Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da Il Manifesto del 12 ottobre 2004

Quella frontiera chiamata Libia di Federica Sossi

Il racconto di chi è arrivato a Lampedusa dopo aver attraversato mezza Africa, finendo nella trappola libica. Ordinarie storie di «problemi» tra violenza, razzismo e rapine Non sono fuggiti solo per fame ma per problemi politici, o per evitare il servizio militare. Un percorso che può durare anche parecchi anni, con tappe forzate in prigione, o a lavorare per guadagnare i soldi da pagare alla tappa successiva. In compagnia di banditi nel deserto, sfruttatori nelle città, poliziotti rapaci e funzionari corrotti.
Inutile dire che i nomi non sono i loro. Amaniel, Tekle, Ibrahim, Abdelhamid, Enok parlano del loro viaggio, io ascolto, Mahjoub fa l’interprete. Non di tutti, la lingua non è solo l’arabo ma anche il tigrino, e per farsi capire da Mahjoub, l’unico che conosce l’italiano, devono dapprima parlare nella loro lingua con qualcuno che la conosce e che parla l’arabo, poi il racconto viene sintetizzato in arabo e infine Mahjoub sintetizza in italiano. In tutto questo sfugge molto, rimangono però alcune parole che ricorrono: mushkela, problema, brutto, polizia, galera, soldi e di nuovo mushkela, problema. Sono arrivati da due mesi, passando da Lampedusa, e prima ancora dalla Libia. Il mondo libico dall’interno: un interno di due anni, di sette giorni, di qualche mese. Conosciuto e temuto anche da chi ci è rimasto pochi giorni, perché si parte verso la Libia conoscendo già i racconti di chi non è riuscito a raggiungere Zuara e da lì l’Italia ma è stato riportato indietro, non sempre nel paese d’origine, spesso invece alla frontiera. Accade di frequente, ad ogni tappa c’è il rischio di quel ritorno: alla frontiera con il Niger, nel caso in cui si provenga dalla Liberia, dal Ghana, dalla Nigeria; alla frontiera con il Sudan, nel caso in cui si provenga dal Sudan, dall’Etiopia, dall’Eritrea. Loro si fermano lì, alla frontiera, ci rimangono qualche giorno o qualche mese, recuperano i soldi per ripetere quel passaggio e ritornano in Libia, alla volta di Bengasi, poi di Tripoli, e a Zuara aspettano una barca.

Le due frontiere devono essere un pullulare di racconti, in cui tutto viene descritto nei minimi dettagli a chi è alla sua prima esperienza e deve ancora intraprendere quella parte di viaggio. Il mare è solo l’ultima tappa di questo percorso e solo l’ultimo rischio di morte, un orizzonte blu o nero, minaccioso, al di là del quale però si aspettano la libertà: fatta di fogli di via o di permessi di soggiorno temporanei per richiesta d’asilo, di centri di detenzione italiani e di rimpatri, sino a quel giovedì 30 settembre. Dal giorno successivo, la libertà di una deportazione con le manette al polso alla volta di Tripoli.

Le tappe temporanee

Parliamo a lungo e la loro Libia inizia a stagliarsi dettagliata, c’è bisogno di una mappa, la prendiamo e le dita iniziano a indicare. I nomi delle città: tappe temporanee dalle quali non è detto che si riesca a proseguire, spesso si rimane bloccati, qualcuno ti ha chiesto soldi o te li ha rubati, bisogna fermarsi lì, lavorare per racimolare qualcosa per il viaggio verso la costa, oppure qualcuno ti mette in prigione, dalle parti di Bengasi c’è un centro di detenzione.

Abdelhamid non ha molta voglia di parlarne: ci è rimasto sei mesi, erano molti, tremila circa, molte lingue e luoghi di provenienza, non capiscono niente, poca acqua, poco cibo, molti manganelli, da lì la polizia l’ha riportato indietro con altri cinquanta, ha pagato di nuovo ed è ritornato in Libia.

Alla fine dei loro racconti, Amaniel mi dice che l’indomani mi scriverà il suo viaggio. E’ una buona idea, ma non c’è il computer e non hanno i soldi per un internet cafè. Gli consegno il mio registratore con una cassetta vuota, gli spiego come funziona, è contento, il giorno dopo alle sette di sera me lo restituirà: lui parla inglese, un lungo racconto, poi parla un suo amico in tigrino, parla anche Amaniel, sempre in tigrino, perché fa le domande all’amico e Enok racconta rispondendo ad Amaniel.

Amaniel. Grazie mille dell’occasione che mi dai di parlare dei problemi, del modo di viaggiare in Libia e nel Sahara. Grazie molte per darmi l’occasione per spiegare i problemi che le persone hanno a causa della guerra. Per prima cosa voglio parlare dell’Eritrea e far capire la ragione principale perché le persone emigrano. L’Eritrea è un paese di quattro milioni di persone e lì c’è la mia famiglia. Ho anche un problema con quel governo. Ho passato un anno in prigione. Non vivevamo come volevamo e desideravamo, non avevamo la libertà di vivere come una bella persona. Negli ultimi tempi le persone emigravano in Etiopia e avevano problemi di lingua, quando non parli la lingua di un paese ti possono trasformare in un nemico e questo non aiuta gli emigrati, ti fanno fare quello che vogliono. I giovani emigrano perché devono fare la Sawua (addestramento militare), ma loro rifiutano e scappano in altri paesi. Ti spiego il modo in cui inizialmente le persone arrivano in Libia, poi Enok ti spiega la situazione in Libia. Io davvero spero che questa cosa non debba capitare ad altri.

Si comincia da Gondar

E’ iniziato in Etiopia, da Gondar, abbiamo speso molti soldi qui al posto di passaggio, alla frontiera, e dopo sono stato sette mesi in Sudan raccogliendo soldi per andare in Libia perché devi fare molta fatica per passare da una parte all’altra. Lì c’erano delle vecchie auto Toyota, usate. Avevamo il cibo razionato, biscotti e acqua, e abbiamo pagato 300 dollari per passare a Kufra. Durante il percorso c’è stato un incidente sulla strada del Sahara perché un’auto non era adatta per fare questo viaggio. Così funziona: ed è abbastanza inspiegabile, non ho le parole giuste per spiegarlo: persone che muoiono perché finiscono l’acqua e il cibo, venti giorni per arrivare in Libia, questa è la situazione, senza che nessuno lo venga a sapere da nessuno, nemmeno un dio.

Senza medicine, senza nessun tipo di aiuto e nessuna ospitalità arrivano in Libia. E poi ancora 400 dollari, il pedaggio, e poi i soldi per il cibo e l’alloggio, e poi vogliono continuare il viaggio da Kufra sino a Ildava, poi 1000 chilometri per Tripoli, sino all’Italia. A Bengasi il guaio principale è che incontri la polizia e se non hai soldi puoi rimanere in prigione per molto tempo. Sono stato sette mesi in Libia con amici della mia nazionalità ma anche con molte altre persone della Nigeria, del Sudan, del Ghana. Il problema non è solo per gli eritrei o gli etiopi ma per tutti. Non c’è un corpo diplomatico in Libia, credo di aver visto l’ambasciata eritrea in Libia ma non hanno fatto niente per le persone dell’Eritrea, non c’è nessuno che si prenda cura degli eritrei. Sono troppi problemi da spiegare, per me.

Penso che se tu chiedi della Libia a qualcuno che è arrivato in Italia, ti dirà che la Libia non è un buon paese. Le persone hanno avuto così tanti problemi con i libici, i libici usavano il coltello per rubargli i soldi, se vai fuori dalla tua casa per andare in qualsiasi posto, per bere un caffè o qualcosa del genere, vengono da te in gruppo e se poi vai dalla polizia i poliziotti ti saltano addosso e ti dicono che non si occupano di altre nazionalità.

Quindi voglio parlare per coloro che verranno dalla Libia in Italia. Se c’è qualche ufficio in Italia per questi immigrati che sono passati per la Libia voglio fargli capire cosa queste persone hanno passato, perché in Libia può capitarti qualcosa di brutto per qualsiasi motivo, in qualsiasi modo. Il governo libico ha una sua propria struttura e le persone non sanno abbastanza, non hanno libertà, non c’è qualcosa come questo (il registratore che gli ho lasciato, ndr) per potersi esprimere liberamente. Voglio spiegarti il problema del mio popolo e delle altre nazionalità: la guerra non è buona, se c’è una guerra non puoi dormire, vivere bene, andare a scuola e non puoi guadagnare in modo libero, ecco perché le persone vanno via dai loro paesi per andare in posti dove c’è la pace».

Enok. Nel mondo in cui viviamo la carta e le firme sono quotidiane, e questo non va a vantaggio delle persone che sono vittime della guerra e della fame, perché nessuno cerca di affrontare questi problemi. Dall’Eritrea, i giovani sono scappati per poter trovare una soluzione a dei problemi, ma poi hanno trovato una situazione più complessa e problematica. Non hanno trovato giustizia. Per esempio, dall’Eritrea verso il Sudan o dall’Eritrea verso l’Etiopia e poi in Sudan è molto difficile. Una volta entrati in Sudan il problema della lingua, il problema della cultura, i problemi economici non sono facili. C’è un ufficio delle Nazioni unite solo nominale, che non dà nessuna soluzione, anche se questo non vuol dire che qualcuno non possa trovare una soluzione di fortuna o casuale. Per questi problemi incontrati in Sudan le persone decidono di partire attraverso un luogo da cui non sono passati nemmeno gli animali del mondo. Non ho occhi, non ho denti. Io sono morto da vivo e anche se muoio è lo stesso.

Libia vuol dire Sahara

Ho fatto questa scelta e sono arrivato in Libia. Libia vuol dire anche Sahara, non è diverso, perché poi incontri dei shifta (rapinatori) che chiedono soldi e quando non li ottengono ammazzano la gente. La Libia e il Sahara sono identici. Quando arrivi in Libia il governo libico non è meglio dei banditi. Uno dei motivi per cui loro del governo si comportano come banditi è che ti accusano di essere arrivato illegalmente. Non vedono i problemi che ti spingono ad arrivare qua. Le autorità locali organizzano delle specie di prigioni, che il governo non conosce. Organizzano queste prigioni e se tu sei capace, linguisticamente, puoi uscire pagando da un minimo di 300 dollari sino a 1200. Se non hai soldi ti fanno tornare nel tuo paese.

Se invece esci, vai a Bengasi e da lì pagando dei soldi puoi ottenere un visto provvisorio, a volte con 70, 100 dollari, a volte anche 150. Con questi permessi puoi entrare a Tripoli in modo quasi legale. E quando entri a Tripoli, dal ragazzo di dieci anni sino al vecchio chiunque ti chiede soldi. Se dici che non hai soldi ti prende tutto quel che hai addosso, orologi, ecc., e poi alla fine ti possono anche ammazzare o ferire col coltello se non hai qualcosa che si possa prendere. Quando vai di fronte alla legge per reclamare ti dicono: perché sei venuto nel nostro paese?

Questo di giorno, per quanto riguarda i civili. Poi durante la notte diventa il momento dei poliziotti, vanno in giro per le case o nei luoghi di raccolta, perquisiscono le persone e portano via tutto quel che hanno. Io non ho una conoscenza politica approfondita e quindi non sto parlando dal punto di vista politico. Sto partendo dalla mia esperienza e da quello che mi è successo. Il motivo per cui io sono andato via dall’Eritrea, forse per via della politica del governo, forse perché ho avuto dei problemi con i dirigenti. Se non ottieni giustizia non puoi far altro che scappare da questa situazione, perché a volte si arriva anche ad essere ammazzati a fucilate e allora a quel punto decidi di scappare. Anche se queste cose non vengono fatte alla luce del sole, succedono anche in prigione senza che nessuno lo sappia: è un fatto comune, ammazzare delle persone non alla luce del sole o all’aperto. Quindi prima che questo capiti a te, scappi. Tutti quelli che adesso sono in Libia non sono persone che avevano fame o che non avevano lavoro: ma quando non c’è giustizia, la pace, la democrazia per ottenere la giustizia o per mantenersi in vita, allora prima che succeda a te, scappi».