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Senegal – La crisi e i movimenti migratori a ritroso

da Pikine-Dakar, Chiara Barison, dottoranda in politiche transfrontaliere all’Università di Trieste

E’ una mattina come tante qui a Pikine, quartiere popolare di Dakar, Senegal. Nella piccola boutique di Moustapha come sempre un piccolo gruppetto di persone si è radunato per chiacchierare del più e del meno. Alle pareti numerosi ingrandimenti di foto di marabutti, i leader religiosi delle confraternite islamiche sufi, a cui il 90% dei senegalesi appartiene.
In ogni parte della piccola stanza, un numero infinito di oggetti affolla ogni spazio: bacinelle, sacchi di cemento, sedie, bottiglie di acqua vuote,scatole di tè, sacchettini di zucchero, un frigo rotto. In fondo due cabine del telefono, dove le persone del quartiere vengono a chiamare parenti e amici all’estero.
Moustapha è seduto dietro un bancone impolverato stracolmo di caramelle, dolciumi, penne, e qualsiasi cosa possa essere venduta singolarmente.
Lui, il proprietario, è sempre qui, dalle sei di mattina fino a tarda sera. E’ seduto su una sedia a rotelle, risultato di una meningite contratta durante una vacanza in Kenya; eppure Moustapha colpisce per la sua energia e la sua positività, sarà che nel quartiere di Pikine-Canada è un vero e proprio punto di riferimento. Con i suoi trent’anni passati in Italia ha una visione molto più ampia della realtà rispetto a tanti suoi concittadini, che, a differenza sua, non sono riusciti a partire.
Sentirlo parlare in trevigiano fa sorridere, Moustapha, nel corso di tutti questi anni, ha potuto osservare in prima persona i cambiamenti che si sono succeduti nel tempo rispetto al fenomeno migratorio. “Negli anni ’90”, mi dice con gli occhi tristi, “in Italia si stava bene, potevi trovare lavoro facilmente, si riuscivano a mandare soldi sufficienti a mantenere un’intera famiglia e a metterne da parte anche quel giusto per poter costruire qualcosa, ma negli ultimi anni non era più possibile nemmeno arrivare a fine mese”. Moustapha ha detto bene. L’Italia è stata per anni la meta preferita di numerosi immigrati senegalesi, qui chiamati “modou-modou”. Il legame tra l’Italia e il Senegal è stato ed è tutt’ora molto forte. Gli immigrati, con un processo migratorio transnazionale, sono riusciti per anni a legare società di partenza a società di arrivo, vivendo “un po’ qui” e “un po’ lì”, e riuscendo, attraverso questi percorsi di andata e ritorno periodici a portare al paese non solo beni materiali, ma anche conoscenza e soprattutto rimesse.

La società senegalese da decenni ha costruito le sue fondamenta proprio su queste rimesse; un intero paese muove i suoi ingranaggi grazie agli aiuti degli emigrati.
Non è difficile notare a livello visivo questo forte legame tra paesi, basta fare una camminata per il quartiere: un negozio di abbigliamento dal nome “Bello Italia” espone t-shirt “Corona’s” (….), bambini giocano scalzi con addosso magliette di calcio di Roma e Lazio; un’agenzia immobiliare “Immigrés” (immigrati), propone le sue offerte migliori mentre un camion passa e si legge, “frutta fresca per un mangiare sano”; spesso non sembra neanche di essere in Africa, tanto è facile trovare persone che parlano italiano.

Non c’è da stupirsi, in ogni famiglia almeno una persona è emigrata verso l’ Italia. Loro, i modou-modou, sono diventati i nuovi eroi nazionali, perché nell’immaginario collettivo sono coloro che sono riusciti a fare i soldi in poco tempo, tornando al paese con macchine nuove, costruendo ville, sposando le più belle ragazze del quartiere.
I giovani vedono solo la risultante di un percorso che spesso è stato difficile, faticoso, frustrante.
Nessuno di loro pensa a tutti quelli che non sono riusciti ad avere successo o a mettere via soldi e sono tornati a casa senza niente e questo perché, anche in questo caso, comunque, per il solo fatto di essere stati all’estero, sono saliti nella scala sociale.

Due studenti dell’università di Dakar “Cheick Anta Diop” discutono anch’essi animatamente e, sebbene entrambi abbiano delle belle carriere accademiche di fronte, mi dicono senza problemi che vivono con la speranza di poter partire per l’Italia. (“Ils ont dit que là bas c’est bien”, “hanno detto che lì si sta bene”).
Come riuscire a spiegare loro che oggi la situazione non è più quella di dieci anni fa? Che oggi non c’è più lavoro? Che tanti modou-modou stanno rientrando a casa perché non ci sono più possibilità per loro in Italia?
Inutile, il mio è fiato sprecato, mi continuano a chiedere perché “io sia contro l’emigrazione”.
Eppure ciò che cerco di spiegare è tutt’altro, ma non mi ascoltano, rimangono fermi sulla loro idea che partire e fare i soldi resti la cosa più auspicabile da fare.
E questo è proprio il dramma di un’intera società, cioè quando ad intraprendere un percorso migratorio non sono più solo individui senza istruzione che non hanno nessuna situazione stabile nel proprio paese, ma quando persone anche di una certa istruzione o con lavori più che soddisfacenti, spinti dal mito dell’immigrato che ha fatto soldi in poco tempo, decidono di abbandonare tutto per rischiare in un progetto che non sempre è positivo.
Questi studenti vanno anche oltre e azzardano a dire che l’intera classe dirigente senegalese è formata oggi da ex modou-modou, o, per farla breve, da persone generalmente poco scolarizzate, partite all’estero in cerca di fortuna e che una volta fatti i soldi, sono tornati in patria.

La mia domanda ora è questa, come affrontare la tematica migratoria qui in Senegal, società di partenza di numerosi immigrati, per poter proporre soluzioni concrete che possano generare uno sviluppo locale e frenare in qualche modo queste partenze compulsive?
Mi scoraggio, la battaglia sembra persa in partenza, alla prima occasione di partire, chiunque partirà, dal contadino al maestro, dall’analfabeta al laureato, giovane o già adulto.br>
Nessuno sembra volere prestare attenzione all’attuale crisi economica che ha investito come un uragano tutto e tutti, dai paesi “sviluppati” a quelli cosiddetto “terzo mondo”. A Pikine, come del resto in tutta Dakar e in tutto il paese, la crisi si è fatta sentire, eccome. Il costo della vita è raddoppiato, se non addirittura triplicato, un esempio su tutti il riso, base dell’alimentazione senegalese, nel 2001 un sacco di 50 kg costava circa 13.000 CFA (20 euro), oggi ha toccato la cifra di 22.000 CFA (35 euro).
La situazione è tragica, oggi quelle stesse rimesse che erano la sorgente di vita di un’intera società si sono dimezzate. Gli immigrati senegalesi in Europa non riescono più a trovare lavoro e, quindi, a mandare soldi a casa. Molti sono costretti a ritornare. “In questo periodo vedo persone che di solito vedevo una volta ogni due, tre anni”, mi dice Cher, un commerciante di trent’anni “si vede che la crisi è forte, non si erano mai visti tanti immigrati tornare tutti assieme”.
Continua Pape, meccanico di 35 anni “due dei miei fratelli erano a Milano, ma sono qui adesso, sono entrambi in cassa integrazione”.

La gente percepisce la situazione ma non osa parlarne apertamente, la questione sembra essere taboo. Una crisi no, non può davvero accadere perché sarebbe una vera e propria catastrofe, come potrebbero vivere intere famiglie con il costo della vita attuale?
A Pikine intanto, rispetto allo scorso anno, si possono incontrare tantissimi immigrati tornati, come dicono loro, “in vacanza”, in attesa che arrivino tempi migliori e che magari l’Italia torni quella che era una decina d’anni fa. Lo dicono, ma non ci credono neanche loro. In Italia, nel frattempo, i telefoni di molte associazioni senegalesi continuano a squillare, sono in molti che chiamano per chiedere un aiuto economico per pagare un mutuo o per comprare un biglietto di ritorno per il Senegal.
Qui, invece, i ragazzini seduti a prendere il tè aspettano di diventare grandi per poter partire anche loro, lì dove la “vita è bella”, come i loro padri, fratelli, cugini hanno fatto per anni e continueranno, probabilmente, a fare.