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Tratto dal sito DeriveApprodi

Libri – Storie migranti

Storie migranti
Viaggio tra i nuovi confini

di Federica Sossi

pagg. 168
€ 11.5

Il libro
Storie migranti è un libro di racconti, ma è soprattutto un percorso che l’autrice ci invita a fare cercando alcune delle trame più significative del nostro presente, solitamente nascoste e non ascoltate. Un viaggio, da est a sud, che inizia a Belgrado, tra le esistenze precarie dei tanti rifugiati che la abitano, e si conclude in Sicilia. Lampedusa, l’isola degli arrivi; Vittoria, il lavoro nelle serre tra ritmi infernali; Agrigento e altre città dei richiedenti asilo; Portopalo e il più grande naufragio del Mediterraneo dalla fine della Seconda guerra mondiale; l’eco della Libia e dei suoi campi di detenzione nelle voci di chi è arrivato in Italia. Alla fine di ogni racconto, una nota informativa rinvia al contesto in cui esso si inserisce: le guerre dell’ex Jugoslavia, le normative sull’immigrazione, le leggi sui richiedenti asilo, le deportazioni. La storia delle migrazioni è storia di soggetti in movimento, i quali, per così dire, fanno migrare o rendono migrante la storia. È dunque una pluralità composita e irriducibile a unità di tante storie migranti, portate da donne e uomini diversi. E quando la storia diventa plurale, la descrizione è una narrazione che si serve di immagini, inseguendo l’impossibile compito di ridonarcela ed è anche uno dei modi più densi per riflettere su di essa.

Federica Sossi
Federica Sossi insegna Estetica all’Università di Bergamo. Tra i suoi libri: Nel crepaccio del tempo. Testimoniare la Shoah e Autobiografie negate. Immigrati nei Lager del presente, resoconto delle interviste svolte all’interno dei Centri di detenzione.

un assaggio…
Tra i racconti di questo libro, solo uno è una storia di questa Milano. Forse perché ho bisogno, ma non credo di essere l’unica, di non immergermi completamente nel pianeta quotidiano che vivo e di ascoltare invece le storie di questo pianeta da una breve o lunga distanza: la Sicilia, il pianeta, mio e nostro, di tutti, da cui proviene la maggior parte delle storie che ho ascoltato. E Belgrado, con la dolce sfumatura di una donna alla ricerca di un marito scomparso, né vivo né morto, serbo kosovaro rapito da alcuni albanesi kosovari prima della guerra del Kosovo, o dei bombardamenti su Belgrado. In questo caso, più che un altro pianeta, un altro tempo, di lui, né vivo né morto, e di lei, Ljiljana, che continua a cercarlo. Quanti anni prima dell’11 settembre? Pochi, in realtà, a rifletterci bene. Pochi persino rispetto alle immagini quotidiane di esplosioni vicine e lontane, rapimenti, ostaggi, teste mozzate, bambini lacerati. E a rifletterci bene, in assoluta continuità con queste immagini, altre immagini per dieci anni, ai confini con l’Italia, anche in questo caso bambini lacerati, ostaggi, teste mozzate, rapimenti, donne violentate, esplosioni vicine, soltanto recepite come lontane, accanto a noi, nel nostro pianeta, come le immagini attuali. Perché abbiamo avuto bisogno di quella favola? Dieci anni di irrealtà, di proiezione nella distanza di ciò che era vicino, vicinissimo e reale, come una sorta di incubazione di quello che tutti, poi, dall’11 settembre abbiamo vissuto come nostro. Ma prima di quel giorno di settembre eravamo tutti jugoslavi. O tutzi. Belgrado, per me, è stata un viaggio breve, di alcuni giorni, nel gennaio bianco e ghiacciato del 2004. Ma qualcosa di noto e di amato, i racconti delle guerre dei dieci anni, profughi interni, non riconosciuti, morti cercati come vivi e mai identificati come morti, gente in fuga, non era questo che amavo, erano i cibi, alcuni odori, la lingua, Ivana che avevo appena conosciuto a Bruxelles e che mi parlava dei loro jeans comprati a Trieste, di cui conoscevo i sacchetti di plastica abbandonati nel Carso accanto a casa mia. È nata così la nostra amicizia, con lei e il racconto dei jeans, e io e il mio racconto di un preside fascista e protoecologista, che ci obbligava ad attraversare il Carso per piantare cartelli, da noi disegnati, contro i loro sacchetti e la loro venuta. Erano gli anni Settanta, quando da Belgrado e da Sarajevo si spingevano a Trieste a comprare jeans per loro italiani per noi jugoslavi e lasciare tracce di plastica sul Carso, mentre io mi spingevo con mio padre oltre confine a fare la spesa meno cara e con l’intera famiglia a passare le vacanze nel villaggio jugoslavo di mia madre. Per mia madre era la sua città, per me era un villaggio, per mia madre era l’Istria, per me Jugoslavia, per mia madre quel luogo non ha mai conosciuto la guerra, perché per lei la guerra era quella dell’ex-Jugoslavia, per i ragazzini con cui giocavo è stato il luogo della loro guerra, da soldati, prima di divenire Croazia. Non un altro pianeta, ma il mio, il nostro pianeta. Quello di Ljiljana e del corpo di suo marito, non si sa ancora se vivo o morto. Confini, invece, era il titolo a cui pensavo mentre stavo ancora scrivendo queste storie e in parte ancora ascoltandole. Confini avrebbe racchiuso in parte anche la mia storia. Solo nel titolo, perché non ho intenzione di raccontarla. Ho vissuto per anni al confine. Ai confini. Perché quel luogo era attraversato da frontiere molteplici. Una casa, quasi l’ultima prima del bosco, quand’ero bambina, quasi l’ultima prima della Jugoslavia da bambina e da adolescente, e un confine di lingue, una lingua che non ho mai parlato e non so perché, la lingua di quasi tutti coloro che ci stavano accanto, parenti o estranei, minoranza slovena in Italia, ma lì, accanto a casa, maggioranza, e la lingua di tutti oltre confine, a due passi oltre il bosco. Ma che cos’è un confine attraversato? In un andare e venire, continuo, di chi sta oltre il bosco e di chi sta prima del bosco. Quello che nel resto d’Italia era frontiera, anche storica e forse cortina di ferro, dalle mie parti era scambio e vicinanza, con qualche piccola differenza, da un lato e dall’altro, le nostre lavatrici più veloci delle loro, il loro mare più bello e il loro vino più buono dello stesso vino nostro. Poi sono arrivate altre frontiere, ma anche queste continuamente attraversate. Barriere di mare e cespugli. Vu cumprà, ricordo che si chiamavano all’inizio. Poi extracomunitari. Da alcuni anni clandestini, più di recente terroristi. Già, è l’ultimo racconto su di loro. Chissà chi c’è tra loro sui barconi quando arrivano dal mare. Lasciamoli lì, tra le onde, facciamo il pieno ai barconi quando s’accostano e rispediamoli indietro, prima che passino di qui, magari al metrò sotto casa facendosi esplodere con noi, questa l’ultimissima proposta. Davvero avrei voglia che le narrazioni fossero finite e le bocche rimanessero cucite quando al bar una brioche e un latte macchiato costano l’ascolto di questa valutazione: una giornata di lavoro a un’edicola scippata e un morto, grazie alla reazione dell’edicolante, è un calcolo economico che torna ai più. Non è un altro pianeta, è il nostro. Per questo cerco di immergermi in altre storie. Di bocche sempre mute anche tra i cappuccini e le brioche, nessuna reazione, nemmeno di fronte ai pazzi che sugli autobus sembrano poter esprimere un’unica cosa, quell’odio, quasi la voce della loro pazzia potesse attingere solo a quella fonte ormai inesauribile. Ricordo Trieste e i suoi pazzi, erano gli anni Settanta e parte degli anni Ottanta, e ho nostalgia delle voci dei loro deliri, più dolci e polifoniche, evidentemente potevano attingere da più sorgenti, diverse da quelle attuali. Molti racconti arrivano dalla Sicilia, e dal mare o dalla terra sotto la plastica in cui si raccolgono pomodori e peperoni, zucchine e melanzane. Alcuni partono da brevi frasi, incontri fugaci, gli occhi di qualcuno seduto sul molo del porticciolo di Lampedusa, le scarpe già prive di lacci, dopo l’intervento dei carabinieri o della guardia di finanza, un breve tratto di strada e poi gli occhi scompaiono, dietro al filo spinato del campo dell’isola. Ho rivisto quelle scarpe prive di lacci quest’estate ad Agrigento, ai piedi di tre migranti, arrivavano dal Sudan e da Lampedusa, per giorni hanno dormito nel piazzale della stazione senza i soldi per un biglietto, mi hanno raccontato poi, con la traduzione di Hassan, che preferiscono la morte nel Sahara o la morte in mare, piuttosto che la morte nel loro paese, erano uomini, clandestini, forse terroristi, peccato che nessuno abbia fatto benzina al loro barcone. Ora gli accordi con la Libia permetteranno proprio questo, già prima che le barche si accostino alle spiagge di Lampedusa, direttamente in mare, un dietrofront obbligatorio a cui collaboreranno poliziotti libici e italiani. Due racconti partono dal silenzio. Difficile scrivere la storia di qualcuno a partire dal silenzio. Ho cercato di farlo, provando a immaginarmi la storia di «Seppelito in data 29-9-2000 allore 11». In Rosa, pura contraddizione, l’ultimo racconto di questa raccolta, sarebbe stato troppo difficile immaginare le storie di tutti loro, muti e mute sotto montagnole di terra, loculi non segnalati o nell’acqua del mare.