E’ passato nell’indifferenza generale l’anniversario della strage del 18 aprile 2015, la più grande strage del Mediterraneo, quando a seguito di una collisione tra un peschereccio stracarico di migranti e una nave commerciale, chiamata dalle autorità competenti per gli interventi SAR, oltre 800 persone annegarono. Il peschereccio sul quale si trovavano i migranti affondò in pochi minuti portando negli abissi i corpi che erano rimasti intrappolati nelle stive. Salvini tentò immediatamente di strumentalizzare anche questa strage.
Anni dopo il governo italiano dispose il recupero del relitto, e toccò ai vigili del fuoco l‘opera terribile di recuperare i corpi ormai in avanzato stato di decomposizione ed ad un pool di istituti universitari il tentativo di dare loro un nome, una identità, in modo che almeno i parenti potessero riottenere quello che restava dei corpi e piangerli su una tomba. Tra gli altri quello di un ragazzo che si era cucito una pagella scolastica all’interno del giubbotto.
Questi erano e sono i pericolosi “clandestini” da cui l’Italia si deve difendere. Ad ogni costo. Anche a costo di abbandonarli in alto mare.
Dopo quella immane tragedia l‘Unione Europea varò il l’Agenda sull’immigrazione, che prevedeva i “Migration Compact” con i paesi terzi di transito per esternalizzare i controlli di frontiera e per delegare alle polizie di questi paesi il compito di arrestare i trafficanti e bloccare le partenze dei migranti. Abbiamo visto tutti con quali risultati. La missione Triton di Frontex, che dopo la fine di Mare Nostrum era stata prevista con una operatività limitata a 35 miglia a sud di Malta e Lampedusa fu estesa alle acque internazionali fino a 135 miglia a sud delle stesse isole. Per tre mesi il numero di vittime si azzerò. Come è dimostrato dai grafici contenuti nello studio Death by Rescue di Lorenzo Pezzani e Charles Heller della Goldsmiths University di Londra.
Nei mesi successivi però le navi di Frontex vennero progressivamente ritirate ed i compiti dell’agenzia si concentrarono sull’approccio Hotspot e sulle attività di indagine e schedatura. Di nuovo si verifico un aumento esponenziale delle vittime mentre la situazione in Libia peggiorava giorno dopo giorno a seguito delle difficoltà incontrate dal governo di Riconciliazione nazionale affidato a Serraj, con la copertura delle Nazioni Unite e dell’Italia in particolare.
In quel periodo, alla fine del 2015, operatori umanitari e cittadini solidali con navi finanziate da alcune ONG decisero che non si poteva più restare ad assistere ad una strage quotidiana, derivante dalla mancanza di canali legali di ingresso in Europa e dal ritiro dei mezzi di soccorso europei ed italiani. Cominciavano allora ad arrivare le navi delle ONG destinate agli interventi di soccorso sulla rotta del Mediterraneo Centrale sotto il coordinamento della Centrale operativa della Guardia costiera italiana (IMRCC) . Dopo pochi mesi partiva una campagna di odio e di delegittimazione nei confronti delle stesse ONG, che venivano ritenute “colpevoli” di salvare troppe vite in acque internazionali. Prima gli attacchi di GEFIRA, poi quelli delle destre italiane, infine una martellante campagna di stampa. Immediati gli effetti sulla linea del governo e sulle scelte imposte dal ministro dell’interno Minniti.
Nel 2017, dopo il Memorandum d’intesa tra Italia e governo di Tripoli, questa campagna di odio e di disinformazione è sfociata in scelte politiche e giudiziarie che hanno esposto gli operatori umanitari che ancora resistevano alla attuazione degli accordi di collaborazione con le autorità libiche a gravi rischi.
Rischi sempre più gravi per i migranti e per chi li salvava in mare, per effetto della minaccia armata rappresentata dai militari libici imbarcati in tuta mimetica a bordo delle motovedette tripoline, ed allo sbarco, dove si susseguivano episodi di ostruzionismo burocratico e di pressione giudiziaria che portavano la maggior parte delle ONG al ritiro delle navi. La nave Iuventa di Jugend Rettet veniva sequestrata a Lampedusa, poi portata a Trapani, e su tutte le altre navi umanitarie che ancora restavano operative si accanivano le motovedette libiche, come nel caso dell‘incidente del 6 novembre 2017, occorso alla nave di Sea Watch e le iniziative giudiziarie.
Si profila adesso che le attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali rimangano affidate soltanto al coordinamento militare italo-libico. Frutto degli accordi tra Serraj, Gentiloni e Minniti. Il Codice di condotta imposto alle ONG dal ministero dell’interno sta completando l’emarginazione delle navi umanitarie a vantaggio degli interventi dei libici in acque internazionali. Prosegue una offensiva giudiziaria che meriterebbe ben altri obiettivi, Malgrado i pronunciamenti di alcuni giudici coraggiosi le sentenze di condanna sembrano già anticipate. Non si comprende in questa situazione di incertezza, denunciata anche da Frontex, chi porterà avanti le attività di soccorso in acque internazionali, né sotto quale coordinamento, come Autorità SAR responsabile.
Se saranno coinvolte in attività SAR (ricerca e salvataggio) altre navi commerciali potrebbero ripetersi altri “incidenti”, come quello costato la vita a centinaia di persone il 18 aprile 2015. Se le ultime ONG ancora operative sulla rotta del Mediterraneo centrale saranno spazzate via, come qualcuno si promette ancora oggi, malgrado l’apparente calo degli arrivi, il numero delle vittime sia in terra, in Libia, che in mare, in acque internazionali, non potrà che aumentare di nuovo.
Ricordiamo un giorno di strage, di tre anni fa, ma pensiamo anche alle stragi future che si potranno verificare quando prevarrà la politica della dissuasione e della criminalizzazione ad ogni costo. Noi non arretreremo di un centimetro. Nelle Università, nei Tribunali e nei porti di sbarco.