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Trattenuti e trattamenti. Esistenze e spazi nella nemesi del diritto

Un libro di Matteo Buffa (Ombre Corte, 2023)

Il nostro tempo è caratterizzato da movimenti migratori globali rappresentati e trattati come una minaccia all’identità e alla sicurezza dagli ordinamenti nazionali e sovranazionali. La risposta delle politiche migratorie “occidentali” impone di trattenere tali movimenti a ogni costo, disegnando così il naufragio delle ipocrisie democratiche fondate su narrazioni accettabili. Esse sembrano suggerire che sarebbe possibile accogliere separando, destinando esistenze umane a nuovi “campi”, confinando in istituzioni liminali che sorgono sulle frontiere delle eccezioni non eccezionali.

Trattenuti e trattamenti chiede di unirsi a un viaggio, in luoghi, spazi e città, così come all’incontro con umani, spesso invisibili ai più. Propone, inoltre, una sfida: quella di interpretare il presente come costante prodotto del passato, anche recente, muovendosi attraverso un’archeologia delle fonti giuridiche ed etnografiche in un’indagine paleogenetica che chiama a osservare “tra le discipline” i meccanismi di costruzione di un nuovo statuto di esistenza umano: quello dei trattenuti. Tra i più tipici strumenti di manifestazione dell’umanità, il diritto (così come la sua assenza, o la sua nemesi) gioca un ruolo fondamentale in tali movimenti, in particolare, nel trattamento – normativo, normalizzante e disciplinare – ricevuto dai migranti irregolari nei centri di permanenza per i rimpatri e in tutti quei luoghi deputati a un contenimento, dalle finalità anfibie, dell’umano.

“Matteo Buffa definisce i luoghi trattenenti, nella loro diversità, come la ‘grammatica delle eccezioni non eccezionali’. Guardando alla creazione di luoghi privi di uno statuto giuridico di riferimento chiaro, l’autore riflette sull’anomia e sulla nemesi del diritto”.

Matteo Buffa è assegnista di ricerca in Filosofia e Sociologia del diritto presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Genova, dove è docente coordinatore della Clinica legale in materia di migrazioni e protezione internazionale. Membro de “L’altro diritto. Centro di ricerca interuniversitario su carcere, devianza, marginalità e governo delle migrazioni”, è parte del Comitato di redazione dell’omonima rivista scientifica. È stato designato da Unhcr e nominato dal Dipartimento Libertà Civili e Immigrazione del Ministero dell’Interno quale Esperto in materia di protezione internazionale e tutela dei diritti umani presso la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Torino, sezione di Genova.

La prefazione di Mauro Palma

Quando abbiamo iniziato il nostro mandato come Garante nazionale delle persone private della libertà personale, nel febbraio 2016, abbiamo subito compreso che la prospettiva offerta all’Autorità era più ampia rispetto a quella proposta dalla legge nazionale istitutiva. In particolare, il ruolo di Meccanismo nazionale di prevenzione, ai sensi del Protocollo opzionale alla Convenzione Onu contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti (OPCAT) chiedeva e, al contempo, offriva la possibilità di dare al termine “privazione della libertà” la sua necessaria dimensione. È stato così possibile non limitarsi all’area penale, ma rivolgersi a tutte le altre situazioni dove, de iure o de facto, la libertà viene privata. All’interno di questo quadro, più ampio di quello a cui comunemente si riconduce l’immagine del “Garante delle persone detenute”, il nostro mandato è andato sempre più espandendosi, comprendendo anche il “trattenimento” di natura amministrativa.

Il trattenimento, fenomeno cui questo volume ha scelto opportunamente di rivolgere profonda attenzione nella restituzione di un lungo e interessante percorso di ricerca, è un istituto di sicura rilevanza e attualità nel panorama “sociale” del diritto e dei diritti per almeno tre ordini di questioni. In primo luogo, per la dimensione numerica: sempre più persone vengono private della libertà sulla base di un atto amministrativo. In secondo luogo, per la minore entità ed effettività delle possibili tutele, anche in ragione della vaghezza del dato normativo, dell’eccezionale non tassatività di forme. Ancora, per l’uso fortemente simbolico che, talvolta, questo dispositivo ha esplicitamente assunto negli ordinamenti: si pensi al periodo della pandemia, al momento in cui, per limitare il più possibile la diffusione dei contagi, gli aeroporti erano chiusi. Anche quando la finalità del rimpatrio che giustificava quel fermo imposto non poteva essere perseguita, il trattenimento non si è fermato. Ci troviamo di fronte a un valore simbolico che, però, è scarsamente tollerabile quando ha a che vedere con la privazione della libertà delle persone e che – come Matteo Buffa, autore di questo testo, mette bene in luce sin dalle prime pagine del suo lavoro – racconta di un peculiare rapporto tra norma ed eccezione.

Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr) oggi dieci su tutto il territorio nazionale, cui si affiancano “luoghi idonei”. Essi non esauriscono il novero delle istituzioni trattenenti: a questi si aggiungono spesso strutture indeterminate che – pur essendo pensate per una generica accoglienza – privano di fatto della libertà, talvolta anche per funzioni “protettive”. Le recenti visite del Garante nazionale e dei Garanti regionali, così come la peculiare etnografia giuridica che l’autore di Trattenuti e trattamenti. Esistenze e spazi nella nemesi del diritto ci propone, restituiscono una situazione che, dal punto di vista materiale, offre uno spaccato piuttosto deprimente; inoltre, oggi, molti cpr sono inagibili poiché, di fatto, sono stati distrutti dai trattenuti. Crediamo che questa reazione sia almeno in parte attribuibile al fatto che, in questi luoghi, si trascorre del tempo totalmente privo di significato: un tempo vuoto. Molti migranti si trovano nei cpr nell’attesa di rimpatrio, per un destino che, per molti, corrisponde alla fine di un’aspettativa, di un progetto di vita. Spesso, però, il rimpatrio si afferma soltanto come un’ipotesi e, in effetti, non avviene: si ottiene un foglio di via che, ove non ottemperato, esporrà a un possibile, nuovo, trattenimento in un cpr o altro luogo idoneo. Questi Centri sono, innanzitutto, delle “realtà personali a perdere”. Si tratta di luoghi di contenimento che hanno perso le finalità del loro disegno iniziale. Dovevano essere luoghi più piccoli, attivati per breve tempo, destinati a persone che effettivamente occorreva – ed era possibile – rimpatriare. Oggi, dopo una riforma del 2017 che prevedeva l’istituzione di questi Centri vicino agli aeroporti, l’unico CPR istituito in epoca coeva sulla base di quella ratio è stato il CPR di Palazzo San Gervasio: nell’unica regione d’Italia che non ha alcun aeroporto.

Trattenuti e trattamenti. Sono due termini che, come ho detto all’autore durante l’incontro che ha dato poi origine a questa prefazione, pur condividendone appieno l’utilizzo per il titolo di questo volume, non mi piacciono. Non mi piace il termine “trattenuto” perché è un vocabolo piuttosto ambiguo che cerca di utilizzare uno stratagemma linguistico per non riconoscere la realtà. Quella persona è privata della libertà. “Trattenuto” sembra dire: “attendi, aspetta un attimo”, non è così. È un termine che porta con sé un’attenuazione delle garanzie che devono, invece, sempre circondare la privazione della libertà. Non mi piace il termine “trattamento” perché (anche nel mondo penitenziario) è un termine che indica una asimmetria: c’è chi tratta qualcun altro, che anzi deve trattare qualcun altro. Anche in ambito penale la rieducazione sociale è qualcosa di diverso dal trattamento, così come – anche in questo caso – la possibilità di prendere in carico una persona. La presa in carico sanitaria, sociale, relazionale non prevede un trattamento, piuttosto chiede una comprensione dei bisogni della persona e, quindi, una orizzontalità che il termine trattamento non porta con sé. Quando, poi, i termini sono uniti insieme l’asimmetria si fa dirimente perché, a quel punto, un soggetto trattiene l’altro, all’asimmetria quale condizione iniziale si aggiunge anche la pretesa di trattarlo e quindi, in qualche modo, di decidere quale sia il suo bene. Di queste asimmetrie, l’autore si occupa in diverse parti del libro, in maniera attenta e originale, tanto nell’elaborazione teorica quanto nell’etnografia giuridico-sociologica che propone a chiusura del suo lavoro.

Nel volume, inoltre, un’ampia sezione è dedicata alla rievocazione del concetto di “campo” che, guardando ai luoghi concentrazionari, ma forse anche alla rilettura che, di questi, hanno dato gli studi post-coloniali, ne propone una possibile riutilizzazione per i luoghi del trattenimento. Mi sono misurato con il concetto di “campo” in diverse occasioni, nella mia precedente esperienza di Presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura. In particolare, a Sangatte, alla periferia di Calais, con migranti nell’attesa di traversare la Manica oppure a Patrasso, con altri migranti speranzosi di trovare un mezzo di fortuna verso la costa adriatica del nostro Paese. Due situazioni diverse, accomunate però sia dalla motivazione delle persone al loro interno, sia dalla tipologia che tale ritrovarsi in disperazione, confusione e attesa aveva progressivamente assunto. È l’idea di un agglomerato di attesa, di persone che, in qualche modo, cercano di avere accesso, ma dove, spesso, si determinano regole gerarchiche. In questa attesa, nascono regole di esercizio di potere degli uni sugli altri. Il “campo”, in qualche modo, ha anche una sua spontaneità reclusiva che si produce di fronte a minorità assolute, quando si passa da una situazione di possibilità, anche lata, a una situazione di impossibilità. Da Calais attendi di poter passare, ma attendi: si crea il campo. Sei a Rosarno: il campo si crea quando attendi per il lavoro, attendi per il passaggio, cioè si è posti di fronte al rischio (e alla contraddizione) dell’impossibilità e, quindi, anche sottostare a un’imposizione diviene accettabile perché, in quell’attesa imposta, risiede un barlume di possibilità. I campi, in un certo senso, svelano quella che è la “precondizione di una situazione di sofferenza accentuata”. Nel momento in cui lo Stato, il potere legale, in qualche modo vi penetra e, regolandoli, si sostituisce alla regola interna, da un lato agisce positivamente contro il potere criminale, nella lotta alla criminalità organizzata. Quando la logica, la regola implicita, del campo viene assunta dall’autorità pubblica, dall’altro lato, si assiste a una funzione impropria perché, in un certo senso, quel termine di gestione ordinata della sofferenza porta a non affrontare la sofferenza in sé. Da questa particolare prospettiva, Matteo Buffa definisce i luoghi trattenenti, nella loro diversità, come la “grammatica delle eccezioni non eccezionali”. Guardando alla creazione di luoghi privi di uno statuto giuridico di riferimento chiaro, l’autore riflette sull’anomia e sulla nemesi del diritto. Crediamo che i luoghi del trattenimento siano luoghi dove, tra l’altro, le persone diventano cose. Sono luoghi in cui l’anomia è un elemento determinante, sono i luoghi dove si ragiona di numeri, di quanti servono come braccia, di quanti possono essere accolti, non accolti e via dicendo. In questo senso osserviamo un’emergenza – che non è e non può dirsi più tale – ma che, in qualche modo, diventa struttura; questo è un nodo sempre potenzialmente pericoloso, perché può presto scivolare in un elemento di degrado del vivere sociale. Il rischio, cioè, è quello di un vivere sociale che percepisce luoghi e persone, esistenze e spazi, appunto, non più come aggregato di realtà a cui il nostro testo costituzionale guarda nel chiedere alle istituzioni di “rimuovere gli ostacoli”, ma come presa d’atto dell’esistente: il contrario della premessa costituzionale. […]