Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
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The journey

di Elisabetta Deidda*

Trieste, Piazza Unità d'Italia

Notizie sulle vite, i viaggi, le sofferenze delle persone migranti e rifugiate sono, soprattutto grazie alla rete, ampliamente disponibili.

Questa disponibilità, seppur necessaria, porta però ad una certa assuefazione.

Sugli schermi dei cellulari, vere e proprie tragedie si mischiano a video di gattini e foto di feste, e assieme a questi, inevitabilmente, finiscono anch’esse per scorrere.

In televisione, l’appiattimento è ancora più estremo. Lo spazio è limitato, e storie complesse finiscono per essere ridotte a brevi spot. Il format televisivo, soprattutto quello dei notiziari, uccide la complessità delle storie e le persone a cui queste storie appartengono.

È necessario restituire alle storie e alle persone il tempo e l’attenzione che meritano.

Questo breve racconto è un tentativo di fare ciò. È una storia non vera, ma verosimile, di un viaggio attraverso i Balcani compiuto da due persone di diverso colore, della pelle e di passaporto, l’una di ritorno a casa, l’altra in cammino verso una vita, si spera, migliore. Un doppio diario, di una persona in transito e una turista che attraversano i Balcani.

L’ho scritto per un esame universitario, e pur essendo ambientato all’incirca un anno e mezzo fa – ora la situazione, nei vari paesi menzionati nel racconto, è per certi aspetti diversa, molto peggiore – penso sia ancora efficace nel raccontare quello che le persone intrappolate nei paesi tra la Turchia e la “fortezza Europa” stanno subendo.

Ma soprattutto, vuole spingere a riflettere su che conseguenze possa avere – sul proprio corpo e il rispetto che gli altri ne hanno, le proprie libertà, la possibilità di muoversi e autodeterminarsi – l’essere nato in un posto piuttosto che in un altro, il possedere un passaporto piuttosto di un altro, l’avere la pelle di un certo colore, piuttosto che di un altro.
Leggi il racconto (in inglese)