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Diritto di asilo – Recepita dall’Italia la direttiva sulle norme minime per l’accoglienza

Avevamo già dato notizia dell’approvazione del decreto legislativo di attuazione della direttiva dell’Unione Europea del 27 gennaio 2003, n. 2003/9/CE, recante norme minime relative all’accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri (G.U. n. L 31 del 6 febbraio 2003).
La direttiva ha lo scopo (art. 1) di stabilire delle garanzie minime per coloro che sono nella fase di attesa del riconoscimento dello status di rifugiato e che confidano nell’accoglienza delle strutture della pubblica amministrazione e nel riconoscimento – durante questa fase provvisoria – di una serie di diritti minimi.
In attuazione di questa direttiva, il governo ha finalmente approvato lo “Schema di decreto legislativo recante attuazione della stessa (il termine ultimo di recepimento stabilito nella direttiva era il 6 febbraio 2005), non ancora pubblicato nella Gazzetta Ufficiale.

Un aspetto molto importante del decreto attuativo è che rende operativo un diritto sancito a livello comunitario, ovvero il diritto dei richiedenti asilo di poter – anche nella fase provvisoria di attesa del riconoscimento dello stato di rifugiato – accedere ad un regolare lavoro subordinato, quindi guadagnarsi decorosamente da vivere anche se nel frattempo non è pervenuta una decisione in merito alla loro domanda; ciò è possibile trascorso un termine non inferiore a sei mesi. L’art. 11, comma 1 (Lavoro e formazione professionale), del decreto prevede infatti che: “Qualora la decisione sulla domanda di asilo non venga adottata entro sei mesi dalla presentazione della domanda ed il ritardo non possa essere attribuito al richiedente asilo, il permesso di soggiorno per richiesta asilo è rinnovato per la durata di sei mesi e consente di svolgere attività lavorativa fino alla conclusione della procedura di riconoscimento”.
La direttiva stabilisce ciò a fronte di una realtà molto diffusa, non solo in Italia, di persone che per molto tempo attendono una decisione definitiva sul riconoscimento o meno del loro status di rifugiato, e nel frattempo pretendono, giustamente, di poter andare a lavorare e guadagnarsi da vivere alla luce del sole senza essere costretti al lavoro nero.
Lo schema del decreto legislativo prevede poi tutta una serie di discipline, di aspetti che sono già regolamentati compiutamente nella direttiva, quali il diritto dei richiedenti ad essere informati sui diritti che competono nei vari ambiti, sia rispetto alle prestazioni previste (si veda l’art. 10 relativo alla assistenza sanitaria e istruzione dei minori), sia rispetto al diritto di difesa.
E’ curiosa, e la citiamo testualmente, la norma all’articolo 3 (Informazione) dello schema in oggetto, che recita: “La Questura che riceve la domanda di asilo ai sensi dell’articolo 2, comma 1 del regolamento, provvede, entro un termine non superiore a 15 giorni dalla presentazione, all’informazione sulle condizioni di accoglienza del richiedente asilo, con la consegna all’interessato dell’opuscolo di cui all’art. 2, comma 6, del medesimo regolamento.
In altre parole ci sono ben 15 giorni di tempo per dare al richiedente asilo l’informazione sui diritti ed i doveri durante la fase di attesa.

Ma come vengono date queste informazioni?
Con la consegna all’interessato di un opuscolo. La cosa strana è che sono necessari quindici giorni per consegnare l’opuscolo, che peraltro è già consultabile; copie dello stesso sono infatti scaricabili dai siti internet ed è già stato commentato da molti studiosi come incompleto e pieno di informazioni imprecise.
Comunque, al di la del contenuto più o meno preciso, la cosa assurda che balza agli occhi è che ci vogliono 15 giorni per la sua consegna!!! Questo fatto non merita ulteriore commento.

La possibilità di lavorare nella fase del ricorso al diniego
L’esclusione dell’utilizzo di strutture pubbliche

Relativamente alla già commentata possibilità di lavorare per chi è in attesa dell’esame della domanda di asilo, indirettamente si riconosce la possibilità di lavorare anche nella fase di contenzioso giudiziario, cioè si presuppone che lo straniero possa fare la sua domanda di riconoscimento, che potrà essere eventualmente rifiutata da parte della Commissione territoriale, e poi possa promuovere un ricorso giurisdizionale. Ciò perché l’art. 5, comma 7, dello schema del decreto legislativo, prevede che “… in caso di ricorso giurisdizionale verso la decisione di rigetto della domanda di asilo, il ricorrente autorizzato a soggiornare sul territorio nazionale ha accesso all’accoglienza solo per il periodo in cui non gli è consentito il lavoro, ovvero nel caso in cui le condizioni fisiche non gli consentano il lavoro”.
Questa norma, che contiene una disposizione negativa – con cui si esclude che il richiedente asilo possa beneficiare delle strutture di accoglienza pubbliche nel caso in cui abbia un reddito da lavoro – presuppone indirettamente che l’interessato possa provvedere per suo conto, ammettendosi che durante il ricorso giurisdizionale il richiedente possa rimanere sul territorio italiano.
Questa disposizione però potrebbe ingannare e sembrare “troppo favorevole”.

È possibile rimanere in Italia dopo il diniego della domanda?
In realtà, il d.p.r. 16 settembre 2004, n. 303 (Regolamento relativo alle procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato (Gazzetta Ufficiale – Serie gen. -n. 299 del 22 dicembre 2004) non ammette la permanenza sul territorio italiano dopo il diniego della domanda, salvo che non intervenga un autorizzazione dell’autorità amministrativa durante la fase giurisdizionale, cioè quella fase in cui si chiede al giudice di valutare l’illegittimità del provvedimento di rifiuto di riconoscimento dello status di rifugiato.
La possibilità di rimanere in Italia è però rimessa alla decisione unilaterale dell’autorità amministrativa, mentre invece il ricorso – secondo la legge Bossi-Fini e le modifiche applicate con il regolamento citato – non comporta automaticamente la sospensione degli effetti del rifiuto del riconoscimento dello status di rifugiato.
In altre parole, lo straniero che ha chiesto lo status di rifugiato e se lo vede rifiutare dalla Commissione territoriale, potrebbe essere immediatamente espulso; anche se proponesse tempestivamente un ricorso, questo non comporterebbe automaticamente la possibilità di sospensione che è esclusa dalla normativa. Si vedrà se la magistratura considererà lecita questa disposizione e, soprattutto, conforme con i principi della Costituzione e di tutela dei diritti dell’uomo.

Quindi, non è automatico che una volta dato il rifiuto da parte della Commissione, vi possa essere un effetto sospensivo attivando un ricorso; e non è nemmeno automatico che durante la fase del contenzioso giudiziario l’interessato possa anche svolgere attività lavorativa.
Tutto è rimesso ad una valutazione da parte della giurisprudenza e, soprattutto, ad una verifica anche della prassi che verrà applicata nella pratica.
Nel caso in cui l’interessato riuscisse ad ottenere un provvedimento giudiziario che intanto sospendesse gli effetti del rifiuto del suo riconoscimento come rifugiato, ecco che potrebbe accedere finalmente allo svolgimento di un’attività lavorativa regolare, anche se non prima che siano trascorsi i sei mesi dal suo ingresso in Italia.
Si tratta di un percorso roccambolesco! Vedremo se sarà reso praticabile dall’interpretazione della magistratura, per lo meno a coloro che saranno adeguatamente informati; sicuramente non sulla base di quanto appreso dall’opuscolo del Ministero dell’Interno.

Le ipotesi di esclusione dell’accoglienza per il richiedente asilo
Altro elemento che preoccupa dello schema di decreto legislativo in oggetto è l’espressa previsione (art. 5, comma 4) che “l’accesso alle misure di accoglienza di cui al comma 2 (quindi l’ospitalità presso strutture varie, probabilmente le stesse dell’ex Programma Nazionale Asilo) è garantito a condizione che il richiedente dimostri che ha presentato la domanda d’asilo entro il termine previsto dall’art. 5 comma 2, del Testo unico, decorrente dall’ingresso nel territorio nazionale”.

Il termine ha cui si fa riferimento è quello di otto giorni – a partire dall’ingresso nel territorio nazionale – previsto per presentare la cosiddetta dichiarazione di soggiorno, cioè la domanda di permesso di soggiorno. Si prevede quindi che il richiedente lo status di rifugiato possa ottenere accoglienza nelle strutture a ciò predisposte, ma solo se potrà dimostrare di aver presentato domanda di permesso di soggiorno, o, comunque, domanda d’asilo, entro otto giorni dall’ingresso nel territorio nazionale; salvo poi dimostrare quando è avvenuto l’ingresso nel territorio nazionale.
Com’è noto, un richiedente asilo entra (o tenta di entrare) in un paese ove intende chiedere lo status di rifugiato in condizioni normalmente irregolari, privo di documenti validi o, addirittura, con documenti falsi, in quanto fugge dal proprio paese.

L’interessato non è informato sui diritti che può esercitare nel paese in cui approda e a quali autorità può rivolgersi. Trattandosi di una persona in fuga – magari nascosto in qualche stiva o in qualche container – è ovvio e umanamente comprensibile che, appena arrivato, ristabilitosi dal viaggio e da tutto quanto gli è accaduto, cominci a prendere informazioni per capire in che paese si trova e cosa può fare. Una volta ottenute delle informazioni ritenute affidabili, ecco che finalmente si attiverà per rivolgersi ufficialmente all’autorità competente e chiedere lo status di rifugiato.
Ebbene, non è affatto detto che questa necessità di orientarsi all’interno del paese dove è approdato, possa soddisfarsi in soli otto giorni.
Inoltre sono noti casi, ancora più frequenti, di persone che vengono intercettate direttamente nel momento in cui arrivano nel territorio italiano; in tali situazioni, il problema di presentare la richiesta entro otto giorni, non si pone.

Questa scelta di prevedere una esclusione dall’accoglienza, quindi dall’ospitalità, nel caso di persone che per avventura presentino una domanda dopo gli otto giorni o non siano comunque in grado di dimostrare che l’hanno presentata entro gli otto giorni, ha veramente dell’assurdo.
Ma questo è quanto testualmente previsto dalla norma sopra riportata, salvo poi considerare se verrà considerata legittima o meno.

Rinnovo permesso soggiorno dopo i sei mesi
All’art. 11 dello schema del decreto in oggetto si prevede che: “Qualora la decisione sulla domanda d’asilo non venga adottata entro sei mesi dalla presentazione della domanda ed il ritardo non possa essere attribuito al richiedente asilo, il permesso di soggiorno per richiesta asilo è rinnovato per la durata di sei mesi e consente di svolgere attività lavorativa fino alla conclusione della procedura di riconoscimento”.
Con questo articolo si ammette, una volta trascorsi i primi sei mesi, il diritto di svolgere regolare attività lavorativa; ciò sempre che l’interessato riesca a raggiungere la soglia dei primi sei mesi e, nel frattempo, abbia conservato l’autorizzazione a soggiornare sul territorio italiano.

Si è già precisato che il ricorso, secondo la normativa attuale, non dovrebbe avere effetto sospensivo o meglio, non potrebbe avere effetto sospensivo. Solo la “graziosa” decisione unilaterale dell’amministrazione potrebbe consentire all’interessato di permanere nel territorio italiano durante la fase del contenzioso giudiziario, cioè durante il tempo necessario ad accertare la legittimità o meno del rifiuto di riconoscimento dello status di rifugiato.

Naturalmente confidiamo che tutti i richiedenti asilo si vedano riconosciuto il diritto di permanere sul territorio dello Stato durante tale periodo e riteniamo che tutti abbiano diritto a una fase di contenzioso giudiziario in cui poter continuare a rimanere sul territorio italiano senza rischiare il rinvio verso il paese da cui provengono.
Trascorsi i primi sei mesi finalmente il decreto riconosce il diritto di lavorare in regola alle condizioni di cui sopra.
Tale diritto – introdotto malvolentieri dal Governo italiano anche se espressamente riconosciuto dalla direttiva dell’Unione Europea – potrebbe però non essere riconosciuto nel caso in cui il ritardo nella decisione definitiva sulla domanda di riconoscimento dello status di rifugiato possa essere attribuito a responsabilità del richiedente.

L’art. 11, comma 3, descrive le ipotesi in cui il ritardo è attribuito al richiedente asilo:
– presentazione di documenti e certificazioni false relative alla sua identità o nazionalità o, comunque, attinenti agli elementi della domanda di asilo;
– rifiuto di fornire le informazioni necessarie per l’accertamento della sua identità o nazionalità;
– mancato presentazione del richiedente asilo all’audizione davanti l’organo di esame della domanda, nonostante la convocazione sia stata comunicata presso il centro di accoglienza ovvero nel luogo del domicilio eletto, fatti salvi i motivi di forza maggiore.

Al comma 4 dello stesso articolo si precisa però che, nel momento in cui il richiedente asilo dovesse svolgere un attività lavorativa, non potrà più continuare ad usufruire delle condizioni di accoglienza, se non contribuendo alle relative spese.
In altre parole, nel momento in cui troverà un’occupazione lavorativa con conseguente disponibilità di un reddito, l’interessato dovrà cominciare a pagare, a contribuire alle spese per il suo sostentamento presso il centro di accoglienza.
Non si specifica però se sarà o meno riconosciuto un certo periodo di adattamento.
Esempio pratico – Se un richiedente asilo inizia a lavorare, la prima busta paga arriverà, se tutto va bene, dopo un mese e, quindi, non si capisce come potrebbe iniziare da subito a contribuire alle spese per il suo sostentamento.
Si confida naturalmente che l’attuazione di questa disposizione sia effettuata anche con un minimo di buon senso, cioè riconoscendo che nessuno può pagare con dei soldi che non ha ancora ricevuto.

E’ pura fantascienza pensare che, per il solo fatto che il richiedente asilo trova una regolare occupazione, possa poi trovare un alloggio a pagamento al di fuori del centro di accoglienza.
Possiamo immaginare come potrebbe essere difficile trovare un alloggio per una persona in possesso di un permesso di soggiorno che, per definizione, è provvisorio e che dopo pochi mesi potrebbe non essere più rinnovato; credere che un richiedente asilo che da poco sta lavorando possa da subito pagare e addirittura rendersi autosufficiente rivolgendosi al libero mercato, è una pretesa a dir poco eccessiva.