Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
PH: Mara Fella (Protesta al CPR di Gradisca)
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Il Decreto Cutro e il potenziamento dei Centri di Permanenza per i Rimpatri (CPR)

L'inefficacia economica e politica dei CPR e le sistematiche violazioni dei diritti umani attraverso la detenzione ingiustificata

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I CPR hanno legittimato per anni feroci violazioni sistematiche dei diritti delle persone migranti attraverso la detenzione ingiustificata. Le soluzioni proposte non riescono ancora oggi a garantire una permanenza che non si traduca in una reclusione senza reato.

  1. La normativa dei CPR e le sue implicazioni politiche ed economiche
  2. Le condizioni di detenzione nei CPR da una prospettiva dei diritti umani
  3. Un’analisi comparativa con Regno Unito e Grecia

La normativa dei CPR e le sue implicazioni politiche ed economiche

Il 26 febbraio 2023 si consumava un terribile naufragio presso la riva del litorale di Steccato di Cutro, in provincia di Crotone, che condannava la vita di 91 persone migranti in cerca di asilo verso le coste italiane. Ancora una volta, il mancato intervento da parte delle autorità portuali e le strette legislative sono divenute la causa principale della continua mal gestione dei flussi migratori.

In risposta, il Governo Meloni interveniva sul tema dell’immigrazione irregolare istituendo un Consiglio dei Ministri speciale svoltosi nel luogo della tragedia, a Cutro, con la successiva emanazione dell’ennesimo decreto legge, ossia il decreto legge n. 20 del 2023, c.d. “Decreto Cutro“. Tale Decreto è stato successivamente convertito in Legge del 5 maggio 2023, n. 50, e pubblicato in Gazzetta ufficiale con significative modifiche rispetto alla prima stesura (Gazzetta Ufficiale del 5 maggio 2023, n.104).

Attraverso questa normativa, il Parlamento decideva di disincentivare gli arrivi di migranti irregolari attraverso le rotte degli scafisti, condannando tuttavia milioni di soggetti alla reclusione legittima. In particolare, l’articolo 10 del dibattuto ‘Decreto Cutro’ ha stabilito il potenziamento dei Centri di permanenza per i rimpatri (CPR) all’interno del Capo II relativo alle disposizioni in materia di prevenzione e contrasto all’immigrazione irregolare.

Tali centri non sono strutture di accoglienza, ma luoghi di trattenimento del cittadino straniero in attesa di esecuzione di provvedimenti di espulsione a seguito di un ordine di rimpatrio 1. Presenti ormai da 25 anni in Italia, sono stati regolarizzati nel corso del tempo da varie disposizioni legislative nazionali che hanno previsto la loro funzionalità seppur con diversa nomenclatura. Introdotti nel 1995 con il Decreto-legge Dini (art. 10 c.5, Dl 18 novembre 1995, n. 489), tali strutture sono divenute realtà con la Legge Turco – Napolitano che prevedeva l’istituzione dei c.d. ‘Centri di permanenza temporanea’ (CPT) e la detenzione dei migranti irregolari per un arco temporale massimo di 30 giorni.

Dalla loro costituzione i centri di detenzione in Italia sono stati motivo di dibattito tra forze politiche, attivisti in tema di diritti umani e giuristi esperti in tema di immigrazione. Nel 2002, i CPT hanno preso la denominazione di ‘Centri di identificazione ed espulsione’ (CIE) con la legge Bossi-Fini che aveva esteso il periodo di permanenza da 30 a 60 giorni, prolungato a 180 giorni dal quarto governo Berlusconi. Nel 2017, il Governo Gentiloni, ministro dell’interno Marco Minniti, aveva potenziato la capienza dei CIE che sino a quel momento potevano ospitare 400 persone. Da ultimo, la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese aveva ridotto nuovamente il periodo di detenzione da 6 a 3 mesi. 

Risulta dunque evidente che l’intento principale di questo istituto non è mai mutato a prescindere dal nome. Difatti, sia gli attuali CPR, che i CPT e i CIE hanno avuto lo stesso scopo giuridico, ossia quello di trattenere i soggetti sprovvisti di un titolo di soggiorno valido in attesa di rimpatrio, identificandoli e successivamente deportandoli dal territorio italiano presso il Paese terzo di origine. Tale pratica si è tradotta nella reclusione di migliaia di soggetti in condizioni deprivanti con implicazioni economiche e politiche fallimentari per l’Italia.

Immagine tratta dal rapporto “L’affar€ CPR” curato dal CILD

Ad oggi, i CPR sono disciplinati dal Decreto Legislativo n. 286/1998, c.d. “Testo Unico dell’Immigrazione” e dal DPR n. 394/99. I centri presenti in Italia sono pari a dieci ed ubicati a Bari, Brindisi, Caltanissetta, Gradisca d’Isonzo (Gorizia), Macomer (Nuoro), Milano, Palazzo San Gervasio (Potenza), Ponte Galeria -Roma, Torino e Trapani. Si parla, tuttavia, di centri di detenzione amministrativa in quanto il Codice penale italiano non prevede la pena della reclusione per il reato di soggiorno irregolare sul territorio italiano. In particolare, la Corte di Giustizia dell’Unione europea, con sentenza del 28 aprile 2011, ha stabilito la non conformità della reclusione per i cittadini di Paesi terzi in soggiorno irregolare.

Tali soggetti vengono dunque condannati alla reclusione amministrativa a seguito di convalida da parte del giudice di pace. Tale approccio ha avuto e continua ad avere conseguenze pratiche devastanti per la tutela delle persone migranti privando loro delle condizioni minime di detenzione sancite nel codice penitenziario e previste in altre strutture detentive. Difatti, i CPR sono stati da sempre concepiti come centri di permanenza temporanea che dovrebbero trattenere i migranti detenuti per un arco temporale breve, e di conseguenza, sprovvisti di percorsi educativi e ricreativi idonei.

Nel 2021, i soggetti effettivamente rimpatriati risultavano pari al 49,70% del numero di migranti transitati nei CPR 2. L’Italia ha concluso diversi accordi con Paesi terzi ai fini del rimpatrio, classificandoli come trattati internazionali in tema di sicurezza e sottoscritti dalle forze dell’ordine. Tale scelta si è tradotta in una mancata trasparenza sia economica che politica delle politiche di rimpatrio con i Paesi con cui detti accordi sono avvenuti. Negli altri casi, invece, i migranti soggetti ad un’ordinanza di rimpatrio sono stati rifiutati dai Paesi d’origine in quanto sprovvisti di documenti idonei al fine del loro riconoscimento, e successivamente rilasciati sul territorio italiano privi di qualsiasi forma di tutela.

Ciononostante, la legge di bilancio del 2023 ha previsto 5,39 milioni di euro per il loro potenziamentoal fine di assicurare la più efficace esecuzione dei decreti di espulsione dello straniero3. Tale incremento aggraverebbe la situazione attuale in tema di gestione flussi migratori. Difatti, i costi di detenzione e manutenzione non raggiungono il fine voluto ma peggiorano le condizioni di vita dei detenuti. Sarebbe dunque necessario trovare un’alternativa ai CPR.

Le condizioni di detenzione nei CPR da una prospettiva dei diritti umani

Nel luglio 2021, la Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili (CILD) ha concluso un rapporto fondamentale riguardo le condizioni di detenzione dei migranti all’interno dei CPR intitolato “Buchi neri. La detenzione senza reato nei Centri di Permanenza per i Rimpatri (CPR)4. In particolare, il quarto capitolo ha analizzato le tutela dei diritti umani dei migranti detenuti nei CPR, con riguardo al diritto alla salute, al diritto di difesa e di informazione, ai diritti alle relazioni affettive e alla comunicazione.

Il diritto alla salute è elevato al rango costituzionale così come sancito dall’art. 32 della Costituzione ed altresì espressamente previsto dall’art. 35, comma 4, del d.lgs. n. 286/1998. Nello specifico, tale diritto non subisce limitazione perfino in casi di detenzione amministrative e viene garantito anche ai cittadini di Paesi terzi o apolidi privi di risorse economiche e non iscritti al Sistema Sanitario Nazionale (SSN).

Ad oggi, il sistema sanitario interno ai CPR venga gestito da enti privati. A seguito di accordi d’intesa fra Prefettura e SSN, i medici del SSN devono necessariamente eseguire uno screening iniziale delle condizioni psicofisiche del soggetto per verificare l’idoneità ad essere trattenuto in queste strutture. Tuttavia, il personale medico sanitario è stato ridotto notevolmente negli ultimi anni, con la presenza alquanto irrilevante del personale necessario quali medici, infermieri e psicologi.

Con riguardo al diritto di informazione, varie disposizioni legislative europee e nazionali stabiliscono il diritto ad un’adeguata informazione al momento di ingresso nelle strutture. L’art. 2 del d.lgs. n. 286/1998 sancisce espressamente il diritto di informazione allo straniero da parte dell’ente gestore coadiuvato dal mediatore linguistico-culturale con riguardo alle condizioni di trattenimento, ai diritti e doveri dello straniero all’interno della struttura 5. Tuttavia, gli schemi di capitolo predisposti dal Ministero degli interni per il diritto di informazione normativa hanno dimostrato un calo drastico di queste attività precludendo una piena tutela all’interno dei CPR.

Il diritto di difesa viene ricondotto, invece, al diritto ad avere colloqui difensivi all’interno dei CPR in vista dell’eventuale udienza di convalida del trattenimento. L’art. 7 del d.lgs. n. 286/1998 stabilisce espressamente l’onere per l’ente gestore di verificare la nomina di parte del difensore o l’eventuale nomina di un difensore d’ufficio. Ciononostante, il Rapporto del CILD ha evidenziato come “non esistono procedure ad hoc relative alla possibilità di denunciare la violazione dei diritti all’interno dei Centri, in modo analogo a quanto previsto dall’ordinamento penitenziario per i detenuti dove esiste una procedura giurisdizionale innanzi ad un giudice specializzato (magistrato di sorveglianza)”.

Di conseguenza, le condizioni di detenzione in cui vertono i migranti trattenuti nei CPR potrebbero tradursi in violazione delle norme in tema di diritti umani, quali in particolare i diritti sanciti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU). In particolare, l’articolo 5 sancisce il diritto alla libertà e sicurezza, consentendo la restrizione al diritto alla libertà al para. 1, lett. f. “nei modi previsti dalla legge” qualora si tratti dell’arresto o della detenzione di un soggetto che soggiorna irregolarmente nel territorio di uno Stato contraente o soggetto ad un ordine di espulsione o estradizione.

La Corte di Strasburgo è intervenuta più volte in tema di detenzione amministrativa dei migranti irregolari, cercando di disciplinare i limiti entro cui gli Stati contraenti possano operare senza oltrepassare il loro margine di apprezzamento. Gli Stati devono, infatti, rispettare gli standard minimi di tutela dei diritti sanciti nella Convenzione in quanto la programmazione dei CPR potrebbe essere luogo di violazione dei diritti quali l’art. 3 della CEDU (divieto di tortura), l’art. 5 (diritto alla libertà e sicurezza), l’art. 6 (diritto a un equo processo), l’art. 8 (diritto al rispetto alla vita privata e familiare) e l’art. 13 (diritto a un ricorso effettivo).

Le persone migranti hanno a disposizione due strumenti giurisdizionali esperibili in caso di violazione dei diritti e delle libertà tutelate dalla Convenzione. In primis, il ricorso individuale ai sensi dell’art. 34 CEDU consente ai singoli di ricorrente dinanzi la Corte di Strasburgo denunciando possibili violazioni dello Stato contraente dei diritti sanciti nella Convenzione. Tuttavia, le scarse risorse economiche, la difesa tecnica inefficace e i problemi linguistici aggravano la possibilità effettiva di ricorrere dinanzi alla Corte EDU da parte dei detenuti. Il secondo strumento riguarda le misure provvisorie previste ai sensi dell’art. 39 del Regolamento della Corte, le quali possono essere proposte quando sussistano un rischio imminente di un danno irreparabile a un diritto fondamentale previsto dalla Convenzione.

Tuttavia, sono poche le situazioni in cui le persone migranti ricorrono di loro sponte alla Corte di Strasburgo, rendendo il lavoro delle ONG e degli attivisti in tema di diritti umani fondamentale. Nel 2016, la Grande Camera ha accertato nella celebre sentenza Khlaifia e altri c. Italia la violazione degli artt. 3, 5 e 13 della Convenzione dallo Stato italiano per il trattenimento illegittimo di un gruppo di migranti tunisini a Lampedusa.

Nonostante questa sentenza riguardava il trattenimento nei c.d. “Centri di soccorso e di prima accoglienza” (CSPA), la decisione ha avuto importanti risvolti pratici per la tutela dei diritti umani nei centri di detenzione amministrativa, quali i CPR. In particolare, è stato accertato la violazione dell’art. 13 CEDU, con riferimento all’art. 3 CEDU, a causa dell’assoluta mancanza di alcun organo cui i migranti avrebbero potuto indirizzare doglianze relative alle condizioni del trattenimento. Dunque, anche la Corte ha evidenziato le carenze sistematiche all’interno dei centri di detenzione e le difficoltà riscontrate per esperire i due rimedi giurisdizionali previsti.

Un’analisi comparativa con Regno Unito e Grecia

Il panorama europeo continua ad essere luogo di arrivo per migliaia di migranti in cerca di rifugio. Tuttavia, i centri di detenzione amministrativa sono da sempre una soluzione inadeguata. A tal riguardo, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT) ha avuto un’attenzione prioritaria al trattenimento dei migranti nei vari centri di detenzione amministrativa sparsi per l’Europa. Difatti, il CPT ha sottolineato nello schema tematico del marzo 2017 come “la privazione della libertà in virtù della legislazione relativa agli stranieri dovrebbe essere una misura cui ricorrere unicamente come ‘extrema ratio’, dopo un attento esame di ogni singolo caso6.

Ciononostante, la detenzione di immigrati e richiedenti asilo in Paesi quali Regno Unito e Grecia è da sempre strumento per la gestione dell’immigrazione irregolare, nonché motivo di dibattito a livello europeo. Con riguardo al Regno Unito, l’Home Office gestisce la detenzione amministrativa delle persone migranti al fine del loro riconoscimento dello status di rifugiato. In particolare, il trattenimento presso i centri di detenzione può avvenire a seguito di un’ordinanza di espulsione, per la verifica dell’identità del richiedente asilo o delle ragioni ai fini del riconoscimento, per prevenire il rischio di fuga o per motivi di ordine pubblico.

Ebbene, anche il Regno Unito dispone la detenzione amministrativa quale rimedio extrema ratio in linea con gli standard internazionali ed europei. Negli ultimi dieci anni, questo approccio si è progressivamente evoluto grazie al crescente interesse delle organizzazioni, della società civile, dei media e dell’opinione pubblica. Ad esempio, i procedimenti giudiziari Detention Action hanno portato alla sospensione di Detained Fast Trask nel 2015 e, più recentemente, al rilascio di oltre 350 cittadini stranieri detenuti in una sola settimana durante l’epidemia di Covid-19.

Di conseguenza, sebbene la legge del Regno Unito non prescriva ancora una durata massima per il trattenimento degli immigrati, una combinazione dei suddetti fattori ha determinato una significativa riduzione del ricorso al trattenimento e un aumento del ricorso a misure alternative. Negli ultimi cinque anni il numero di cittadini stranieri detenuti è diminuito di oltre il 40% e anche le recenti risposte all’emergenza Covid-19 riflettono questa tendenza.

Con riguardo alla Grecia, negli ultimi anni sono stati avviati nuovi campi sulle isole definiti dall’organizzazione Medici senza frontiera come “campi-prigione”. Difatti, i Mutli-Purpose Reception & Identification Centre (MPRIC) sono stati costruiti in zone remote della Grecia, circondati da filo spinato e provvisti di sistemi di videosorveglianza e vigilanza.

La Commissaria europea per i diritti umani ha espresso preoccupazione verso l’organizzazione e la gestione di queste strutture, ideate inizialmente come centri di accoglienza e di trattenimento al fine del rimpatrio. Ad oggi, la situazione in Grecia risulta analoga a quella italiana, in cui quasi la metà di tutti i migranti in Grecia (46%) è costretta a rimanere in “centri di detenzione pre-deportazione” per più di sei mesi. 

In particolare, il rapporto “Asilo in Grecia: una chiusura annunciata” pubblicato nel febbraio 2023 dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), insieme a Spazi circolari 7, mostra la drammatica realtà della gestione dei flussi migratori in Grecia. A seguito dei vari sopralluoghi effettuati nel giugno 2022, il rapporto ha evidenziato le difficoltà e gli ostacoli incontrati dai migranti nelle isole di Chios, Samos e Kos nell’accedere alle procedure di protezione internazionale. 

Asgi ha infatti rilevato le difficoltà riscontrate dai migranti trattenuti nei centri di detenzione nell’avviare la procedura per il riconoscimento della protezione internazionale e l’elevato rischio di espulsione. L’unica alternativa per i migranti irregolari al fine di evitare il trattenimento in strutture di detenzione amministrativa risulta, dunque, essere l’autodenuncia alla polizia locale più vicina per ottenere un’autorizzazione a permanere nel territorio per un periodo limitato. A seguito dell’autorizzazione, il soggetto non potrà essere espulso, esportato o arrestato nei successivi 25 giorni, ma dovrà necessariamente lasciare il Paese in autonomia. Durante questo periodo potrà recarsi presso l’Ufficio Regionale Asilo e presentare domanda di protezione internazionale, ma solo se tale intenzione è chiaramente menzionata nel documento.

Risulta, dunque, evidente che l’eventuale superamento degli attuali CPR non servirebbe a risolvere l’illegittimità della detenzione ingiustificata che avverrebbe in successivi istituti detentivi con analoga configurazione ma con diversa nomenclatura. Negli anni sono state proposte varie soluzioni per modificare la struttura giuridica dei CPR, tuttavia senza trovare un approccio in grado di rendere la permanenza dei migranti presso tali strutture in una reclusione senza reato.

A tal riguardo, nel dibattito politico sui CPR sono emersi diversi approcci: un orientamento, che si è allargato ormai a diverse organizzazioni per i diritti umani e reti antirazziste, ne chiede la completa abolizione a causa delle feroci e violente violazioni sistematiche documentate negli anni. Una soluzione “riformista” chiede invece di accorciare molto i tempi di detenzione nei CPR per garantire una migliore gestione, cosa che negli anni scorsi però non ha portato a grossi cambiamenti.

Altri approcci prevedono l’abolizione degli strumenti coercitivi, come la detenzione o l’espulsione immediata, in favore di pratiche che prevedano percorsi di rimpatrio assistito e volontario che coinvolgano direttamente la persona migrante, instaurando una maggiore collaborazione. Attualmente il “rimpatrio volontario assistito” è previsto dalla normativa ma è uno strumento che ha dimostrato molti limiti e poco utilizzato 8.

Tuttavia, ad oggi il Governo si è limitato alla previsione del potenziamento e dell’ampliamento dei CPR, tralasciando l’adozione di politiche quali la riduzione o modifica dei tempi di permanenza, il potenziamento degli accordi con i Paesi di provenienza, la garanzia di maggiore trasparenza di tali accordi, il rafforzamento di procedure idonee per denunciare eventuali condizioni disumane all’interno dei centri.

  1. Art. 14 D.Lgs. 286/1998
  2. Persone transitate presso i Cpr, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale
  3. Legge di bilancio 197/2022, articolo 1 comma 678
  4. Consulta il rapporto
  5. Consulta il regolamento
  6. Scheda tematica del Consiglio d’Europa, 2017
  7. Consulta il rapporto
  8. Dal 2018 al 2021 sono 2.183 le persone che hanno aderito al programma. Fonte: Corte dei Conti

Oriana Balsamo

Sono laureata in Giurisprudenza alla L.U.I.S.S. Guido Carlo, dove ho avuto modo di conseguire un Master in Public International Law. Ho svolto parte della pratica forense presso uno studio specializzato in diritti umani e diritto dell'immigrazione e ho redatto due tesi sul tema.
Mi auguro che il mio contributo possa aiutare a trovare soluzioni pratiche alle problematiche che affliggono il diritto dell’immigrazione, con uno sguardo che vada oltre il semplice manuale di studio.