».

Si gira verso di me e sorride, gli occhi grandi e la barba che circonda il viso, sulla maglietta nera il disegno di due tigri che ruggiscono. Ogni volta che sorride il suo viso si apre e i segni della pelle si fanno più spessi e profondi, sulle guance, vicino agli occhi e lo tratteggiano di luce. Sul retro della bici una grossa tanica d’acqua presa alla fontana di un parco pubblico lì vicino. Percorriamo la stradina nascosta tra gli alberi che porta al ponte della tangenziale, abbracciato dal fiume Adda.

«Vieni, che oggi sei nostro ospite» mi dice. Saliamo e arriviamo direttamente a Casa Bianco, non si suona neanche il campanello per entrare, non ci sono cancelli. La lunga parete è coperta di scritte colorate, di graffiti, disegni che sono lì da anni. Passo dopo passo mi muovo in quello che sembra essere un mondo completamente diverso, ma che è a due passi dal centro storico, dalle case sicure, dai negozi di lusso. Biciclette ammassate, cartoni, sacchi a pelo, tende, brandine, pentole sporche, bicchieri e cassette piene di lattine di birra ormai consumate.

Passo dopo passo, letto dopo letto incontro qualche viso, lo saluto e continuo, finché raggiungiamo la loro zona.

Ogni macchina che passa sopra di noi il ponte si muove e il rumore si diffonde tutt’intorno, piano piano mi abituo a questo movimento quasi consolatorio, che ci fa guardare la vita da una prospettiva diversa, quella di chi non ha niente e ha bisogno di condividere anche il poco che possiede. Ai fornelli c’è Sara, un altro ragazzo gambiano conosciuto alla Mensa. Hanno fatto un falò e sopra sta cuocendo del riso, dentro a una pentola nera, ormai completamente bruciata. Il fumo si diffonde nello spazio circostante e si fa fatica a respirare, mentre le lacrime di cenere si alzano in volo. «Cos’è?» gli chiedo. «Ceebu Jen, un piatto tipico della cucina senegalese».

Vederlo preparato in questo modo, mi rende ancora più insicuro e trascina nel cuore la domanda radicale, concreta e necessaria del nostro essere e vederci legati agli altri. Le mosche si avvicinano una dopo l’altra, mentre il risotto è pronto e seduti per terra, gli uni accanto agli altri, dopo aver sciacquato le mani, si condivide dallo stesso piatto. Poi arriva il tempo del bagno. Diamanka e gli altri amici scendono e si tolgono i vestiti che lavano con dello shampoo doccia. Nessuno dovrebbe essere costretto a vivere così, a dimenticare se stesso. Dov’è la dignità, quella che avremmo dovuto costruire sulle ceneri della dittatura in quella forma di governo chiamata democrazia in cui tutti avrebbero dovuto avere gli stessi diritti e le stesse opportunità?

Come possiamo andare avanti a consumare, a vivere nella ricchezza mentre c’è chi non ha niente? Non riesco a capire e porto le mani alla testa, sfregandomi gli occhi. È tutto vero, purtroppo. È il mondo che abbiamo creato.

Un attimo e mi ritrovo ancora in un pomeriggio di dicembre, un po’ più solo e vuoto.

Mi appoggio al lungo parapetto del ponte e osservo lontano.

Mentre sento nell’anima le voci degli abitanti di Casa Bianco, il loro condividere anche quel poco che possedevano, donandosi completamente, plasmando la loro coscienza nell’idea profonda di verità.

A un certo punto un rumore, mi giro curioso.

E’ Gassama, un ragazzo senegalese, alto, barba lunga e tra le mani un pallone da calcio. «Questo è quello che sono riuscito a recuperare, ora mi allenerò un po’, poi diretto a fare la doccia». dice, mentre si appoggia anche lui vicino a me.

«E’ vero che qui sotto spesso succedevano delle discussioni, qualcuno beveva e poi minacciava con il coltello, in preda alla follia, così arrivava la polizia, altri sporcavano per cui i topi erano all’ordine del giorno. Ma non è possibile pensare di risolvere il problema mandando via le persone, perché noi non scompariamo, non possiamo essere portati via insieme agli oggetti nel furgone della discarica. Siamo uomini».

Per terra, lungo tutto il passaggio pedonale restano ancora le tracce dei dimenticati: il fuoco che si è spento da poco, delle cuffie bluetooth, un tesserino di riconoscimento per una azienda multinazionale, un anello, qualche scarto di cibo. Il fiume all’orizzonte continua a scorrere, delicato, preciso, come la vita, mentre il sole lo abbraccia di luce nei campi dipinti d’inverno.


* Ermanno Merlo nasce e vive a Lodi.
Scrive su un giornale locale di sport e integrazione e collabora con alcune realtà che si occupano di accoglienza di persone rifugiate tramite laboratori di teatro di strada o attraverso l’insegnamento della lingua italiana. Cerca con la poesia e con le parole di stare vicino a chi non ha voce, a chi continua a cercare la propria stella. Ha pubblicato con Il Laboratorio degli Archetipi due libri di poesia Borse di stelle e Nel tempo della casa e Da questa parte del mare il racconto di vent’anni del progetto di accoglienza ex Sprar, ora Sai, a Lodi. Ha curato il progetto narrativo testo e audio E poi soli di sabato in questa città.