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Tratto da Terre libere

Lucciole di ritorno

Inchiesta sui rimpatri forzati

Stella siede in un bar di Marsiglia. Il suo sfruttatore ora la fa lavorare qui, in Francia. Lei è moldava. Bionda, occhi castani e irrequieti, ha poca voglia di parlare: “Ormai me la so cavare bene sulla strada. La mia pelle sembra morbida, invece è molto dura. So come trattare il mio lavoro”.

Quasi sempre senza documenti, e con qualcuno che le sfrutta, delle prostitute straniere sappiamo quel po’ che vediamo e che leggiamo – le strade in cui lavorano, e le cronache locali che raccontano dell’ultima retata. Sappiamo anche che una volta fermate e identificate come “clandestine” (in Italia non esiste il reato di prostituzione) non sempre vengono “rispedite” a casa (come ci insegnano anche le recenti polemiche sull’inapplicabilità di alcune parti della legge Bossi-Fini). Se esistono stime sul numero di quante donne, in gran parte straniere, lavorano sulle strade d’Italia (circa 25 mila secondo una ong che si occupa del fenomeno, la Parsec) non esistono invece dati sul numero delle espulsioni effettuate. Il Ministero dell’Interno fornisce una sola cifra: 65.153 “immigrati” allontanati dal territorio nazionale nel 2003, senza distinguere tra uomini e donne e senza specificare se si tratta di semplici ingiunzioni o di rimpatri effettivamente avvenuti.

Ma ciò di cui sappiamo ancora meno è che cosa accade alle straniere espulse una volta rientrate in nei Paesi d’origine. Poche cose sono certe, e tra queste una: spesso ritornano. Il più delle volte il viaggio riprende direttamente dagli aeroporti delle capitali in cui sono appena atterrate: Lagos, Nigeria; Chisinau, Moldavia; Tirana, Albania. Non passano neppure “da casa”: questa, quando esiste, troppe volte ha la porta sbarrata da una famiglia capace di accettare i soldi “sporchi”, ma non le figlie o le sorelle che quei soldi se li sono guadagnati.

Stella ora racconta. Il suo primo padrone, un rumeno, una volta l’ha data anche “in affitto” a due albanesi, in Costa Azzurra. Contava di sposarla in Olanda, ma invece l’ha fatta tornare in Veneto, vicino Verona. “Mi mandano sempre dove c’è più movimento”, spiega lei. I patti sono chiari, le giornate dure. “Ma guardo avanti”, dice, “e so che un bel momento tutto questo finirà, che avrò anch’io una vita decente. Intanto mando a casa i soldi regolarmente, 200 euro al mese. E di questo sono molto orgogliosa: quei soldi alla mia famiglia servono davvero”.

In suo odiato posto in strada, a un certo punto anche Stella ha dovuto lasciarlo. Costretta a tornare in Moldavia. Per poco. Un anno fa, fermata durante l’ennesima retata, dopo un processo per direttissima è stata espulsa dall’Italia “con ordine di allontanamento coatto”. Quel giorno l’espulsione è toccata solo a lei. Le altre, pur non essendo in regola con i documenti, hanno avuto sanzioni meno pesanti. L’aereo partiva da lì a poco (spesso le retate sono organizzate in coincidenza con posti disponibili sui voli) e Stella non ha avuto neppure il tempo di andare in quella che chiama “casa mia”, due stanze da dividere con altre due ragazze e due sfruttatori: “Non avevo niente con me”, ricorda, “solo i vestiti che indossavo e la borsetta. Sono arrivata all’aeroporto di Chisinau senza un soldo in tasca. Ho lasciato tutto in Italia, le mie fotografie, le mie cose… Chissà che fine hanno fatto, avevo chiesto a un’amica di conservarle”. Anche se le espulsioni effettivamente eseguite sono piuttosto rare rispetto al numero di prostitute fermate, negli ultimi anni sono diventate molto più veloci grazie agli accordi di riammissione stipulati con alcuni dei Paesi da cui provengono gli immigrati.

Fermate in strada, come è accaduto a Stella, le donne passano la notte in un commissariato o in una caserma dei carabinieri, dove vengono divise a seconda della nazionalità. Impronte digitali, foto segnaletiche, esame di eventuali cicatrici o tatuaggi. Se la persona fermata ne fa richiesta, può firmare una dichiarazione in cui afferma di essere vittima della tratta: in tal caso vengono contattati gli operatori sociali che si occupano di assisterla in attesa di ulteriori accertamenti. Le donne, “clandestine”, che invece non si avvalgono di questa possibilità, in 48 ore possono ricevere il decreto di espulsione ed essere caricate sul primo volo disponibile. Stella, come la stragrande maggioranza delle sue colleghe, non ha firmato nulla, per paura di ritorsioni. E ha preso quel volo.

Tra i Paesi di forte emigrazione verso l’Italia, la Nigeria è forse quello da cui giungono più notizie circa le modalità di rimpatrio. Secondo fonti del governo di Lagos, quelli effettuati da Paesi come Italia, Francia, Spagna, Olanda e Repubblica Ceca, riguardano quasi sempre donne, e quasi tutte, prostitute. Il numero è andato crescendo di anno in anno: secondo i dati forniti dall’Unicri (Istituto internazionale delle Nazioni Unite per la ricerca sul crimine e la giustizia) otto anni fa solo 10 persone risultavano essere state espulse da qualche Paese europeo verso la Nigeria; nel ’99 erano diventate 225, l’anno successivo 1.092. L’ultimo dato disponibile riguarda il 2002: 1.608 persone rimpatriate, ben 632 erano state espulse dall’Italia, 592 le donne.

Nessun dato giunge invece dalla Moldavia. Sappiamo però che qui le persone rimpatriate rischiano di essere accusate del reato di attraversamento illegale di frontiera, anche se per loro il terrore vero si chiama polizia. Una volta superato l’ostacolo, si può facilmente sparire nel nulla. Il che vuol dire, nella maggior parte dei casi, venire riassorbite dal “giro” dei trafficanti. Può accadere anche appena sbarcate: qualcuno, portafoglio alla mano, si presenta alle autorità di frontiera e dice di essere parente della ragazza. Stella è stata “recuperata” così, con un po’ di soldi passati sotto banco a un agente della polizia aeroportuale. Ricorda: “Appena scesa a Chisinau, ho capito che mi sarei trovata assai peggio di quando ero partita. Avrei dovuto ricominciare tutto da capo”. Ha deciso di tornare subito “in Europa”. E lo ha fatto come la prima volta: via terra.

Stella era partita anni fa da Rezina, un paese della Moldavia vicino al confine con l’Ucraina, su consiglio di un’amica. “Con due fratelli piccoli e mio padre senza lavoro, non c’era altro da fare”, spiega. L’amica le aveva presentato una conoscente, appena tornata da Milano: parlava di guadagni facili, buoni e soprattutto rapidi. Come tante altre ragazze, Stella pensava che avrebbe dovuto essere ingaggiata per fare solo l’eintraineuse. Ricorda ancora: “Credevo che la mia bellezza e il mio modo di essere, di comportarmi, mi avrebbero aiutata a stare lontana dai guai. E confidavo nel fatto che sarei riuscita a non dover fare più di tanto ai clienti. Fantasticavo. Pensavo a quanto sarebbe stato bello imparare una nuova lingua. E speravo di trovare un fidanzato: la mia prima storia d’amore era finita molto male, due anni prima”.

Partita in autobus, passando da Timisoara, in Romania, Stella arrivò in Italia e aprì gli occhi. Da Milano fu portata in Veneto, minacciata da due uomini e affidata alle istruzioni di una donna più esperta, un’ucraina, che la controllava a vista. Era in trappola, certo, doveva ripagare “l’orgnizzazione”, ma poteva anche cominciare a mandare un po’ di soldi a casa ai suoi. E lavorava in strada, sì, ma negli ultimi tempi aveva cominciato a portare i clienti anche in piccole stanze d’albergo.

La sua giornata di lavoro finiva solo quando aveva raccolto 400 euro. Altrimenti erano urla, docce gelate, botte, occhi neri. “Una volta mi hanno spaccato una sedia sulla schiena”, racconta, “ma sono stata fortunata, ho sentito di trattamenti ben più terribili. Comunque, ormai ho imparato a evitare le violenze peggiori: so che vengono usate come prova di forza, per dare l’esempio alle altre ragazze, alle “nuove””. In Italia Stella ha imparato anche altre cose: a trovare i clienti, a “non fare storie”, soprattutto “a non chiedere mai niente”. Sapeva bene che, in caso contrario, i suoi padroni si sarebbero potuti stancare e l’avrebbero data ad altri, venduta, facendole ricominciare tutta la trafila in un’altra città o in un altro Paese: nuove violenze e un nuovo debito da pagare. Secondo le agenzie delle Nazioni Unite che studiano il fenomeno, una prostituta che lavori in strada “vale” fra i tremila e i settemila euro. Soldi anticipati dall’acquirente e che a lui vanno restituiti: a rate, e con forti interessi.

Tornare a casa? Restarci, una volta espulse? Domande vuote. “Il desiderio di tornare”, dice Stella, “dipende da che cosa si è lasciato a casa”. Il suo non è un caso isolato. Il più delle volte le ragazze rimpatriate non provano neppure ad andare dalle loro famiglie. Senza un soldo in tasca, non hanno nulla di buono da portare a casa. Sono partite per migliorare la propria condizione, tornano senza valigia e con un carico di sofferenze in più. Ci avrebbe voglia di occuparsi delle loro crisi depressive? Flavia Piperno, ricercatrice, lavora per il Cespi (Centro studi di politica internazionale) in Albania. Si occupa di ciò che gli studiosi del fenomeno chiamano “l’impatto del ritorno”. Racconta: “Fra i rimpatriati uomini, quasi tutti ex detenuti, e le donne, quasi tutte ex prostitute, non c’è confronto: le donne vengono molto più stigmatizzate. Quelle che tornano al paese dall’Europa o dall’Italia, senza aver fatto fortuna, cioè non visibilmente ricche, molto spesso sono viste come una vergogna. Capita che vengano rifiutate anche dalle loro stesse famiglie. Alcune madri non riconoscono più le figlie, non le accettano. Oppure, se le fanno rientrare in casa, non le fanno più uscire, le tengono chiuse dentro. Perché sono una vergogna”.

Il fallimento di chi ritorna è totale: il sacrificio non è valso a nulla. Ma anche quando la famiglia è disposta ad accoglierle, tornare per loro non è mai facile. Di nuovo, Stella: “Io non avevo paura di ciò che avrebbe potuto dire la gente, non me ne è mai importato nulla. E i miei mi hanno sempre capito, in questo. Il punto è un altro: che ci torno a fare a casa? Chi li manda, i soldi? Se non c’è lavoro, se non c’è fortuna, lì trovo solo disgrazie. E la mia vita non potrà mai andare bene”. La prima volta, aveva scelto di partire non sapendo dove sarebbe arrivata. Ora conosce bene la situazione, e no ha più illusioni. Ma, ne è certa, neppure alternative.

Il tema della vergogna e del rifiuto da parte della società d’origine nei confronti delle giovani prostitute ritorna con forza in Paesi dalle culture tra loro diversissime. Tanto in Nigeria quanto in Albania, l’atteggiamento è sempre stato lo stesso: disprezzo. Solo ultimamente, e grazie alle pressioni internazionali, le cose stanno lentamente migliorando. Fino a pochi anni fa, non appena atterrate a Logos, le prostitute nigeriane venivano innanzitutto sottoposte a esami medici per verificare che non fossero portatrici di malattie a trasmissione sessuale. Poi, prima di essere rilasciate e abbandonate a se stesse, potevano ricevere quelle che le autorità descrivevano come “punizioni esemplari”: tra queste una sorta di “sfilata” (a volte addirittura trasmessa in tv) per le strade della capitale o della propria città. Dal luglio dell’anno scorso il governo nigeriano ha invece varato una nuova legge che, punendo il traffico e lo sfruttamento della prostituzione, almeno sulla carta dà diritto alla donna di essere riconosciuta come vittima. È stata anche istituita un’agenzia governativa, la Naptip, che combatte il traffico di essere umani e che riunisce rappresentanti delle forze dell’ordine, della magistratura e delle organizzazioni non governative locali. All’agenzia fanno riferimento tutte le organizzazioni internazionali che difendono i diritti delle donne e che si occupano della loro assistenza. Non è molto, ma è già tanto.

In Albania, solo fino a pochissimi anni fa, il fenomeno delle prostitute rimpatriate veniva semplicemente ignorato dalle autorità. E sì che nel ’99, nel periodo di massimo “splendore” della tratta, lo stesso viceministro della giustizia albanese, Arta Mandro, stimava in almeno 30 mila il numero di donne albanesi finite nel mercato della prostituzione europeo. All’epoca, tuttavia, ufficialmente il governo si rifiutava di riconoscere l’esistenza stessa del problema e per le ragazze espulse dall’Europa non esisteva alcun meccanismo di sostegno. Spesso erano accusate di avere violato le leggi sull’emigrazione e condannate per questo a scontare fino a due anni di carcere. Solo negli ultimi anni la mobilitazione delle organizzazioni internazionali e di alcune Ong è riuscita a far sì che l’attuale governo in carica prendesse un altro tipo di provvedimenti. E così, attraverso il coordinamento tra la polizia di frontiera, incaricata d controllare le identità delle rimpatriate, e l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (OIM) è stato messo in moro un primo meccanismo di assistenza.

Nonostante in alcuni Paesi siano stati fatti non pochi passi in avanti, il problema della tutela delle prostitute rimpatriate resta, in tutta la drammaticità. Anche laddove aumentano le possibilità di ricorrere a canali di assistenza, nella maggioranza dei casi le vicende relative alle ex prostitute continuano a risolversi in modo “privato”: una volta esauriti i controlli da parte delle autorità, le ragazze restano sole, alla mercé degli “amici degli amici”. Dalla sola Nigeria, secondo uno studio dell’Unicri pubblicato l’anno scorso, si stima che nel giro di sei mesi al massimo circa la metà delle ragazze rimpatriate torni di nuovo in Italia o in Europa.

Stella, partita dalla Moldavia per la seconda volta, chi ha messo anche meno. Pochi giorni. Come tante altre ragazze, oggi vive il ricatto della clandestinità. MA non solo. Segnalata dalle polizie di più Paesi, ha anche un nuovo debito da saldare ai suoi sfruttatori: il secondo viaggio di sola andata. Lavora molto, tra Marsiglia e Tolone, e non sarà lei a scegliere se e quando vorrà andarsene. Saranno i suoi padroni a decidere se dovrà tornare in Italia o trasferirsi in Belgio, in Olanda, in Germania. Oppure sarà la polizia, e un tribunale, a pensare che forse è giunto il momento di ritornare a Chisinau. Di certo lei è ancora bella e ancora molto forte. Ubbidirà. Chissà fino a quando.