Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Discriminazione e accesso al pubblico impiego

(Nota a ord. Tribunale di Genova 21.4.2004)

Le pronunce sopra riportate vanno ad implementare un conforme orientamento giurisprudenziale che, pur non risultando sinora contraddetto da pronunce in senso difforme, continua ad essere alquanto rarefatto: infatti, a diversi anni dall’entrata in vigore del T.U. sull’immigrazione, in punto di accesso al pubblico impiego da parte dei lavoratori extracomunitari già legalmente soggiornanti, possiamo annoverare solo le precedenti pronunce del T.A.R. Liguria e della Corte d’Appello di Firenze, pubblicate nella rivista “Diritto immigrazione e cittadinanza” (Ed. Franco Angeli)(1).

Ciò potrebbe far pensare che nella prassi delle pubbliche amministrazioni e degli enti assimilati (I.P.A.B., consorzi di enti locali, aziende speciali) vi sia un diffuso allineamento al principio di parità nell’accesso agli impieghi dei bandi di concorso e di selezione pubblica e delle relative discipline regolamentari; tuttavia, pur essendovi qualche traccia in tal senso(2), sembra piuttosto legittimo il sospetto che continui, viceversa, ad essere fortemente radicata, se non nettamente prevalente, la prassi esclusiva e che essa sia alquanto di rado effettivamente contrastata.
In entrambi i casi di specie, non si è verificata l’esclusione dal concorso ed anzi si dà atto dell’utile collocamento in graduatoria di due candidati “collaboratori professionali sanitari” da parte della stessa ASL n°3 di Genova, salvo poi sospendere l’effettiva assunzione in servizio a fronte della atipica “riserva” di acquisizione (mai verificatasi, nonostante il lungo tempo trascorso) dei pareri richiesti sia al Ministero della Salute che al Dipartimento della Funzione Pubblica-Presidenza del Consiglio dei Ministri. Giustamente, viene rilevato che l’eventuale acquisizione di detti pareri –quale che fosse il loro possibile contenuto – non avrebbe comunque potuto conferire maggiore legalità alla determinazione dell’ente, non essendo prevista dalla legge e dal bando alcuna facoltà sospensiva del diritto all’assunzione. Ma soprattutto, è evidente la contraddizione di tale “riserva” a fronte del già avvenuto collocamento in graduatoria dei ricorrenti, che ad avviso del giudicante integra una discriminazione in re ipsa: in altre parole, poiché l’ammissione al concorso (senza riserva alcuna) ed il collocamento nella graduatoria finale non possono che manifestare per fatti concludenti il riconoscimento del diritto di accesso al pubblico impiego, la successiva sospensione, fra gli aventi diritto all’avviamento, dei soli partecipanti extracomunitari costituisce una discriminazione evidente in forma diretta (oltre che una determinazione contraddittoria ed in quanto tale rilevante sotto il profilo dell’eccesso di potere). Le pronunce in commento non si prestano dunque ad incertezze né in ordine alla prova della discriminazione né, tantomeno, in relazione alle circostanze che l’hanno determinata, essendo pacifico che la condotta contestata configura esattamente la fattispecie di cui all’art.43, comma 2 lett. c), del d.lgs 286/98.

Certo, la questione fondamentale consiste pur sempre nello stabilire se vi sia o meno il diritto dei ricorrenti di ricoprire un impiego pubblico nonostante la cittadinanza extracomunitaria, a fronte di un concorso aperto a tutti i cittadini italiani “salve le equiparazioni stabilite dalle leggi vigenti”.
Al riguardo, il Tribunale di Genova, sottolineando che il requisito della cittadinanza non deve intendersi “necessario per i soggetti equiparati per legge ai cittadini italiani”, ha richiamato gli stessi argomenti fondanti le precedenti pronunce sopra citate, a partire dal principio di piena parità di trattamento e di opportunità di cui all’art.10 della Convenzione O.I.L. n°143/75 e dal suo integrale recepimento nell’art.2 del d.lgs 286/98. La pedissequa applicazione del canone interpretativo dell’art.15 preleggi porta dunque a ritenere abrogata in parte qua la preesistente normativa in materia di accesso agli impieghi pubblici, in quanto contrastante col suddetto principio di parità, che non potrebbe non implicare anche la pari opportunità di accesso agli impieghi alle stesse condizioni dei cittadini.
La generale efficacia abrogativa è peraltro messa in risalto dalla previsione incondizionata della parità di diritti ed ancor più dall’inciso per cui tale equiparazione al cittadino italiano è garantita “salvo che le convenzioni internazionali e il presente testo unico dispongano diversamente”; sicché sembra fuor di dubbio che la previgente normativa in materia di accesso agli impieghi pubblici debba intendersi abrogata nella parte in cui stabiliva in via generale il requisito della cittadinanza italiana o comunitaria.

Nei casi di specie, peraltro, trattandosi di profili professionali infermieristici(3), è stata altresì evidenziata l’applicabilità della norma di cui all’art.27, comma 1, lett.r bis), del T.U., secondo il testo integrato dalla legge 189/2002, che ammette espressamente – e addirittura senza ricorso alle “quote” – l’assunzione di infermieri presso strutture sanitarie pubbliche e private. Il combinato disposto del generale principio di pari opportunità di cui all’art.2 T.U. e di detta puntuale previsione normativa per gli infermieri professionali esclude dunque che si possa immaginare un accesso differenziato per gli extracomunitari, ovvero con contratto di diritto privato anziché mediante concorso, specie in assenza di contrarie disposizioni.
Si deve forse alla puntuale applicabilità della norma citata il mancato approfondimento, nelle pronunce in commento, dell’analisi delle norme da ritenersi abrogate con l’entrata in vigore della legge 6 marzo 1998 n.40, e soprattutto della eventuale sopravvivenza (o sopravvenienza) di norme che ancora potrebbero prescrivere in via generale il requisito della cittadinanza italiana per l’accesso agli impieghi pubblici. Anzi, viene citato proprio il recente d.lgs. 30 marzo 2001 n.165 (norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche) quale norma che confermerebbe espressamente il superamento del limite di cittadinanza: per l’appunto, argomentando a contrariis, si fa riferimento all’art.38, 2°comma, laddove viene riservata ad un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri la facoltà di individuare quei “posti” e quelle “funzioni” per le quali non si può prescindere dal possesso della cittadinanza italiana, deducendo la mancanza di limiti nei casi non espressamente previsti(4). Ma si trascura di considerare che al primo comma viene chiaramente previsto che “i (soli) cittadini dell’Unione Europea possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale”. Il vero significato dell’art.38 del d.lgs 165/2001 appare dunque diametralmente opposto rispetto all’interpretazione proposta dal Tribunale di Genova.
Ciò nonostante, come ha bene evidenziato la Corte d’Appello di Firenze nella pronuncia già citata, si tratta solo apparentemente di una norma “sopravvenuta”, essendo il frutto della mera riproduzione, in sede di attuazione di una delega legislativa, di una norma da ritenersi già abrogata(5).
Una volta chiarito che le norme generali sull’accesso al pubblico impiego sono tutte preesistenti e devono quindi intendersi abrogate dall’art.2 del d.lgs 286/98, resta comunque da valutare se vi siano nel medesimo testo unico disposizioni incompatibili; sotto questo profilo, e sempre a sostegno della tesi della piena parificazione, il Tribunale di Genova richiama l’art.37, che ammette gli extracomunitari già regolarmente soggiornanti all’iscrizione agli Albi professionali “in deroga alle disposizioni che prevedono il requisito della cittadinanza italiana”, mentre subordina le nuove iscrizioni alla disponibilità di “quote” nell’ambito del noto sistema di governo dei flussi migratori.
Peraltro, l’art.47 del regolamento di attuazione di cui al dpr 394/99 attenua tale limitazione prevedendo un incondizionato diritto di iscrizione, a prescindere dalla cittadinanza, per coloro che abbiano conseguito il diploma in Italia, pure riconfermando il divieto per quelle attività professionali che implichino l’esercizio di pubblici poteri e dalle quali sono esclusi anche i comunitari. Quand’anche si ritenesse che in virtù di tale norma permanessero limitazioni alla parità di trattamento(6), si tratterebbe comunque di limitazioni relative, non tanto riferite ai diritti riconosciuti a chi è già regolarmente soggiornante bensì a chi deve ancora fare ingresso, e in ogni caso riferite all’ambito specifico del lavoro professionale e non certo applicabili alla generalità degli impieghi pubblici.

Analoghe considerazioni possono valere per il richiamo dell’art.27, comma 3, secondo il quale “restano ferme le disposizioni che prevedono il possesso della cittadinanza italiana per lo svolgimento di determinate attività”. Secondo il Tribunale di Genova si vuole con tale espressione fare riferimento al d.p.c.m. che esclude anche i comunitari da determinati impieghi pubblici e da ciò si trarrebbe conferma della generale accessibilità al pubblico impiego; secondo altri, invece, il significato della stessa norma sarebbe esattamente opposto, poiché essa dovrebbe interpretarsi nel senso di confermare l’integrale vigenza delle norme che prevedono in generale il possesso della cittadinanza italiana per l’accesso agli impieghi pubblici(7). Lo sforzo interpretativo appare forse superfluo, se si considera che l’art.27 citato detta unicamente le condizioni particolari per l’ingresso dall’estero di particolari tipologie di lavoratori al di fuori delle “quote” e , quindi, non sembra suscettibile di alcuna influenza sullo status giuridico dello straniero già regolarmente soggiornante, essendo peraltro ben noto che il principio di parità di trattamento trova applicazione solo in tale frangente.

In buona sostanza, se da un lato appare evidente la portata abrogativa dell’art.2 d.lgs. 286/98, dall’altro la ricerca di limiti di accesso al pubblico impiego “interni” allo stesso T.U. non sembra offrire solidi spunti in senso contrario; semmai, il riferimento agli impieghi pubblici tassativamente riservati ai cittadini italiani potrebbe essere considerato sotto altro profilo, in relazione alla ratio di tale limite “invalicabile”. E’ noto che l’abolizione del generale divieto di accesso al pubblico impiego per i cittadini comunitari, ed il contestuale mantenimento della preclusione per determinate funzioni, trovano origine nell’esigenza di armonizzazione delle (pari) opportunità di impiego nei diversi paesi dell’Unione Europea; infatti, a fronte delle diverse tradizioni dei Paesi membri in materia di intervento statale nella prestazione di servizi e più in generale nell’economia, è risultato necessario distinguere tra funzioni ontologicamente statali ed attività che, invece, possono essere svolte dagli stati ma ben possono anche essere svolte da soggetti privati o comunque su un piano di parità (e di libera concorrenza) con i privati. Per l’appunto, la definizione normativa della ristretta gamma di impieghi riservati ai cittadini italiani riflette esattamente quelle funzioni che rappresentano la tipica estrinsecazione di interessi tipicamente ed irrinunciabilmente statali, per il cui assolvimento è richiesto quel peculiare vincolo di (presunta) fedeltà rappresentato dallo status civitatis. In altre parole, è incontestato che i cittadini comunitari abbiano diritto di accesso al pubblico impiego e che essi abbiano diritto di non soffrire alcuna discriminazione, nemmeno per esigenze protezionistiche del mercato del lavoro, rispetto ai lavoratori nazionali, fatte salve le sole restrizioni giustificate dall’interesse dello Stato in quanto tale.

Ebbene, la medesima distinzione, tra funzioni ontologicamente statali e funzioni che solo facoltativamente possono essere esercitate dalla Stato, può offrire utili spunti di analisi sotto il profilo del divieto di discriminazione, di cui il principio di parità di trattamento e di opportunità costituisce evidentemente l’altra faccia della stessa medaglia. Ciò non tanto con riferimento alla Direttiva “antidiscriminazione” 2000/43/CE del 29 giugno 2000, che non sembra poter incidere sui rapporti di pubblico impiego(8), quanto piuttosto in base alla Convenzione dell’O.I.L. n.143/75, che invece affronta espressamente l’argomento: infatti, l’art.14 consente agli Stati aderenti, al paragrafo a), di limitare la libera scelta dell’occupazione ad un periodo non superiore ai due anni di residenza legale(9), ma tuttavia consente al paragrafo c) di “respingere l’accesso a limitate categorie di occupazione e di funzioni (solo) qualora tale restrizione sia necessaria nell’interesse dello Stato”.
In altre parole, le restrizioni poste dagli Stati nell’accesso al pubblico impiego per i cittadini di paesi terzi non possono risentire di alcuna esigenza protezionistica del mercato del lavoro (salvo eventuali restrizioni strettamente temporanee che non sono più previste nel nostro ordinamento) ma soltanto della necessità di tutela degli interessi tipicamente statali, alla stessa stregua dei comunitari. Non potrebbe dunque avere fondamento una distinzione tra comunitari e cittadini di paesi terzi sotto il profilo dell’accesso al pubblico impiego, stante che la garanzia di pari trattamento ed opportunità di accesso all’occupazione è definita sostanzialmente in modo identico tanto per gli uni che per gli altri, con l’unico limite dell’esercizio di funzioni tipicamente ed irrinunciabilmente statali. Una diversa interpretazione, che volesse intendere una parità “diversa”, comporterebbe una violazione dell’art.10, comma 2, della Costituzione, in ragione della diretta violazione della citata Convenzione O.I.L., sicché la possibilità di accesso agli impieghi pubblici per gli extracomunitari trova anche e a maggior ragione fondamento nella necessaria interpretazione “costituzionalmente orientata” del T.U.

Merita poi almeno un accenno il fatto che in uno dei due procedimenti in commento sia intervenuta ad adiuvandum un’organizzazione sindacale, e ciò non solo perché si tratta a quanto pare –fatto di per sé apprezzabile – della prima iniziativa processuale proposta da parte sindacale a sostegno delle pari opportunità per i lavoratori extracomunitari, ma anche perché offre lo spunto per riflettere sul possibile utilizzo di un altro specifico rimedio alla discriminazione, ovverosia l’azione diretta delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale, come prevista dall’art.44 comma 10 nei casi di comportamento discriminatorio di carattere collettivo posto in essere dal datore di lavoro. Tale specifica azione –che a distanza di oltre sei anni dall’entrata in vigore della legge n.40/98 non risulta essere mai stata intentata— avrebbe forse potuto essere esperita nei casi di specie, posto che la perfetta identità di trattamento discriminatorio riservato ad almeno due concorrenti all’impiego presso la stessa ASL di Genova poteva ragionevolmente configurare una scelta adottata dall’ente non tanto per singoli individui o casi quanto piuttosto per le persone appartenenti alla categoria degli extracomunitari, quindi una scelta a carattere evidentemente collettivo. Certo, si controverte nel frangente su rapporti di impiego non ancora formalmente instaurati, mancando la c.d. “assunzione in forza” e soprattutto la necessaria stipula del contratto individuale di lavoro; tuttavia, specie se si considera il carattere vincolante dell’utile collocamento in graduatoria ed il correlativo obbligo di dare copertura ai posti messi a concorso –contrariamente a quanto accaduto— mediante “scorrimento” della graduatoria stessa, appare ben difficile negare che la condotta impugnata debba qualificarsi come condotta propria del datore di lavoro.
Infine, non si può fare a meno di rilevare che il Tribunale di Genova ha omesso di pronunciarsi sulla richiesta di risarcimento in via equitativa del danno non patrimoniale, formulata ai sensi dell’art.44, comma 7. Infatti, nel mentre la reiezione della richiesta di risarcimento dei danni patrimoniali trova legittimazione nella totale mancanza di prova da parte dei ricorrenti, non sembra che altrettanto “automaticamente” si potesse disporre in ordine alla richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale, che di per sé, appunto, può essere liquidato in base ad equità e, soprattutto, non va dimostrato ma semplicemente desunto dal giudicante in base alla valutazione della illegittimità della condotta avversata e della verosimile frustrazione che essa può avere arrecato alla personalità dell’interessato.

In definitiva, l’introduzione nel nostro ordinamento dell’azione civile contro la discriminazione, connotata da diversi tratti di specialità, a partire dalla evidente ammissibilità di una giurisdizione e/o di una competenza concorrente in tema di accertamento di condotte “plurioffensive”(10), ha evidentemente voluto assolvere all’esigenza di approntare rimedi non solo tempestivi –l’art.700 c.p.c. avrebbe di per sé potuto sopperirvi in modo idoneo– ma soprattutto efficaci ed adeguati rispetto alla discriminazione, sicché la prevista risarcibilità del danno non patrimoniale rappresenta se non l’unico almeno il principale elemento qualificante l’azione civile contro la discriminazione. La sostanziale esclusione di tale sanzione indiretta della discriminazione farebbe venir meno, infatti, la necessità di distinguere nel nostro ordinamento tra l’accertamento in giudizio della discriminazione vietata dall’art.43 T.U. e l’ordinario accertamento avanti al giudice competente di una qualsiasi lesione di diritti soggettivi o interessi legittimi.

Marco Paggi

Vedi anche Ordinanza Tribunale di Genova del 26 giugno 2004
L’intervista a Roberto Faure, avvocato dal titolo Diritto di voto e partecipazione al pubblico impiego per i cittadini migranti
Il diritto dei cittadini stranieri di partecipare ai concorsi pubblici dell’avv. Paggi

Note a margine—————————

(1) In particolare: sentenza T.A.R. Liguria del 22.3/13.4.2001 n°3999, pubblicata nella rivista “Diritto immigrazione e cittadinanza”, Ed. Franco Angeli, pag.161 del n°2/2001, con scheda di Nazzarena Zorzella; ordinanza Corte d’Appello di Firenze del 2.7.2002, pubblicata a pag. 103 del n°2/2003.
(2)Si veda ad esempio la delibera della Giunta Regionale dell’Emilia Romagna del 5 maggio 2003 n°810 (B.U.R. Emilia Romagna 22 maggio 2003, parte seconda, n°74), che a pag. 10 recita: “Le persone provenienti da paese esterno alla Comunità Europea hanno la possibilità di accesso all’avviamento a selezione presso le Pubbliche Amministrazioni, ai sensi dell’art.16 della legge 56/87. I principi di parità di trattamento di cui all’art.2 d.lgs. 286/98, prevalgono infatti sulla disposizione stabilita dal DPR 487/94, che richiede il possesso della cittadinanza italiana per l’accesso alle Pubbliche Amministrazioni: la prevalenza opera sul piano gerarchico (si confrontano infatti una norma di legge, tra l’altro ad efficacia rafforzata, poiché volta a recepire una convenzione OIL, ed una norma regolamentare), nonché della successione nel tempo”.
(3)Secondo il vigente CCNL 7.04.99 per i lavoratori della sanità pubblica il profilo dei “collaboratori sanitari professionali” rappresenta l’evoluzione di carriera, quindi il livello di inquadramento nella superiore categoria D con funzioni di coordinamento, rispetto alla posizione iniziale dell’infermiere professionale, inquadrato nell’inferiore categoria C.

(4)Gli impieghi e le funzioni riservati ai cittadini italiani sono indicati nel D.P.C.M. 7 febbraio 1994, in G. Uff. del 15 febbraio 1994, serie generale n.61.
(5)Si ritiene opportuno citare estesamente quanto al riguardo osservato dalla Corte di Appello di Firenze nell’ordinanza già citata nella precedente nota 1: “Questo articolo è meramente riproduttivo dell’articolo 2 del decreto del Presidente della Repubblica n.487 del 1994, senza alcuna innovazione al riguardo, e non tiene in alcun conto l’implicita abrogazione dello stesso, che si era venuta a determinare a seguito dell’entrata in vigore del decreto legislativo n.286 del 1998. Si tratta di un chiaro difetto di coordinamento tra normative sopravvenute, che ha provocato la mera riproduzione di una norma abrogata, senza alcuna intenzione di riproporne i concetti ormai superati dal dibattito politico, che aveva tenuto conto dell’esigenza di consentire anche ai cittadini extracomunitari la possibilità di accedere alla pubblica amministrazione, escludendo qualsiasi discriminazione con i cittadini di Stati appartenenti all’Unione Europea”. Peraltro, la medesima disposizione riprodotta nell’articolo 38 del d.lgs 165/2001 e prima prevista tal quale nell’art.2 del dpr 487/1994, era a sua volta già contenuta nell’art.37 del d.lgs 3 febbraio 1992 n.29.

(6)In questo senso si veda Paolo Bonetti, in Diritto degli stranieri, a cura di Bruno Nascimbene, Padova 2004, p.149.
(7)In questo senso v. Bonetti, op. cit., p.150 e ss.. Peraltro, l’Autore non manca di osservare che l’art.27, comma 3, T.U. non faceva parte del testo della legge n.40/1998 ma è stata introdotta in attuazione della delega legislativa cui si deve la compilazione del T.U., sicchè egli sostiene l’incostituzionalità della norma stessa per violazione dell’art.76 Cost., “poiché viola i criteri e i principi direttivi posti dall’art.47, comma 1, legge n.40/1998 per la delega legislativa alla redazione del testo unico. Tra tali principi è previsto l’obbligo di includere nel testo unico soltanto le disposizioni della legge 30 dicembre 1986 n.943 compatibili con le disposizioni della legge n.40/1998”.

(8)Si veda, infatti, quanto testualmente stabilito all’art.3: “per quanto attiene le condizioni di accesso all’occupazione… indipendentemente dal ramo di attività (comma 1 lett.a)… la presente direttiva non riguarda le differenze di trattamento basate sulla nazionalità e non pregiudica le disposizioni e le condizioni relative all’ingresso e alla residenza…né qualsiasi trattamento derivante dalla condizione giuridica dei cittadini dei paesi terzi o degli apolidi”(comma 2).
(9)A seguito dell’abrogazione della legge 943/86 il divieto di modifica della qualifica di occupazione, originariamente previsto dall’art.5, comma 2, proprio in base alla facoltà riconosciuta agli Stati dalla Convenzione, è stato abolito, sicché il principio di pari trattamento e opportunità opera ora in Italia fin dal primo rilascio del permesso di soggiorno idoneo allo svolgimento di attività lavorativa.

(10)E’ evidente, infatti, che la stessa condotta discriminatoria, in quanto configurante lesione di un diritto soggettivo e comunque la violazione di una norma di legge, può non solo legittimare l’esercizio dell’azione civile contro la discriminazione ma anche, ed indipendentemente, il ricorso al giudice amministrativo, al giudice del lavoro o al giudice ordinario, a seconda dei casi; non sembra da escludere nemmeno la possibilità di agire ex art.44 T.U. per la sola liquidazione del danno non patrimoniale e di agire invece avanti al giudice competente per l’accertamento della violazione del diritto soggettivo concretamente leso. Una configurazione per certi aspetti simile era conosciuta, sino all’entrata in vigore dell’art.68 del d.lgs n.29/1993 (che ha devoluto unicamente al giudice del lavoro le relative controversie), con riguardo alla giurisdizione in materia di condotta antisindacale. Per l’appunto, determinate condotte del datore di lavoro pubblico –che al tempo stesso potevano ledere non solo gli interessi sindacali ma anche quelli individuali, ovviamente tutelabili contestualmente ma anche con autonoma azione dei singoli interessati– si potevano prestare all’impugnativa per condotta antisindacale ex art.28 L.300/70 tanto avanti al giudice del lavoro quanto avanti il giudice amministrativo. Al riguardo, la giurisprudenza aveva riconosciuto l’ammissibilità di procedimenti concorrenti elaborando il concetto di “comportamento plurioffensivo” per evidenziare la possibilità di avvalersi di diversi rimedi giurisdizionali a fronte della lesione, al tempo stesso, di interessi individuali e collettivi, nonché di interessi legittimi e diritti soggettivi insorgenti dalla contrattazione collettiva.