Notizie sulle vite, i viaggi, le sofferenze delle persone migranti e rifugiate sono, soprattutto grazie alla rete, ampliamente disponibili.
Questa disponibilità, seppur necessaria, porta però ad una certa assuefazione.
Sugli schermi dei cellulari, vere e proprie tragedie si mischiano a video di gattini e foto di feste, e assieme a questi, inevitabilmente, finiscono anch’esse per scorrere.
In televisione, l’appiattimento è ancora più estremo. Lo spazio è limitato, e storie complesse finiscono per essere ridotte a brevi spot. Il format televisivo, soprattutto quello dei notiziari, uccide la complessità delle storie e le persone a cui queste storie appartengono.
È necessario restituire alle storie e alle persone il tempo e l’attenzione che meritano.
Questo breve racconto è un tentativo di fare ciò. È una storia non vera, ma verosimile, di un viaggio attraverso i Balcani compiuto da due persone di diverso colore, della pelle e di passaporto, l’una di ritorno a casa, l’altra in cammino verso una vita, si spera, migliore. Un doppio diario, di una persona in transito e una turista che attraversano i Balcani.
L’ho scritto per un esame universitario, e pur essendo ambientato all’incirca un anno e mezzo fa – ora la situazione, nei vari paesi menzionati nel racconto, è per certi aspetti diversa, molto peggiore – penso sia ancora efficace nel raccontare quello che le persone intrappolate nei paesi tra la Turchia e la “fortezza Europa” stanno subendo.
Ma soprattutto, vuole spingere a riflettere su che conseguenze possa avere – sul proprio corpo e il rispetto che gli altri ne hanno, le proprie libertà, la possibilità di muoversi e autodeterminarsi – l’essere nato in un posto piuttosto che in un altro, il possedere un passaporto piuttosto di un altro, l’avere la pelle di un certo colore, piuttosto che di un altro.
– Leggi il racconto (in inglese)