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La cattiva novella

Reportage di Corrado Magliani

A Cassibile, vicino Siracusa, la raccolta delle patate diventa un inferno per centinaia di immigrati. Vivono in accampamenti, lavorano dall’alba al tramonto, non hanno luce né acqua per lavarsi

«Un tempo le montagne sopra Cassibile erano la casa del bandito Salvatore Giuliano». Con un po’ di orgoglio, Sebastiano indica le alture nude e secche che si stagliano dietro le schiene curve dei suoi braccianti che «lavorano le patate».
Sebastiano è un proprietario terriero che ha mandorleti, aranceti, limoneti, patate e coltivazioni di ortaggi vari. Alle sue dipendenze una cinquantina di persone, più gli stagionali per la raccolta.

Siamo in un campo lungo 400 metri, tagliato da file di casse piene di patate: le nobili “patate novelle di Cassibile”, tanto stimate in cucina quanto dannate al momento della raccolta. Da queste parti la produzione non ha visto grossi cambiamenti nel corso del tempo: tutto il lavoro si fa a mano, complice una terra sporca di sassi che rovina qualsiasi macchinario ma che dà qualità alla patata. Tutta la produzione di Sebastiano è “prodotto biologico” e lui scherza con i suoi lavoratori dicendo che, senza le loro mani, le patate non sarebbero biologiche.
Ma i suoi lavoratori non hanno molta voglia di scherzare. Sono le cinque del pomeriggio e loro sono su quel campo dalle sette di mattina. Per finire la giornata bisogna ancora caricare tutte le casse sul camion.
Oggi è sabato e molti hanno fretta di concludere perché, a sera, riceveranno la paga della settimana: chi ha lavorato di più avrà in mano 180 euro. Per fare questo lavoro non servono particolari competenze, basta avere le gambe molto resistenti e abituarsi alla forza di un sole che già a metà giornata non si sopporta più.
Ma se nel tempo la raccolta non è cambiata, a cambiare sono stati i lavoratori. Oggi un vero e proprio esercito di raccoglitori si schiera a disposizione dei proprietari terrieri, prendendo posto nelle campagne appena fuori Cassibile. Tutti immigrati e tutti senza documenti perché, come ci dice Sebastiano, i «patruni» preferiscono gli irregolari che, oltre a costare meno, danno anche meno fastidio.

Si accampano in baracche costruite con materiali di scarto e teli di plastica per difendersi dalla pioggia. Nel periodo di massima raccolta sono quattrocento le persone che a fine lavoro raggiungono il paese per procurarsi acqua e cibo, ma i cinquemila abitanti della cittadina siciliana gli sono ostili.
Jilali ha 38 anni, viene dal Marocco, e questo è il suo primo anno a Cassibile. Non vuole più tornare qui perché, dice, così magro non lo prende nessuno a lavorare. E poi, da quando è qui, ha continui mal di denti e la notte non dorme. Mi porta a visitare la sua capanna e appena ci sediamo tira fuori tutto il necessario per preparare un thè «portato dal Marocco». Divide lo spazio con un suo amico: due brandine e un telo di plastica sono la loro casa, fuori “la cucina” con dei sassi per delimitare il fuoco e alcune pentole annerite. Cucinare non è cosa facile, in genere per ogni gruppo c’è un addetto ai fornelli, ma la dieta non è molto varia: patate (naturalmente) e pollo fritto. In paese il macellaio si è adeguato ai nuovi clienti e offre in un angolo del negozio carne macellata con i metodi musulmani. Jilali mi vuole portare a visitare la moschea che si trova al confine del campo.
Dietro ai carrubi si ammassano le capanne dei sudanesi «sempre assieme e sempre rumorosi», si lamenta Jilali. I marocchini sono più distanti, a destra un gruppo di ghanesi, a sinistra i nigeriani. L’accampamento si divide così per appartenenza geografica e tra i viottoli che uniscono le baracche si sentono i suoni dell’Africa.
C’è chi viene qui ogni anno e molti vedono in Cassibile la prima tappa di una sorta di tour del bracciante che prevede soste in Puglia, Calabria, Campania, e copre tutto il ciclo dell’agricoltura, dal periodo delle patate (maggio-luglio) a quello della vendemmia (settembre-ottobre). Nel mezzo ci sono le raccolte di meloni, cipolle e pomodori. Si spostano in gruppi di amici, spesso venuti in Italia insieme, e vanno a riempire le campagne del Mezzogiorno ripopolando quella sorta di “archeologia agricola” fatta di casolari abbandonati, stalle dismesse e magazzini svuotati.

La moschea è quasi a ridosso della linea ferroviaria oltre la quale fino a pochi giorni fa continuava l’accampamento, ma ora non restano che alberi bruciati e terra nera.
«È stato il segnale della fine della raccolta», mi spiega Ibrahim, un ragazzo sudanese di 22 anni che abita davanti alla moschea. «Una domenica pomeriggio è iniziato l’incendio e molti hanno visto bruciare i propri soldi e documenti. I pompieri dicono che è stato un nostro fuoco spento male, ma qui nessuno ci crede. Perché è successo proprio quando il grosso della raccolta era finito? Perché proprio al confine con gli altri campi?».
Jilali spiega tutto con una formula: «Cassibile: tutto orribile». La moschea è un recinto di sassi con il terreno ricoperto di cartoni. L’imam è un uomo di 48 anni dagli occhi stanchi e sereni.
Non capisce l’italiano né altre lingue europee, ma il suo sguardo parla di una rassegnazione che va oltre la situazione in cui si trova.
Si lava mani, piedi e testa prima di entrare nel recinto sacro e recitare le preghiere. Intorno i suoi compagni lo guardano in rispettoso silenzio.

Da quattro anni questa carovana della disperazione viene accompagnata dalla Missione Italia di Medici senza frontiere che ha iniziato un’opera di monitoraggio e analisi in tutto il meridione approfondendo le problematiche degli immigrati occupati nelle campagne.
I dati sono stati raccolti nel volume I frutti dell’ipocrisia, utile per un’analisi del fenomeno. Guilhem Molinie è il responsabile per la Sicilia della Missione Italia e anche quest’anno a Cassibile ha fatto montare una tenda-ambulatorio proprio all’ingresso del dormitorio: «Sono circa 150 le persone che abbiamo visitato e tutte avevano problemi derivanti dalle condizioni di lavoro e dalla malnutrizione come tendiniti, insolazioni, scabbia. Abbiamo inoltre cercato di migliorare la situazione igienica, scavato delle fosse biologiche e attrezzato degli angoli con delle docce.
Ma il problema più grande resta la mancanza d’acqua: la fontana più vicina dista un chilometro e mezzo e per fare una doccia un secchio non basta».
Ma il paese non ha gradito la presenza di Msf e il proprietario del terreno su cui alloggiano ha denunciato la loro presenza al comando dei carabinieri per occupazione abusiva di proprietà privata.
Guilhem sorride: «In fondo il nostro presidio serve anche a questo: a svelare questa realtà altrimenti nascosta nelle pieghe di una Sicilia ancora troppo arcaica».