Non erano bastati la strage della notte
di Natale del 1996, davanti alle coste di Porto Palo, in Sicilia e poi
l’affondamento nel Canale d’Otranto della Kater I Rades, carica di
migranti provenienti dall’Albania nel marzo del 1997, per convincere il
governo Prodi e poi il governo D’Alema della inutilità delle politiche
di contrasto violento, in mare e poi nei centri di detenzione, dell’
immigrazione clandestina.
Si tratta di una guerra senza regole che ha eroso i
principi dello stato di diritto e che ha costituito precedenti
gravissimi per una dilatazione enorme della discrezionalità
amministrativa, dei poteri delle polizie, a scapito dei diritti
fondamentali della persona, a partire dal diritto alla vita.
A nove
anni esatti dalla morte di sei migranti, periti nel rogo del centro di
detenzione Vulpitta di Trapani alla fine di dicembre del 1999, punto di
fallimento delle politiche del centrosinistra dopo l’approvazione della
legge Turco Napolitano nel 1998, nel dicembre del 2008 gli ultimi
arrivi a Lampedusa di migranti, soccorsi da unità della marina italiana
mentre erano in procinto di annegare, confermano il fallimento dell’
ennesima svolta repressiva impressa dall’ultimo governo Berlusconi alle
politiche di contrasto militare dell’immigrazione “clandestina”.
Una
politica basata adesso sulla esternalizzazione dei controlli di
frontiera e della detenzione amministrativa, sulla base di intese
bilaterali con i regimi dittatoriali nord-africani, a fronte delle
divisioni interne all’Unione Europea, incapace di concludere intese
multilaterali per la riammissione dei migranti irregolari.
L’ultimo
accordo politico stipulato in Libia il 30 agosto 2008 tra Berlusconi e
Gheddafi non costituiva certo una svolta nella politica estera
italiana.
Il 19 gennaio 2007, commentando i dati degli arresti in Libia
dei candidati all’immigrazione clandestina, il Ministro degli interni
Giuliano Amato parlava di “buoni frutti” della collaborazione tra
Italia e Libia. Pochi mesi dopo, l’ 11 giugno 2007, lo stesso Ministro
arrivava a sollecitare la partecipazione della Libia ai pattugliamenti
aeronavali congiunti dell’agenzia europea Frontex nel Canale di
Sicilia, per “impedire l’uscita dai porti delle navi”.
Alla fine del
2007, malgrado fossero noti da tempo i rapporti i Amnesty, di Human
Rights Watch e di altre agenzie internazionali sulle violazioni dei
diritti umani in Libia, e malgrado questo paese non avesse mai aderito
alla Convenzione di Ginevra sulla protezione dei rifugiati, il governo
Prodi, con una missione a Tripoli capitanata dal prefetto De Gennaro,
aveva già concluso un accordo con la Libia, formalizzando le prassi
“riservate” seguite in precedenza, con l’aggiunta di mezzi e personale
che avrebbero dovuto migliorare “l’efficienza” degli interventi di
contrasto dell’immigrazione “clandestina”, sia ai confini meridionali
della Libia che nelle acque del Canale di Sicilia.
Il Protocollo
firmato a Tripoli a dicembre del 2007 prevedeva inoltre che l’Italia
assumesse ulteriori iniziative a livello europeo per rinforzare i
dispositivi di “guerra all’immigrazione illegale” come l’agenzia
europea FRONTEX , già impegnata al largo delle Canarie, tra Marocco e
Spagna con un bilancio pesantissimo di vittime.
Secondo quanto si
apprendeva dai giornali che hanno fedelmente riportato le veline dei
comunicati ufficiali, in base allo stesso accordo, mai ratificato dal
Parlamento italiano, “la direzione e il coordinamento delle attività
addestrative ed operative di pattugliamento marittimo vengono affidati
ad un Comando operativo interforze che sarà istituito presso una
«idonea struttura» individuata dalla Libia”.
Il responsabile avrebbe
dovuto essere un «qualificato rappresentante» designato dalle autorità
libiche, mentre il vice comandante (con un suo staff) sarebbe stato
nominato dal Governo italiano. Tra i compiti del Comando interforze
quello di organizzare l’attività quotidiana di addestramento e
pattugliamento; di «impartire le direttive di servizio necessarie in
caso di avvistamento e/o fermo di natanti con clandestini a bordo»; di
interfacciarsì con le «omologhe strutture italiane», potendo anche
richiedere l’intervento o l’ausilio dei mezzi schierati a Lampedusa per
le attività anti-immigrazione.
I termini dell’accordo concluso nel
dicembre 2007, malgrado il riserbo ufficiale delle autorità
governative, apparivano molto chiari ma non sembra che i risultati
pratici abbiano corrisposto alle attese, al punto che potrebbe persino
escludersi che quanto previsto dalle intese sottoscritte a Tripoli, sia
stato mai realizzato.
Colpa forse della crisi politica che ha
cancellato il governo Prodi, “costringendo” Gheddafi e Berlusconi ad
una ulteriore trattativa, questa volta con una posta ancora più alta.
Un accordo globale per la chiusura del contenzioso coloniale. Un fiume
di dollari destinato anche ad armare pattuglie congiunte per bloccare
le imbarcazioni dei “clandestini” subito dopo la partenza, con
operazioni di blocco congiunto in mare. Un fiume di dollari che
evidentemente non è mai arrivato nelle casse dei libici.
Sappiamo però
abbastanza bene cosa significa il “fermo di natanti” in mare, migliaia
di morti e ancora processi per i comandanti delle imbarcazioni non
militari, autori di interventi di salvataggio. Ed è ben nota la
condizione dei migranti restituiti alla polizia libica dopo il
respingimento da parte delle autorità italiane.
Adesso, dopo l’ultima
“ondata di sbarchi” il Ministro Maroni invita il suo collega Frattini a
sollecitare Gheddafi nella collaborazione con l’Italia nelle pratiche
di contrasto e di respingimento dei migranti che tentano di raggiungere
le coste italiane in fuga dall’inferno libico.
Come se non fossero note
le condizioni dei migranti irregolari detenuti in Libia, donne e
bambini compresi. E nessuno ricorda che solo il dieci per cento dei
migranti irregolari che entrano in un anno in Italia transita dalla
Libia e da Lampedusa. Ma i barconi carichi di donne in stato di
gravidanza e di minori fanno “audience”, e magari servono anche ad
accelerare la ratifica delle intese Italia-Libia da parte del
parlamento, in modo anche da sbloccare qualche affare tra la Libia e l’
Italia, come l’ulteriore ingresso di capitali libici in UNICREDIT, una
partita di centinaia di milioni di euro che potrebbe incagliarsi nelle
secche delle politiche di contrasto dell’immigrazione clandestina.
E
poi, alla fine, quanto interessa a questo governo la vita di alcune
centinaia di migranti, a rischio di annegare in mare, o delle migliaia
che sono trattenuti ed abusati nei centri di detenzione libici?
Ormai
il comportamento del governo italiano non deve stupire più nessuno. Si va infatti verso la
sistematica disapplicazione delle sentenze della Corte Europea dei
diritti dell’uomo che sospendono misure di allontanamento forzato
quando ricorre il rischio di trattamenti inumani e degradanti vietati
dall’art. 3 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’
uomo.
Si ripetono da mesi, ormai, le “ordinarie renditions”,
soprattutto verso la Tunisia, camuffate da espulsioni per motivi di
sicurezza, decise dal ministro degli interni ai danni di sospetti
appartenenti alle organizzazioni terroristiche, che nei paesi nei quali
vengono rimpatriati scompaiono o sono immediatamente sottoposti a
brutali torture.
Mentre gli Stati Uniti si accingono a chiudere
Guantanamo l’Italia dà un contributo non secondario alle tante piccole
Guantanamo che i paesi del Nord Africa hanno aperto all’interno dei
loro confini.
Quando si considera la tortura un mezzo normale per
garantire la sicurezza e quando si dà per scontato che i migranti
respinti o imprigionati in Libia possano essere abusati, venduti o
uccisi, se non condannati a morte nel deserto o nelle acque del canale
di Sicilia, e tutto al solo fine di non farli mai arrivare in Europa,
non deve sorprendere poi che gli stessi governanti italiani trattino il
dossier Libia al solo fine di ridurre al minimo le spese degli
interventi di contrasto e gli arrivi di migranti al Lampedusa, due
obiettivi che sino ad oggi nessuno è riuscito a conciliare.
Non importa
più di tanto, sembrerebbe, il costo in termini di vite umane e la sorte
dei potenziali richiedenti asilo, la maggior parte dei migranti che,
fuggendo dalla Libia, trova scampo a Lampedusa
Di certo, le “intese
tecniche” tra militari italiani e libici previste dagli accordi
sottoscritti alla fine del 2007 non sono mai andate a buon fine, come
dimostrato dal raddoppio degli sbarchi di migranti in Sicilia nel corso
del 2008, migranti provenienti proprio dalla Libia, in gran parte
potenziali richiedenti asilo, con il conseguente aumento esponenziale
del numero dei morti e dei dispersi nel Canale di Sicilia, anche
bambini e donne in gravidanza.
Appare anche evidente come la Marina
Militare italiana sia riuscita comunque, malgrado le periodiche
riunioni dei burocrati di Frontex a Lampedusa, ad interpretare al
meglio le normative internazionali sul diritto del mare e la nostra
tradizione di salvataggio, chiamando quando necessario anche i
pescherecci in soccorso dei migranti in procinto di affondare. Un
impegno umanitario ed istituzionale eccezionale che oggi qualcuno
vorrebbe mettere sul banco di accusa. Un impegno che va invece
riconosciuto e difeso.
Gli accordi internazionali sottoscritti da
Amato nel 2007 e poi da Berlusconi nel 2008, con Gheddafi e quindi con
il ministro degli interni libico, dovrebbero rientrare tra gli accordi
che sono previsti già nel T.U. sull’immigrazione n. 286 del 1998 agli
articoli 2, 3 e 21, modificati dalla legge Bossi-Fini, sono stati
sottratti fino ad oggi alla ratifica parlamentare prevista dall’art. 80
della nostra Costituzione.
Con la composizione dell’attuale
maggioranza di governo stupisce che tali accordi non siano stati ancora
ratificati dal parlamento. Probabilmente si è trattato, come al solito,
di una sporca questione di soldi, non solo da riserve dei soliti
leghisti, ma da più concrete economie suggerite da Tremonti, perché non
sarà certo facile trovare nelle disastrate casse dello stato italiano i
milioni di dollari che Gheddafi aspetta dall’Italia. In realtà l’Italia
attendeva da tempo che con l’approvazione definitiva della direttiva
sui rimpatri, la direttiva della vergogna, queste risorse fossero
fornite dall’Unione Europea ai paesi di transito ed agli stati
comunitari più esposti all’immigrazione clandestina, ma sul punto non
si è ancora raggiunto un accordo a livello comunitario.
Intanto quei
finanziamenti rimangono bloccati, anche perché dopo i disastrosi
risultati ( l’esperienza spagnola di FRONTEX è troppo circoscritta per
salvare un bilancio comunitario che rimane fallimentare)) qualcuno a
Bruxelles si sta chiedendo, nell’anno del rinnovo del Parlamento
Europeo, a chi sia convenuto destinare tante risorse alle agenzie di
sicurezza come FRONTEX.
Adesso la direttiva sui rimpatri è stata
approvata definitivamente, ed anche se non ha fatto arrivare i soldi
attesi da Gheddafi, ha reso ancora più violente le pratiche di
contrasto dell’immigrazione clandestina, estendendo fino a diciotto
mesi la detenzione nei cpt, consentendo la detenzione dei minori e dei
richiedenti asilo, spalancando la strada alla deportazione dei migranti
in paesi di transito, diversi dai paesi di origine, anche a prescindere
dall’accertamento effettivo della nazionalità, esattamente quello che l’
Italia e la Libia attendevano per dare corso alle proprie intese.
Anche
questa circostanza, come la finestra di tempo stabile dopo mesi di
burrasche potrebbe spiegare l’ultima ondata di arrivi a Lampedusa, ma
le spiegazioni sono comunque tante e diverse, ed il fenomeno affidato
esclusivamente al contrasto dell’immigrazione clandestina rischia di
andare fuori da qualsiasi possibilità di controllo. E’ del resto noto
come qualunque inasprimento delle pratiche di controllo delle rotte
seguite dall’immigrazione clandestina comporta immediati percorsi
alternativi, di fronte alla perdurante assenza di canali di ingresso
legali.
Rimane poi da verificare se le disposizioni contenute nella
direttiva sui rimpatri e la “cooperazione pratica di polizia” tra i
diversi stati risultino conformi ai dettati consolidati del diritto
internazionale e delle carte costituzionali dei paesi democratici, ai
quali fanno riferimento anche i Trattati dell’Unione Europea.
Gli
stessi accordi bilaterali per il contrasto dell’immigrazione
clandestina, a seconda del loro contenuto, o delle intese operative che
ne seguono, possono violare principi consolidati di diritto
internazionale . La riammissione, o il respingimento, collettivo, a
mare, di migranti verso stati che non garantiscano il rispetto dei
diritti umani fondamentali, ovvero nei quali gli interessati possano
essere vittime di trattamenti disumani o degradanti, sono
tassativamente proibiti dall’art. 3 della stessa Convenzione Europea.
Analogamente è vietato il rinvio verso stati nei quali non vi è
l’effettiva possibilità di accedere alla protezione prevista dalla
Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato, convenzione che la
Libia non ha ancora sottoscritto, macigno che non può essere rimosso
dal consueto pretesto che lo stesso paese è parte dell’Organizzazione
degli stati africani (OUA) il cui statuto richiama quella
Convenzione.
Rimane ancora molto concreto il rischio – se non la
certezza – che dopo gli interventi di pattugliamento congiunto
praticato dalle unità miste italo-libiche si possano verificare vere e
proprie espulsioni o respingimenti collettivi verso la Libia e da qui
verso i paesi di provenienza.
In questi anni si è avuta notizia di
migliaia di casi di respingimento di potenziali richiedenti asilo da
parte delle autorità libiche, e dopo le parziali ammissioni del
Colonnello Mori nel 2005, sono ormai numerose le testimonianze sulla
detenzione amministrativa che viene praticata in Libia senza un
effettivo controllo di una autorità giurisdizionale, senza alcuna
possibilità di difesa (si vedano i dossier pubblicati nel sito www.
fortresseurope.blogspot.com).
Migliaia di persone, tra le quali donne e
minori sono trattenuti ancora oggi in condizioni disumane, come si è
verificato nel caso degli eritrei e degli altri migranti irregolari
detenuti nel carcere di Misurata ed in altri luoghi di detenzione,
anche fosse scavate nel deserto La maggior parte delle giovani donne
viene sistematicamente stuprata dai trafficanti o da poliziotti in
divisa. Così almeno raccontano la maggior parte delle sopravvissute in
fuga dall’inferno libico. E Gheddafi si proclama ancora un campione dei
diritti umani e in questa veste ottiene riconoscimenti dalla comunità
internazionale e da qualche stagionato paladino dell’internazionalismo
socialista.
E’ con l’altra Libia, quella che cerca faticosamente di
emergere dalla palude del regime di Gheddafi che la società civile
europea vuole tentare di collegarsi, utilizzando gli strumenti offerti
dai nuovi canali di comunicazione e promuovendo anche in suolo libico
iniziative concrete a tutela dei migranti.
Una direzione di marcia ben
diversa da quella seguita dal governo italiano. Con questo leader
politico e con queste forze di polizia nel 2008 l’Italia di Berlusconi
e Maroni ha firmato un vero e proprio accordo politico dopo il
protocollo tecnico per la “cooperazione contro l’immigrazione
clandestina” sottoscritto alla fine del 2007 dal governo Prodi.
Ma,
piuttosto che diminuire, gli arrivi a Lampedusa sono più che
raddoppiati.
Al di là del giudizio negativo che si può formulare sull’
ennesimo accordo concluso sulla pelle dei migranti, senza alcun
riguardo per le categorie più vulnerabili, viene forte il dubbio che i
paesi, come la Francia e l’Italia, che stanno investendo risorse
ingenti attribuendo a regimi dittatoriali compiti sempre più importanti
per bloccare l’immigrazione e per combattere il terrorismo, possano
avere fatto male i propri conti, per la inaffidabilità dei partner che
non sembrano certo in grado di garantire quanto hanno millantato, ma
che intanto prosperano sugli aiuti economici e sulle forniture militari
che gli vengono generosamente elargite.
Continuando a governare con la
violenza clandestina dei servizi segreti e con la repressione di
qualunque forma di dissenso. Violenza militare e repressione che
possono alimentare negli strati più disperati delle popolazioni locali,
o degli stessi migranti, la base di consenso verso le organizzazioni
terroristiche. E’ bene che l’opinione pubblica sia consapevole dei
gravissimi rischi che potrebbero essere innescati proprio dalla
politica estera, di “guerra ai migranti”, seguita dal governo
Berlusconi con la Libia con la scusa del contrasto dell’immigrazione
cd. illegale.
Gli inviti, assai rari, finora rivolti alla Libia al fine
di assicurare un maggior rispetto per i diritti umani, non solo dei
migranti, ma anche degli oppositori politici interni, sono finora
caduti nel vuoto. Nel corso dei suoi incontri a Parigi, nel gennaio del
2008, Gheddafi ha immediatamente smentito Sarkozy quando questi ha
affermato di avere trattato, nel suo colloquio con il leader libico, il
dossier sul rispetto dei diritti umani in Libia, questione sollevata
ancora di recente da Human Rights Watch , e lo stesso atteggiamento
infastidito è stato opposto all’amministrazione americana.
La Libia ha
interrotto le relazioni economiche con la Svizzera ed ha imprigionato
arbitrariamente diversi cittadini svizzeri, nell’estate del 2008, solo
perché in un albergo elvetico la polizia aveva arrestato un figlio di
Gheddafi e la moglie, colpevoli di avere percosso violentemente un
domestico. Il fratello e la madre di questo stesso domestico, che poi è
stato costretto ad una ritrattazione parziale delle sue accuse, ma ha
ottenuto asilo in Svizzera, si trovavano ancora in Libia e sono stati
sottoposti a gravi abusi. E’ questo il paese, una volta “Stato
canaglia”, oggi pienamente riabilitato a suon di petrodollari, con il
quale l’Italia di Berlusconi, purtroppo in piena continuità con i
governi precedenti, si accinge a concludere nuove intese commerciali su
gas e petrolio, spalancando il mercato finanziario italiano ai capitali
di Gheddafi e delle sue compagnie, in cambio di un qualche impegno
contro l’immigrazione clandestina da potere esibire all’opinione
pubblica interna. Richiamare i diritti umani e la Convenzione europea a
salvaguardia dei diritti dell’Uomo non deve restare,tuttavia, un vuoto
rituale.
L’art. 3 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, che
vieta trattamenti inumani e degradanti, e l’art. 33 della Convenzione
di Ginevra che sancisce il principio di non refoulement, si pongono in
contrasto frontale con gli accordi sottoscritti in Libia da Berlusconi
e Gheddafi, quegli accordi che adesso Maroni e Frattini dovrebbero
mettere in esecuzione conquistandosi a suon di milioni di euro la
collaborazione dei diffidenti partner libici. Gli organismi
internazionali preposti alla salvaguardia di queste convenzioni
internazionali, come il Comitato del Consiglio d’Europa per la
prevenzione della tortura (CPT) e l’Alto Commissariato delle Nazioni
Unite per i diritti umani (UNHCHR), anche sulla base delle documentate
denunce delle associazioni e delle organizzazioni umanitarie dovranno
denunciare al più presto il comportamento del governo italiano.
Una
responsabilità storica immane che, al di là delle future condanne dei
tribunali internazionali, caratterizzerà l’operato di governi che,
concludendo accordi con i dittatori dei paesi di transito e sbarrando
ogni possibilità di ingresso legale, persino ai richiedenti asilo,
hanno innalzato le mura della Fortezza Europa ed hanno attuato
politiche criminogene di contrasto dell’immigrazione clandestina,
capaci soltanto di alimentare l’odio e l’esclusone sociale.