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«Chiamami padrone»

Un reportage sullo sfruttamento lavorativo nel settore agricolo pontino

1 – L’Agro Pontino

L’Agro Pontino è una pianura di 700 kmq circa, che si estende dal fiume Astura a Terracina e dai monti Lepino-Ausoni al mar Tirreno. Con la famosa bonifica degli anni 1927 – 1935 la geografia del luogo venne completamente ridisegnata sotto diversi aspetti. Il processo di prosciugamento e l’urbanizzazione contestualizzata a una forma di colonizzazione interna, ha inevitabilmente “cancellato” quasi ogni traccia di ciò che era prima, oramai sepolto in un nebuloso “prima della bonifica”.

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Per comprendere meglio un territorio così complesso, ma anche così poco conosciuto, la lettura di alcune riflessioni di Antonio Pennacchi, autore de “Il Canale Mussolini” è stata determinante per dotarsi di una connotazione storica del luogo, a partire dai numerosi reperti archeologici che testimoniano la presenza di transumanza agropastorale intorno al XII e XI secolo A.C., o come le fonti classiche, che già soprannominavano l’Agro Pontino il territorio “Pomptinae Paludes1.

E’ proprio la transumanza che ha reso l’Agro Pontino il teatro delle guerre condotte dai latino-romani contro i Volsci, un conflitto che peraltro affonda le radici nel millenario scontro tra agricoltori stanziali (Prisci Latini e poi Romani) e pastori nomadi Osco-Umbri (Volsci, Sanniti, Sabelli etc.) che portavano le greggi al pascolo: masse di persone ed animali che ogni anno calavano in Agro alla ricerca di prati, danneggiando le colture e la messa a frutto dei campi.

La tradizione è rimasta immutata fino al ‘900, flussi provenienti dalla Ciociaria, dai monti Ernici, Simbruini e versanti nord orientali dei Lepino-Ausoni, oltre che dall’Appennino Abruzzese scendevano nelle “ex Paludi Pontine” agli inizi d’autunno per San Michele Arcangelo, che cade appunto il 29 settembre.

Al giungere dell’Ascensione, invece i flussi invertivano direzione, dirigendosi verso le montagne e i nuovi pascoli, abbandonando i territori infestati dalle zanzare anofele e dalla malaria.

Nei primi anni Trenta del ‘900 invece, migliaia di contadini, reclutati nelle regioni del Nord-est di una giovanissima Italia, lasciano la loro terra per lavorare alla bonifica delle Paludi Pontine. La “redenzione dell’Agro” diviene in breve tempo un simbolo della propaganda fascista. Mussolini promette a tutti un pezzo di terra e la gloria di aver partecipato a una storica impresa.

Latina è un po’ l’emblema di questa situazione. Si tratta di una città nuova, dunque attraversata da flussi continui di persone in cerca di opportunità. Per primo arrivò un nucleo di coloni veneto-friulano-ferraresi, insieme agli impiegati romani e agli abitanti dei monti Lepini. Dopo la seconda guerra mondiale si sono aggiunti gli esuli giuliano-dalmati, i rimpatriati dalla Tunisia e dalla Libia con un incremento medio annuale ininterrotto tra le mille e millecinquecento unità. Negli ultimi decenni infine sono immigrati anche vasti gruppi provenienti dai paesi dell’Est, oltre che dall’Africa e dall’Asia: sikh del Punjab, Pakistan, India, Bangladesh.

In pochissimo tempo si raggiungono 130 mila “nuovi” cittadini. Tra questi alcuni sono di origine Rom e Sinti, le cui famiglie iniziarono ad arrivare nel 1948. All’inizio allevavano cavalli e commerciavano bestiame, fonti poco attendibili solitamente collocano la loro zona di origine in Abruzzo. Fu con il tempo invece che ci si accorse delle sorprendenti somiglianze tra il sanscrito e le lingue parlate dai rom, un indizio che indica come allora (e così anche oggi), flussi di persone si muovevano dal Punjab all’Italia attraverso sia il Bosforo che il Caucaso e da lì attraverso i Balcani e l’Europa centrale.

Se di queste ondate migratorie restano tracce in diversi cognomi italiani2, viene da chiedersi come verranno “assimilati” i nuovi flussi di lavoratori punjabi e i loro cognomi (come l’ormai diffusissimo “Singh”) che ormai da tempo si leggono su molte cassette della posta di Bella Farnia.

1.1 Le agromafie

Le agromafie rappresentano una rete criminale che si incrocia perfettamente con la filiera del cibo, dalla sua produzione al trasporto, dalla distribuzione alla vendita… Le nuove leve mafiose in parte provengono dalle tradizionali famiglie che hanno indirizzato figli, nipoti e parenti vari agli studi in prestigiose università italiane internazionali e in parte sono il prodotto di una operazione di arruolamento, riccamente remunerato, di operatori sulle diverse piazze finanziarie del mondo”. Questo è quello che scrive l’Eurispes nel sesto rapporto delle Agromafie 2018.

Il settore agroalimentare italiano con le sue 1,2 milioni di unità lavorative annue (ISTAT, 2017) e circa 1,6 milioni di imprese (ICE, 2017), costituisce l’architrave del sistema industriale italiano.
L’ortofrutta coltivata è raccolta dai braccianti indiani, senegalesi, marocchini, italiani, moldavi, rumeni e di qualsiasi altra nazionalità.

Il rapporto Agromafie di Eurispes afferma che: “Le mafie, dopo aver ceduto in appalto ai manovali l’onere di organizzare e gestire il caporalato e le altre forme di sfruttamento, condizionano il mercato stabilendo i prezzi del raccolto, gestendo i trasporti e lo smistamento, il controllo di intere catene di supermercati, l’esportazione del nostro vero o falso Made in Italy, la creazione all’estero di centrali di produzioni dell’italian sounding, e la creazione di reti di smercio al minuto”.

1.2 Lo sfruttamento

Per capire meglio quello che succede nel settore agricolo del Lazio meridionale, ed in particolare dell’Agro Pontino, abbiamo deciso di fare un reportage su come il caporalato e lo sfruttamento lavorativo continuino ad esistere nel territorio, nonostante si conosca il fenomeno da anni, e dal 20163 esista anche una legge che rende illegali queste pratiche di reclutamento e sfruttamento della manodopera.

L’agricoltura pontina infatti, si basa su forme di sfruttamento lavorativo che fanno spesso riferimento al mondo della criminalità organizzata, al reclutamento e all’organizzazione della mano d’opera; ma anche ad un linguaggio che esprime la violenza strutturale del contesto italiano, ed evidenzia come i rapporti di potere tra lavoratori e datori di lavoro esistono all’interno di una dicotomia, che li vede rispettivamente come braccianti e padroni.

In un’intervista con Marco Omizzolo, sociologo attivista, ricercatore e giornalista che ha lavorato in questo contesto per più di quindici anni, e che in questo tempo ha continuato a dialogare e interagire direttamente con le comunità di braccianti, abbiamo cercato di farci un’idea generale del fenomeno del bracciantato nell’Agro Pontino.

In particolare, gli abbiamo chiesto la sua opinione rispetto alle dinamiche di potere che mantengono nel settore agricolo del Lazio meridionale sistemi di violenza e sfruttamento, che sono visibili anche più ampiamente nel settore agricolo nazionale e comunitario, ma che rendono tristemente noti posti come Rosarno, Foggia e l’Agro Pontino.

Quest’ultimo, un territorio che “stando a 90 chilometri da Roma, non è considerato Meridione, ha una connotazione fortemente ideologica in relazione al contesto istituzionale politico e padronale. È un territorio con una forte presenza di tutte le organizzazioni mafiose che collaborano tra di loro, c’è il mercato ortofrutticolo di Fondi che è il quarto più grande d’Europa e il secondo più grande d’Italia, e ci sono molti supermercati e centri commerciali che vendono i prodotti dello sfruttamento”. Prodotti, che secondo l’ultimo studio Eurispes4, sono la base di un business che vale 24,5 miliardi di euro, e che è gestito dalle agromafie.

In tutto questo però, “mancano i grandi insediamenti informali” – noti anche come ghetti – che popolano le campagne di Foggia e di Rosarno. “Manca il disagio estremo” e grafico su cui si basa molta della retorica che riguarda l’argomento, e su cui si costruisce un discorso che spesso si sofferma sulla sofferenza solo per far scalpore.

La realtà di Bella Farnia e dell’Agro Pontino in generale è molto più sfumata”, ci spiega Omizzolo, più pulita e ordinata all’apparenza, ma “caratterizzata comunque da condizioni di profondo disagio, emarginazione e sfruttamento che hanno portato negli ultimi 4 anni a 14 suicidi”, oltre che a gravi aggressioni alla persona.

Lo “sfruttamento si vede in azione” ci ricorda Omizzolo, “si basa sull’emarginazione e sull’isolamento dell’individuo” che non riesce quindi a uscire dall’alienazione sociale, e rimane bloccato in una dinamica di potere verticale, in cui il datore di lavoro è al vertice. Un effetto del “progetto politico che comprende il razzismo e la marginalizzazione allo scopo di controllare e sfruttare il più possibile queste persone” per mantenere competitivo il settore agricolo italiano.

L’emancipazione” quindi “non è un processo che si muove necessariamente dal male verso il bene, ma è un processo complesso che può anche passare per la costruzione di un potere interno che viene gestito per interessi e obiettivi diversi”, che spesso non coincidono con quelli dei lavoratori e delle lavoratrici.

Una condizione che rende ancora più insidiosi i percorsi che gli operai agricoli intraprendono per svincolarsi dallo sfruttamento. Nel 2019 per esempio, una operazione contro il caporalato ha portato all’arresto dell’allora segretario generale di FAI CISL di Latina, con l’accusa “di avere garantito protezione alla cooperativa Agri Amici, […] estorcendo l’iscrizione alla sua organizzazione ai lavoratori assunti dalla cooperativa, dietro la minaccia del licenziamento“.5

Perciò, una persona può partecipare a processi di emancipazione, si può sindacalizzare, ed avere una certa coscienza della propria condizione, pur rimanendo intrappolata in una struttura corrotta che usa le istituzioni e gli enti del territorio per ottenere lo stesso tipo di sfruttamento.

Tuttavia, negli ultimi quindici anni ci sono state varie azioni governative che hanno avuto dei discreti successi nel mettere alla luce queste situazioni, e hanno fornito degli esempi concreti su come questo tipo di criminalità si insinua nel settore agricolo.

Nel 2016”, come leggiamo in un articolo di Floriana Bulfon e Francesca Sironi da L’Espresso 6, “una Commissione parlamentare d’inchiesta sugli infortuni sul lavoro, ha portato allo smantellamento di una rete di sfruttamento nella cooperativa Centro Lazio, un’azienda con 150 ettari di terreno, che nel 2014 aveva fatturato 13 milioni di euro”. Una rete di sfruttamento complessa, all’interno di una grande azienda, “che ha evidenziato come il padronato ed il caporalato non si trovano solo nelle piccole imprese, ma sono un fenomeno che pervade il settore agricolo nazionale ed internazionale in maniera sistemica”.

Con questo quadro in mente, la sera del 12 agosto siamo usciti al casello dell’autostrada a Latina, e scendendo lungo la Litoranea siamo arrivati a Bella Farnia.

Il sole scendeva dietro il mare, proiettando una luce arancione sulla pianura. L’atmosfera era surreale: due mondi diametralmente opposti si spiegavano davanti a noi con rari punti d’incontro. Lungo la Litoranea, i campi e le aziende agricole, si alternavano ai centri abitati e alle numerose ville circondate da giardini decorati con fontane e imitazioni di statue grecoromane.

La toponomastica ci riportava a quella “Redenzione dell’Agro” alla quale si accennava in precedenza. Molti dei centri abitati si chiamano con nomi che ricordano i territori del nord Italia come: Monte Grappa, Sabotino, Carso, o Piave. Proprio in relazione alle popolazioni di coloni che per primi andarono ad abitarvi.

Lungo le colonne di macchine dei vacanzieri che tornavano dalla spiaggia, scorrevano piccoli gruppi di persone in bicicletta che tornavano verso casa dopo una giornata di lavoro. Sul lato della strada accanto ad un alimentari, un gruppetto di uomini tra i venti e i quarant’anni, chiacchieravano e bevevano seduti in cerchio. Lì vicino, tra i mozziconi gettati a terra, abbiamo notato un blister usato di Depalgos, un antidolorifico a base di oxycodone e paracetamolo. Un primo particolare che – anche se discreto – ci ha dato un forte segnale della dimensione che pervade il contesto agricolo dell’Agro Pontino, e le vite di molti di quegli uomini punjabi che avevamo accanto.

Spesso sfiniti da orari e condizioni di lavoro disumane, gli operai agricoli che lavorano nel Pontino fanno uso di oppiacei per sopportare il dolore fisico e la stanchezza. Ma il rischio di diventare dipendenti da queste sostanze è elevato, e come ci ha spiegato Omizzolo, può essere “l’inizio di una spirale di alienazione e sfruttamento che spesso li porta ad essere esclusi e rifiutati dalle loro stesse comunità”, aggravando così la fragilità e la vulnerabilità in cui già si trovavano.

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Omizzolo è anche l’autore di Sotto Padrone (Feltrinelli, 2019) 7, guida imprescindibile per orientarsi nella geografia e nell’antropologia dell’Agro Pontino. Nel testo, per descrivere questa situazione estremamente delicata – soprattutto dal punto di vista simbolico – Omizzolo propone come termine più corretto “anche sotto il profilo sociologico” il termine doping. Una forma di doping vissuta con vergogna e praticata di nascosto perché contraria alla propria religione, alla propria cultura, e proibita dalla propria comunità.

Non sono tossicodipendenti tipici“, ha affermato Ezio Matacchioni, neurologo presso il dipartimento di trattamento delle dipendenze a Latina. “Questi utenti non cercano euforia o piacere, prendono droghe per sopportare la tensione”.

Secondo Omizzolo, queste persone hanno accesso a sostanze stupefacenti grazie alle stesse reti di reclutamento e sfruttamento lavorativo da cui accedono al mercato agricolo. Reti che si intrecciano con le organizzazioni criminali che si trovano nel territorio, e che costruiscono un ambiente lavorativo in cui la criminalità è sullo sfondo, e in cui la vendita di sostanze illegali o controllate è solo un altro componente per incrementare il profitto.

Per farci un’idea più chiara, la mattina seguente abbiamo visitato il Residence Bella Farnia Mare, un compound di piccole abitazioni e condomini a uno o due piani che ospita più di mille punjabi, e che nonostante le chiare differenze, è stato paragonato ai grandi ghetti del Sud Italia per la sua rilevanza all’interno del territorio, e per la presenza di attività illecite e abusi edilizi al suo interno8.

Durante la nostra prima visita al Residence una delle prime persone con cui abbiamo parlato era un uomo di mezza età che lavorava nel minimarket. Aveva una camicia a righe azzurra e bianca, un turbante nero, e una folta barba dello stesso colore ordinatamente intrecciata sotto il mento. Ci ha raccontato di essere il proprietario di uno dei minimarket nel piazzale al centro della comunità.

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Ci ha spiegato di essere in Italia da varie decine di anni, di avere una famiglia che vive con lui, e di essere il proprietario di due alimentari: uno per italiani situato lungo la Litoranea, e uno per punjabi nel Residence. Due ambienti molto diversi, il primo identico a un qualsiasi alimentari di paese, con il classico bancone di vetro con salumi, formaggi ed i prodotti della cucina locale; il secondo, un vero e proprio minimarket con l’aspetto di un supermercato in miniatura, e una gamma di prodotti provenienti dal subcontinente indiano.

Una volta che aveva capito quello eravamo venuti a fare a Bella Farnia, ci ha raccontato che la comunità punjabi è ormai ben inserita nel territorio, e che anche a livello istituzionale c’è un forte dialogo; tanto che il giorno prima era stato ad un incontro tra le autorità italiane e quelle punjabi.

Ci ha raccontato come molte persone, per via del Covid-19 sono rimaste bloccate in India, e che questo ha creato una mancanza di manodopera. Affrontando il tema dello sfruttamento lavorativo, pur riconoscendone l’esistenza e la gravità, sembrava voler proporre una narrazione in cui i punjabi non erano uomini soli e isolati che vivevano e lavoravano in condizioni disumane, ma membri di famiglie e artefici di un’esistenza parallela e paragonabile alle loro controparti italiane.

Con i suoi discorsi, ci proponeva una realtà caratterizzata da legittimità, e da esempi positivi di integrazione. Era chiaro che non eravamo i primi a fargli questo tipo di domande, ed aveva avuto tutto il tempo di sviluppare una sua narrazione del fenomeno.

La sera, siamo tornati nello stesso piazzale al centro del Residence per avere un’idea di com’era vissuto lo spazio quando le persone tornavano da lavoro, e si allentava la presa del caldo torrido di Ferragosto.

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Vicino a uno degli ingressi, un gruppo di bambini tra i 6 e i 18 anni giocavano in un campo da calcio che sembrava resistere con difficoltà al passare del tempo e all’assedio della vegetazione circostante. Intorno al campo, alcuni gruppetti di persone che rimanevano nel parcheggio o nelle piccole aree sotto gli alberi che circondavano il Residence, chiacchieravano, ascoltavano musica e osservavano la partita.
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Intorno allo slargo di ghiaia al centro del Residence su cui si affacciano due minimarket e alcuni cortili dei condomini, piccoli nuclei di persone parlavano e si preparavano la cena all’aperto. Ogni tanto, uno o due uomini attraversavano la piazzetta per poi uscire da uno dei minimarket con qualche bottiglia di alcool.

Tentando di parlare con le persone che ci passavano vicino, ci siamo resi conto che, come ci aveva anticipato Omizzolo, la lingua ci isolava. Molte delle persone che avevamo attorno non parlavano italiano, o lo capivano a stento. Gli unici residenti che sembravano parlare con noi senza problemi erano i giovani che erano passati poco prima in una macchina di lusso con la musica alta, i bambini nel campo di calcio, o le persone lì da anni, come il proprietario del minimarket e dell’alimentari.

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Il giorno successivo, visitando il luogo di culto della comunità sikh di Bella Farnia, un operaio agricolo che lavorava nel campo lì accanto, vedendoci curiosare, si è avvicinato per informarsi sul perché della nostra presenza. La difficoltà di comunicare è immediatamente divenuta palese, e mentre noi spiegavamo che eravamo lì per vedere il tempio, lui ci spiegava – quasi difendendosi – che era lì solo per lavorare.

Poco prima di arrivare al tempio Sikh, avevamo incontrato al lato di un bar nascosto nei campi un rappresentante del M5S lì per raccogliere firme, che ci ha raccontato quello che sapeva del settore agricolo locale. Era stato lui infatti a indicarci la posizione del tempio, e conoscendo il territorio ci spiegava a grandi linee come il Movimento 5 Stelle stava agendo nei confronti del caporalato e dello sfruttamento lavorativo.

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Adesso con il Covid è stato molto difficile coordinare azioni sul territorio” ci raccontava, “ma la situazione ormai è la stessa da anni, i pad… mmm.. datori di lavoro spesso si approfittano dei braccianti che non sono ben informati sui loro diritti, e la situazione rimane sempre la stessa”.

Come ci aveva anticipato Omizzolo, le caratteristiche del settore agricolo italiano possono essere osservate a partire dal linguaggio che viene usato. Il caporalato, ovvero il reclutamento e l’organizzazione della mano d’opera ai fini di sfruttamento, esiste all’interno di un contesto lavorativo e culturale in cui le relazioni di potere sono drasticamente sbilanciate, al punto che un datore di lavoro diventa un padrone.

Il lapsus di questo militante cinquestelle, ed il fatto che nel contesto agricolo molti fanno ancora riferimento ai datori di lavoro come padroni, è stato un chiaro esempio di come il linguaggio descrive accuratamente la situazione da cui emerge, e di come è difficile emancipare il settore locale da una tradizione di reclutamento e sfruttamento della manodopera che lo ha caratterizzato sin dalle bonifiche degli anni ‘30.

In luce di questo linguaggio che racconta una dicotomia di potere violenta, il rapporto tra datore di lavoro e operaio viene calcificato e normalizzato in una relazione di lavoro illecita in cui i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici vengono calpestati e ignorati. Il settore agricolo rimane quindi in una zona grigia che favorisce il mercato del lavoro irregolare per massimizzare il profitto; un settore in cui i datori di lavoro hanno un’influenza sproporzionata sulle vite dei lavoratori, e da cui è molto difficile emanciparsi.

Relegati alla periferia dell’economia e della società italiana dal quadro legislativo sulla migrazione, che criminalizza sistematicamente gli spostamenti internazionali di alcune persone in base alla loro nazionalità e disponibilità di denaro 9, le donne e gli uomini che lavorano nel settore agricolo, vivono un contesto alienato e parallelo, quasi invisibile.

L’accesso alle strutture di protezione dei loro diritti è difficile, se non impossibile, ed è estremamente complicato trarre beneficio dai servizi e dalle opportunità che sono altrimenti disponibili a chi ha una nazionalità europea, o un conto bancario che gli permette di evadere il razzismo che caratterizza il quadro legislativo europeo sulla migrazione.

Tuttavia, come ci ha ricordato Omizzolo, e come le nostre conversazioni a Bella Farnia ci hanno confermato, sta emergendo una coscienza delle problematiche sia all’interno delle comunità di persone che lavorano nel settore agricolo, sia nel contesto sociale circostante.

Le comunità di punjabi che vivono nel territorio di Bella Farnia sono dei gruppi complessi, che con il tempo si sono stratificati all’interno del contesto locale. Gli abitanti del Residence di Bella Farnia Mare sono operai agricoli che parlano italiano a stento, ma sono anche commercianti benestanti, o adolescenti che vivono un’identità ibrida e che parlano italiano con l’accento pontino.

Molti, come l’esponente M5S e alcune delle persone che vivono e lavorano nel territorio, cominciano a usare intenzionalmente la dicitura “datore di lavoro” invece di “padrone”, e anche se c’è la necessità di un cambiamento profondo e radicale, l’uso di quest’allocuzione indica una prima presa di coscienza significativa.

Ogni giorno, nei campi dell’Agro Pontino, migliaia di persone lavorano in condizioni degradanti e nocive alla loro salute fisica e mentale. Gli operai agricoli continuano a presentarsi nei campi all’alba, per svolgere un lavoro che sanno essere sottopagato, ma che sembra essere la sola soluzione vista la quasi impossibilità di trovare un impiego regolare.

L’opinione pubblica, però, si accorge dell’esistenza del bracciantato agricolo solo quando la violenza dei campi si manifesta nei media con immagini di condizioni di vita e di lavoro disumane, o con manifestazioni di migliaia di braccianti che inondano le piazze. Cosí, le file di vacanzieri che tornano dalla spiaggia, si accorgono – solo per qualche istante – degli operai agricoli chini nei campi, o di quelli che gli passano accanto in bicicletta lungo la Litoranea.

Le azioni politiche per favorire il rafforzamento di un mercato agricolo equo che non si basi più sullo sfruttamento continuano ad essere insufficienti. Contrastano superficialmente solo i sintomi, e non affrontano mai alla radice i veri problemi; rimanendo immobili nei confronti delle cause di questo degrado socioeconomico.

Il quadro legislativo sulla migrazione, intrecciato con la tirannia capitalistica del profitto, della grande distribuzione organizzata e delle aste al massimo ribasso10, continuano a favorire le condizioni per un mercato gestito dalle agromafie, in cui il caporalato e lo sfruttamento lavorativo sono all’ordine del giorno; non permettendo lo spazio necessario per la costruzione di un’economia del lavoro agricolo che rispetti i diritti umani dei lavoratori e delle lavoratrici.

Documenti allegati

  1. Intervento al convegno: La Transumanza nel Lazio Meridionale. Confronti peninsulari, a cura dell’ISALM, Istituto Editoria e di Arte del Lazio Meridionale, Anagni, 29 novembre-1 dicembre 2019.
    di Massimiliano Lanzidei, Antonio Pennacchi
  2. E.g. Gizzi, Gipto, Gizio, D’Egitto, Cingano, Cingaro, Zingaro, Zingarini, Zingaretti, Colazingari, Zingarelli, ma anche patronimici come Di Silvio, Di Rosa, Di Saverio, Di Stefano
  3. https://temi.camera.it/leg17/post/OCD25-272.html?tema=temi/nuovi_reati_d
  4. https://www.editorialedomani.it/fatti/blog-mafie-grande-distribuzione-alimentare-traffici-ndrangheta-kifrye6q
  5. https://www.latinatoday.it/cronaca/caporalato-marco-vaccaro-fai-cisl.html
  6. https://espresso.repubblica.it/attualita/2016/05/24/news/braccianti-sikh-ispezioni-dei-carabinieri-alla-cooperativa-centro-lazio-1.267236?ref=HEF_RULLO
  7. La scheda del libro
  8. https://www.latinapress.it/provincia/il-residence-bella-farnia-mare-e-diventato-un-ghetto-la-denuncia-del-comitato-dei-cittadini-foto/
  9. https://www.schengenvisas.com/schengen-visa-application-requirements/ | https://www.schengenvisainfo.com/who-needs-schengen-visa/
  10. https://www.internazionale.it/notizie/fabio-ciconte/2020/03/30/coronavirus-discount-cibo-ribasso

Leone Palmeri

Sono un antropologo basato in centro Italia, specializzato in diritti umani agricoltura e migrazione, con esperienze in organizzazioni internazionali, le nazioni unite e con organizzazioni non governative locali che lavorano sulle intersezioni tra migrazione ambientalismo ed agricoltura. Sono madrelingua inglese ed italiano, amo viaggiare, e nel mio tempo libero scrivo articoli sui contesti migratori che mi circondano.

Raffaello Rossini

Antropologo e registra dei documentari "La Merce Siamo Noi", "Across" e "You//Spring" prodotti in collaborazione con Borders of Borders e Pettirouge Prod.