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Intervento di Stefano Ferro (Padova Accoglie) al convegno “Le migrazioni oggi. Soggetti e scenari”

Sabato 7 novembre 2015, Aula Magna, Palazzo del Bo

Abbiamo negli occhi le immagini delle decine di migliaia di persone che cercano di scavalcare i confini dell’Europa mettendo ulteriormente in discussione gli equilibri già precari di una istituzione che rischia di essere minata mortalmente nelle sue fondamenta.

Siamo testimoni da un anno e mezzo di un processo migratorio senza precedenti a livello europeo ma molto meno a livello nazionale, visto che la presenza di richiedenti asilo ad oggi, da noi, è inferiore a quella dell’anno scorso.
Eppure, la percezione che si ha a partire dai media e dalle reazioni di chi per un motivo o per l’altro entra in contatto con questo fenomeno, è esattamente il contrario.

La quantità di stereotipi di bassa LEGA con cui spesso anche alcune istituzioni si rapportano al problema è il segnale di una volontà di nascondersi per evitare di dovere prendere atto che di questa cosa bisogna farsi carico in un modo o nell’altro dal momento in cui abbiamo queste donne questi bambini e questi uomini con i piedi in acqua a Lampedusa, Pozzallo o altrove ma comunque qui da noi.

Il modo più semplice è quello di lasciare queste persone per strada o peggio ancora ostacolare chi tenta di dedicarsi all’accoglienza, ben sapendo che è la scelta che porta inevitabilmente al degrado immediato indirizzando queste persone alla criminalità alla marginalità alla prostituzione allo spaccio.

L’altro modo è quello che abbiamo avuto la possibilità di vedere realizzarsi nel divenire delle dinamiche ogni giorno diverse della pratica della gestione delle comunità di richiedenti asilo, dinamiche ogni giorno riviste e sperimentate a seconda della loro efficacia.

Vi parlo della mia esperienza personale.
Quando un anno e mezzo fa, per una serie di coincidenze sono entrato in contatto con Don Luca Favarin, per affidargli la gestione della prima comunità di migranti, a Rovolon nella Casa della Associazione per un Sorriso di cui faccio parte, non avevo la minima idea di dove ci avrebbe portato quella esperienza.

La reazione di parte del territorio, feroce ed ostile, contro l’arrivo di 12 donne e bambini, con intimidazioni pesanti ai limiti della legalità da parte dei “Paroni a Casa nostra” non è stato nulla in confronto all’impatto che ha prodotto dentro di noi l’ascolto delle prime storie di quelle donne, e da allora di tutte le storie, perché non c’è nessuno di questi ragazzi e ragazze quasi tutti vicino ai vent’anni che non abbia rischiato più volte la vita per arrivare qui.

Proprio perché quasi tutti quelli che si sono fermati da noi sono per lo più africani del sub SAHARA. E questo vuol dire che se sono qui, sono riusciti a non affogare nel deserto prima di arrivare in Libia o in qualche campo profughi, magari per starci per anni come schiavi prima di riuscire ad imbarcarsi in quelle che loro stessi considerano bare naviganti.

Dal racconto di Mary, la prima donna eritrea che abbiamo conosciuto che alla domanda del perché fosse scappata dal suo paese ti rispondeva con un sorriso che essere cristiani copti equivaleva ad una condanna a morte, a quello di Anna, Somala, sola al mondo, dopo avere assistito al massacro di sua madre e sua sorella, arrivata qui in silenzio con lo sguardo fisso, il cui racconto abbiamo ottenuto con molte difficoltà ma che le traduttrici si rifiutavano di eseguire piangendo da quanto fosse duro, agli oltre 200 che sono passati da quelle strutture: da quel momento questi migranti hanno smesso di essere un fenomeno, un problema, e sono diventati per noi donne uomini e bambini con un nome, un cognome ed una storia.

E qui nasce il primo punto fermo irrinunciabile spartiacque valoriale.
In questa stessa aula poche settimane fa fu, applaudito, Romano Prodi che affermò che è assurdo fare una distinzione tra richiedenti asilo per motivi economici o per guerra o climatici. Su questo per il momento non c’è proprio altro da aggiungere.

La cosa straordinaria che è avvenuta a livello sociale nella nostra bellissima provincia e città è stata che nel momento in cui gli attacchi a queste strutture di accoglienza si sono fatti più duri, c’è stata una reazione da parte della società civile poderosa, ed è così che è nata la necessità di cercare di coordinare in una aggregazione trasversale molte delle realtà che si muovevano concretamente su questo terreno, da lì nasce Padova Accoglie, a maggio di quest’anno, per poi passare attraverso la straordinaria esperienza con Andrea Segre degli uomini e delle donne scalzi al Lido, che ha visto al suo interno gli uomini e le donne di refugees welcome e Over the Fortress che hanno portato i loro corpi ai confini con l’Ungheria e la Slovenia tornando con quello sguardo che conosciamo bene di chi può dire io c’ero, ed ho visto.

E così abbiamo continuato a seguire da vicino l’espansione delle esperienze di accoglienza a PD e provincia. Scoprendo che in chi la pratica nel modo migliore possibile si avviano dei percorsi evolutivi sia a livello di struttura che a livello individuale che hanno una velocità straordinaria.

L’avere a che fare quotidianamente all’esterno con dinamiche istituzionali come le amministrazioni locali, le Asl, la Prefettura, la questura, i provveditorati, e all’interno delle comunità con le problematiche interetniche, interconfessionali, medico/psicologiche, con alimentazione e l’igiene, l’educazione fisica, il gioco, la formazione e l’indirizzo professionale presupporrebbe la presenza di personale altamente qualificato che di fatto non esiste. Eppure in poco più di un anno, solo nella Cooperativa Percorso Vita sono stati assunti quasi 20 neo laureati, e quelli che hanno retto alla fatica immensa di questo lavoro si sono trasformati in qualcosa di molto ricco professionalmente che li mette in grado di sapere gestire anche l’impossibile.
Di tutto questo, di questa scuola di vita e di lavoro abbiamo cominciato anche a parlarne all’interno di alcuni master di questa università.
Guardate, è dalle prime settimane di pratica dell’accoglienza che don Luca mi diceva … ci vorrebbe un’università dell’accoglienza!

Bene, l’unica cosa certa di cui grazie a questa e ad altre esperienze ci siamo accorti, è la totale disarmante inadeguatezza progettuale a livello centrale del fenomeno che stiamo vivendo.
Abbiamo davanti 3, 4, non so quanti lustri in cui le nostre vite saranno stravolte in senso sociale, economico, culturale e valoriale.

Abbiamo fino ad oggi concentrato la nostra attenzione sull’arrivo di poche decine di migliaia di persone, senza peraltro dare una risposta adeguata e restando soggiogati alla pochezza istituzionale, o addirittura spesso semplicemente culturale, dei professionisti del diniego e non ci stiamo minimamente attrezzando per cercare una risposta al che fare fin da subito, ora che stanno arrivando i primi riscontri alle richieste di asilo di chi è arrivato tra noi un anno fa. Arrivando al paradosso che chi non ha ottenuto la risposta positiva della commissione, con i ricorsi ha ancora qualche mese per capire cosa fare della propria vita, mentre chi ha ottenuto l’asilo politico o per motivi umanitari è costretto fin da subito a finire nella strada.

Dalle comunità stesse, dagli operatori, da chi è costretto a tappare i buchi della scarsa programmazione sta arrivando un grido di allarme che potrebbe diventare un urlo.
Pare che questo urlo sia arrivato in questa Aula meravigliosa.

Non abbiamo alcuna pretesa da chi, altamente qualificato, prenderà la parola dopo di me. Non ho parlato di numeri che vi verranno ampiamente e scientificamente proposti tra poco.
Noi sappiamo che questo paese, esattamente come tutti gli altri d’Europa avrà nei prossimi vent’anni, cioè domani, la necessità o l’opportunità di gestire la nostra decadenza demografica grazie all’arrivo di milioni di persone.
Abbiamo nella mente principi di idee che potrebbero portare a pensare e strutturare un nuovo modello di sviluppo a partire da quelle che sono le eccellenze del nostro paese, come l’agricoltura biologica, oppure pensiamo alla riduzione del dissesto idrogeologico, alle energie alternative, al riciclo, al ripensamento e recupero dei poli agricolo-rurali in cui i nostri figli insieme a questi nuovi soggetti potrebbero ritrovare una speranza, magari insieme a noi con un nuovo senso della comunità.

Pensiamo a questi uomini che la storia ci ha consegnato in prestito che un domani potrebbero diventare la classe dirigente nei loro paesi liberati e diventare parte integrante di una nuova civiltà mediterranea.
Pensiamo che per sperimentare e gestire un fenomeno di questa dimensione e portata ci vorrebbero decine di migliaia di eccellenze che sappiano muoversi per approssimazioni progressive.
C’è una sola struttura che può essere in grado di dare o cominciare a dare una risposta profonda in questo senso. L’Università.
E noi abbiamo la fortuna di avere nella nostra città una delle più prestigiose.