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dal Corriere della Sera del 26 maggio 2005

L’ira di Gheddafi con Berlusconi: «Tratto solo con Pisanu»

ROMA – Quando nell’ottobre scorso l’ambasciatore libico si congedò dalle autorità italiane annunciando che non sarebbe arrivato un successore, nessuno diede troppo credito alle sue parole. E invece adesso, di fronte a migliaia di clandestini – si parla di almeno 15.000 persone – che vorrebbero imbarcarsi verso l’Italia, il problema della crisi nei rapporti tra Roma e Tripoli diventa il vero nodo da affrontare per fronteggiare quella che rischia di diventare la nuova emergenza dell’estate. La decisione di non occupare la sede diplomatica appare la manifestazione più evidente dell’irritazione di Muhammar Gheddafi nei confronti del premier Silvio Berlusconi. E nell’ultimo periodo molti altri segnali sono arrivati per marcare la distanza tra i due Paesi. L’unico ammesso alla corte di Gheddafi è il ministro dell’Interno Giuseppe Pisanu che ormai da un anno cerca di far funzionare l’accordo per bloccare gli sbarchi dalle coste africane. Il patto è stato rinnovato di recente. Il Viminale si è impegnato a spendere 15 milioni di euro in tre anni per dotare le forze di polizia locali degli strumenti necessari a combattere l’immigrazione clandestina.
Ma non basta, non può bastare di fronte al «grande gesto» che, come ripetono fonti della diplomazia libica a Roma, «Gheddafi aveva chiesto al vostro presidente del Consiglio, ricevendo assicurazioni che tutto sarebbe stato fatto». In ballo c’è la costruzione della famosa autostrada litoranea che dovrebbe collegare la Libia all’Egitto. È questo il «grande gesto» che il colonnello pretende. L’Italia aveva mosso alcuni passi. Nel dicembre scorso un gruppo di lavoro scelto dal ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi è volato in Libia, ha effettuato sopralluoghi, avrebbe addirittura preparato alcuni studi di fattibilità. «Ma poi – spiega la fonte diplomatica libica – non se n’è saputo più nulla e Gheddafi si è sentito preso in giro». L’impegno dell’Italia nei confronti dell’Unione Europea che ha portato alla sospensione dell’embargo nei confronti della Libia viene giudicato quasi un atto dovuto. Con il trascorrere dei mesi i rapporti tra i due Stati si sono raffreddati e tutti i progetti, compresi quelli già avviati, sono stati rimessi in discussione.
Nessun nuovo appalto sarà concesso all’Eni «perché – è stato spiegato dal governo di Tripoli – il nostro fisco già vanta parecchi crediti nei confronti dell’Ente». Bloccata anche la concessione dei visti per gli italiani ex residenti che secondo l’accordo siglato lo scorso autunno sarebbero dovuti rientrare dopo la cacciata del 1970. Si dialoga soltanto sull’immigrazione, ma nessuno è in grado di dire per quanto tempo ancora. Le squadre miste di investigatori hanno cominciato a lavorare, sia pur tra mille difficoltà. Alla polizia locale sono stati consegnati ottanta fuoristrada, cinque gommoni, radio ricetrasmittenti, pannelli solari da installare negli uffici che si trovano sulla costa per far funzionare la rete elettrica. L’Italia si è accollata anche l’onere di effettuare i rimpatri «interni»: a bordo di charter e pullman si occupa di organizzare e finanziare il trasferimento dei clandestini dalla Libia ai Paesi di origine.

Tripoli apprezza, ma giudica questo impegno «non sufficiente». La diplomazia nega che gli ultimi sbarchi possano essere stati in qualche modo agevolati per lanciare un avvertimento. «Continueremo a collaborare», assicurano. Ma questo non basta a tranquillizzare chi gestisce il problema dei clandestini e il sovraffollamento ormai drammatico dei centri di accoglienza. Le ultime informazioni raccolte dagli ufficiali di collegamento che si trovano in Africa annunciano possibili arrivi da Mali, Ciad, Niger, Sudan e Corno d’Africa. Ma la vera nuova emergenza sembra essere quella dell’Egitto perché, dicono gli analisti, «ha il maggior numero di cittadini che tenta di entrare illegalmente in Europa». Quasi tutti passano per la Libia e dunque è con quel governo che bisogna continuare a trattare.

Fiorenza Sarzanini