Diceva Piero Calamandrei nel 1955 in una celebre lezione a Milano,”la Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile”.
Oggi sembra che quel combustibile sia diventato introvabile ed attraverso le modifiche alla seconda parte del testo costituzionale si attaccano le garanzie fondamentali della persona, e quindi dello stato democratico, previste nella prima parte.
Malgrado sia passato oltre mezzo secolo dal discorso di Calamandrei, che attaccava “l’indifferentismo”, e malgrado la Corte Costituzionale abbia cercato a varie riprese di difendere la Costituzione dagli attacchi di un legislatore sempre più insofferente ai principi enunciati dalla nostra Carta fondamentale, quelle parole sono ancora attuali. L’attacco frontale che si sta portando al diritto al lavoro ed al principio di parità, non solo formale ma sostanziale, e poi ad altri principi fondamentali come quelli posti a presidio della libertà personale ( art.13), della libertà di riunione (art. 17), della libertà d’opinione ( art. 21), del diritto di difesa ( art.24), del principio di legalità ( art.25), della funzione rieducativa delle pene ( art. 27), mette in discussione le fondamenta dello stato di diritto. Sembra a rischio persino il principio di divisione dei poteri e la indipendenza della magistratura, ( artt. 101 e 104), mentre la reiterazione delle dichiarazioni di stato di emergenza, connesse a problemi di ordine pubblico, quando non mascherano la necessità di procedure senza controllo per l’affidamento degli appalti, stanno alimentando una pericolosa deriva autoritaria, anche all’interno delle forze di polizia, con una proliferazione di interventi repressivi, e quindi di processi, nei confronti delle più disparate categorie di soggetti marginali, come gli immigrati, i tossicodipendenti, gli homeless, i writers, di recente anche coloro che vengono definiti come “antagonisti”. I tempi dei processi si dilatano per alcuni e tendono a contrarsi, fino alla negazione dei diritti di difesa e della presunzione di innocenza, per altri. La prescrizione opera a senso unico, sempre a favore dei più forti.
I diversi pacchetti sicurezza approvati dal Parlamento a partire dal 2008 hanno profondamente stravolto il codice penale ed il codice di procedura penale, introducendo un “diritto speciale” ed un “processo diseguale”, che valgono soltanto per talune categorie di persone, magari per quello che sono, non per quello che hanno fatto.
La Costituzione rischia così di diventare solo un “pezzo di carta” che viene abbandonato nel vuoto della retorica, come vengono lasciati cadere nel nulla gli istituti che garantivano solidarietà sociale e partecipazione politica. Tutto avviene nella indifferenza di quella pseudo-maggioranza “soddisfatta” che persegue solo l’arricchimento personale ed ha perduto il senso della storia e la dignità dell’appartenenza ad una comunità nazionale. Che si rifugia nell’egoismo sociale del consumo e nella difesa dell’identità e del territorio dal paventato attacco di nemici esterni, che riesce a restare indifferente di fronte alle tante guerre non dichiarate, all’interno ed all’esterno del nostro paese, e trova persino “normale”, o comunque giustificabile, il ritorno della tortura,di trattamenti inumani o degradanti, e di pratiche amministrative degne di uno stato di polizia. Difendere i diritti dei migranti e degli “ultimi” è come rimettere combustibile nella “macchina” della Costituzione perché se la “nave” dei diritti affonda, non vi saranno superstiti, ma solo sudditi o proscritti, e sarà la fine della democrazia, di quella democrazia che, dopo la Resistenza al fascismo, i costituenti seppero tracciare nella Carta del 1948, e che non si è ancora compiutamente realizzata, dagli anni della strategia della tensione e delle stragi di stato, fino all’avvento del populismo autoritario di Berlusconi.
I processi che si svolgono a carico dei migranti, e di recente anche contro chi si schiera dalla loro parte, nei centri di detenzione, contro chi li salva o li difende quando vengono arrestati, di fronte al rischio di espulsioni arbitrarie o di un respingimento collettivo, vietato dalle Convenzioni internazionali ma praticato dalle autorità militari italiane, confermano sempre più spesso come il “diritto speciale” dei migranti, un diritto spurio, penale ed amministrativo, ormai si vada estendendo anche nei confronti dei cittadini che dissentono, che si indignano, che denunciano, che riportano notizie altrimenti destinate alla censura, come quelle che provengono dai centri di identificazione ed espulsione (CIE).
La “cattiveria”, annunciata orgogliosamente come metodo di governo nei confronti dei migranti, si estende sempre di più verso le fasce socialmente più deboli e le aree di opposizione sociale, e presto a farne le spese saranno gli studenti condannati alla dequalificazione della scuola e dell’università pubblica, i lavoratori, privati delle tutele dello Statuto dei lavoratori del 1970, ed anche, sempre più spesso, del posto di lavoro, gli anziani ed i pensionati abbandonati alle assicurazioni private ed alle logiche perverse del mercato della sanità.
Alla “cattiveria” di governo corrisponde la giustizia negata per anni a quanti si rivolgevano ai giudici per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi, come è successo dopo i fatti della Diaz e di Bolzaneto, a Genova nel 2001, ma anche con le diverse forme di giustizia “lampo”, come i processi per direttissima nei confronti degli immigrati irregolari e le convalide dei trattenimenti nei centri di identificazione ed espulsione, definite “cartacee” (in quanto non garantiscono neppure il contraddittorio) persino da una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 4544 del 24 febbraio scorso), una sentenza che scopre soltanto la punta dell’iceberg, imponendo la presenza effettiva di un difensore e dello stesso immigrato quando, all’interno dei CIE, si tratta di convalidare i provvedimenti del Questore, di proroga dello stato di detenzione amministrativa dopo i primi sessanta giorni. Una sentenza che nella maggior parte di CIE italiani viene ignorata ancora oggi. E rimane la anomalia di un giudizio che riguarda la libertà personale e che viene demandato alla competenza del giudice di pace, un giudice che non offre le stesse garanzie di indipendenza degli altri giudici togati, con una limitata possibilità di ricorso, soltanto in Cassazione, una eventualità assai remota, considerando che le misure di allontanamento forzato possono essere eseguite dalla polizia anche in pendenza del ricorso giurisdizionale e dell’eventuale ricorso. Ma su questi aspetti la Corte Costituzionale, dopo la “storica” sentenza n.105 del 2001, oggi tace.
Forse una presa d’atto dello strapotere della politica, e dunque del legislatore, che nel 2004 giunse a “sterilizzare” con una “leggina” l’intervento della Corte che aveva sancito come incostituzionali le norme portanti della legge Bossi-Fini.
Si assiste così ad una enorme dilatazione dei poteri della polizia che sembrano andare ben oltre i rigidi limiti dell’art. 13 della nostra Costituzione, una norma che andrebbe diffusa per interno tra gli operatori, all’interno delle carceri e dei centri di detenzione anche nella parte che vieta “ ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. E si vorrebbe ancora andare oltre, affidando alla polizia nuovi compiti di indagine, sottraendo le prime fasi del procedimento penale al controllo ed alla direzione dei magistrati. In questo modo i giudici si potranno pronunciare solo sulle notizie di reato che la polizia deciderà di portare a conoscenza del magistrato. Dopo i casi di Federico Aldovrandi, di Stefano Cucchi e di Giuseppe Uva, e di tanti altri meno noti, o rimasti nascosti, una sorta di garanzia di impunità per tutti gli abusi commessi dalle forze di polizia dopo gli arresti,o nelle prime fasi delle indagini preliminari.
Nel caso degli immigrati queste modifiche legislative potranno solo accrescere il numero delle persone che subiscono violenze, e molte di queste saranno immigrati trattenuti nei centri di detenzione, come lo erano i “ribelli di Lampedusa”, il 18 febbraio 2009, i fuggitivi di Caltanissetta, nell’ottobre dello stesso anno, ed ancora come Said Stati pestato all’interno del Centro di Identificazione ed Espulsione di Gradisca d’Isonzo (Gorizia) nella notte fra il 28 e il 29 dicembre 2009, esattamente dieci anni dopo la strage del Vulpitta a Trapani, o come quelle donne che sono private persino del diritto di presentare una denuncia, o come nei casi recentemente verificatisi nel Cie di Milano, in via Corelli e a Roma, a Ponte Galeria. Abusi e violenze senza processo, o con processi tanto brevi da non garantire neppure i diritti di difesa. Non si tratta di episodi isolati, non ci sono “mele marce”, ma appare ormai sempre più evidente un sistema violento di detenzione amministrativa, si potrebbe dire una “violenza di sistema”, che si basa propria sulla impunità garantita dall’assenza nel nostro ordinamento del reato di tortura, da una legislazione che dilata enormemente la discrezionalità di polizia e dalla durata infinita del processo che rischiano gli autori degli abusi, che in questi casi è facile pilotare verso la prescrizione. Mentre arriva sempre tempestiva la contro-denuncia e la condanna per calunnia o diffamazione.
Oltre il processo troppo lungo, che diventa adesso “breve”, almeno nel disegno di legge in approvazione da parte del Parlamento, il processo brevissimo, addirittura lampo, con espulsione immediata, per gli immigrati. Processi che malgrado la loro brevità rischiano di ingolfare comunque la macchina della giustizia, e soprattutto le carceri, anche per le norme sulla recidiva e la incidenza della cd. aggravante di clandestinità, che neppure la Corte Costituzionale ha saputo respingere, malgrado la evidente violazione dell’art. 3 della Costituzione.
Ancora una volta le esigenze degli imprenditori della sicurezza e dei loro adepti contro la dignità della persona ed i diritti fondamentali dell’uomo, un fronte ancora aperto sul quale non basta formulare teorie astratte, ma occorre una presenza fisica assidua, una vera e propria interposizione, per difendere i diritti dei più deboli.
I margini di discrezionalità consentiti alle questure nella valutazione del cd.”accordo di integrazione” con il quale i migranti dovranno confrontarsi per mantenere i loro permessi di soggiorno, la moltiplicazione “annunciata” dei centri di detenzione amministrativa, ancora dieci, sembra, da aprire in diverse regioni, ed i vastissimi poteri offerti ai sindaci nella repressione del “disordine urbano”, devono costituire occasioni di presenza e di intervento accanto ai migranti ed alle loro associazioni, a partire dai territori dove i conflitti si accendono più aspri. Purtroppo nel silenzio di quelle forze di opposizione che per troppo tempo hanno assecondato le politiche securitarie della destra fino a restarne vittima.
Mentre si va profilando un nuovo ordine sociale basato sulla “differenziazione” degli esseri umani e sulla esclusione, premessa per le forme più diverse di sfruttamento, con una particolare condizione di subordinazione ancora inflitta alle donne, occorre ripartire dalla difesa dei diritti fondamentali, delle tutele sul lavoro, dei diritti sociali, ed avere il coraggio di praticare strade anche impervie, attraverso passaggi giurisdizionali nelle quali il legislatore (l’arbitro) muta continuamente le regole del gioco, tendendo ad avvantaggiare sempre il più forte. Ma proprio per questa ragione occorre collegare la difesa dei diritti delle persone nel processo ( breve, o “lampo” che sia) con la difesa delle persone fuori dal processo, e quindi con le realtà associative e con la informazione su quanto avviene all’interno delle aule giudiziarie come nei luoghi di detenzione. Va anche promossa una formazione indipendente, libera, che difenda il senso critico e la capacità di autodeterminazione dei futuri ceti professionali, altrimenti condannati al conformismo ed all’autocensura.
Se non si riuscirà a ottenere, a livello legislativo o nella prassi amministrativa, il ridimensionamento dei reati legati al soggiorno irregolare, il contenimento dei casi di arresto e di esecuzione penale, con prospettive credibili di regolarizzazione e con un maggiore ricorso alle misure alternative, se non si riuscirà ad ottenere un trattamento più umano dei detenuti, siano immigrati o cittadini, ipotesi che sembrano escluse con l’attuale maggioranza di governo, soltanto la capacità di inserirsi nelle situazioni di conflitto, schierandosi dalla parte dei più deboli, potrà contribuire a rimettere in discussione un sistema che, altrimenti, produrrà un disastro sociale dalle conseguenze ancora incalcolabili.