Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da Il Piccolo di Trieste del 14 ottobre 2006

Lavoratori edili, metà sono stranieri

Il problema dell’occupazione assilla e divide al loro interno gli extracomunitari che senza ingaggio non possono entrare in Italia

Ma se il «vu’ cumprà» fa la fame, le statistiche indicano un aumento di impieghi stabili.

«Ogni tanto mangio, e ogni tanto no. Non trovo più lavoro, e non posso tornare in Senegal perché il viaggio costa 800-1000 euro: non li ho». Niane è uno dei giovani di colore che vendono libretti e cosette per strada. È a Trieste dal 2000 dopo essere passato per la Francia. Il primo ingaggio, è scaduto, è rimasta la mercanzia. «Non vale più di 10 euro – dice -, non si vive così, ogni tanto la polizia ci ferma, ci mette anche in galera due giorni… Nessuno mi dà lavoro». E perché ha lasciato il Senegal? «Abbiamo campagna, se piove va bene, se non piove va male, e piove molto poco».
Stranieri e lavoro, e un’altra città dentro la città-porto-di mare che via via moltiplica le iniziative culturali a sottolineare intrecci vecchi e nuovi, spaesamenti autoctoni e importati. Ma questi immigrati restano spesso «invisibili», anche se è noto che a Barriera Vecchia-San Giacomo un terzo della popolazione è straniera, e che 2000 stranieri (soprattutto asiatici) si concentrano a Città Nuova-Barriera Nuova-San Vito-Cittavecchia.
La legge Bossi-Fini (ora in revisione) ha imposto ingressi di extracomunitari subordinati a un contratto di lavoro e sottoposti a quote. Pertanto lavorano prima di tutti le agenzie interinali. Le infermiere polacche a Trieste arrivarono così: nel 2004 il picco, sbarcarono in 158, da Polonia e Serbia. Mentre il ministro dell’Interno Giuliano Amato denuncia il lavoro nero, a Trieste c’è uno spiraglio interessante: tra 2003 e 2005 sono quasi decuplicati i lavoratori a tempo indeterminato, da 63 a 588. I settori d’impiego: terziario, industria, edilizia. Ci sono soprattutto cinesi, romeni, serbi. Aumento più contenuto per chi gode di autorizzazioni particolari (docenti, ricercatori, infermieri, studenti): da 414 (2003) a 605 (2005). Crescono secondo fonti della Camera di commercio i titolari di azienda: dai 1030 del 2003 ai 1783 dello scorso anno. Un dato eclatante: alla Cassa edile oltre la metà degli iscritti sono extracomunitari.
Mediamente, in Friuli Venezia Giulia, gli stranieri risultano fra i più pagati d’Italia. Non ci sono campi di pomodori come in Puglia, né fabbrichette come a Brescia, né dunque tanti immigrati da creare tensioni «da muro» come a Padova. Un’indagine Caritas-Migrantes che però cita dati del 2002 dice che guadagnano 10 mila euro all’anno. Ma se un tempo l’emigrazione per cercar lavoro era prettamente maschile adesso sono le donne a partire. Ieri dal Sudamerica, oggi dall’Est, fanno le infermiere e le badanti. Come un secolo fa arrivavano dall’entroterra sloveno in abiti da balia per i bambini. Ucraine, romene e moldave sperano di «badare», per altre donne la prospettiva è al contrario una minaccia, una desolante etichetta. Spesso in tasca c’è una laurea che non si riesce a far valere: si passa da «dottore» a inserviente. Emigrando si può faticosamente salire la scala sociale, ma facilmente anche ridiscenderla. Si arriva poveri, si finisce indigenti: a dormire in stazione o nelle strutture della Comunità di San Martino al Campo.
Spiega Marco Aliotta, responsabile del Centro di ascolto della Caritas in via Cavana che nel 2005 ha assistito 110 persone, quasi la metà straniere. Del 25 per cento di non residenti, il 22 per cento erano stranieri (spesso dunque clandestini): «Il grosso problema è quando perdono il lavoro procurato all’estero da una agenzia. Scade automaticamente il permesso di soggiorno. Adesso hanno solo sei mesi per trovare un nuovo lavoro, prima era un anno. E se hanno lavori stagionali, che cosa fanno poi? Come si riconvertono?
Finiscono al refettorio pubblico, o sono costretti a tornare a casa – prosegue Aliotta -, perchè a rischio di espulsione, e dopo l’espulsione non possono rientrare prima di dieci anni. A volte trovano più proficuo il passeur».
Clandestini ne arrivano ancora, la Caritas fornisce continuamente vestiti e viveri alle varie stazioni dei carabinieri. «Quando catturati – dice – vengono inviati al nuovo Centro di permanenza temporanea di Gradisca, poi ufficialmente espulsi». Ma in realtà non partono. Entrano nel circuito del lavoro nero, e quando ce l’hanno pagano in nero anche la casa. Secondo Massimiliano Capitanio, presidente della cooperativa La Quercia, una speranza potrà darla il progetto comunitario «Equal»: organizzazione di microimprese di (e per) il quartiere: «La separatezza degli immigrati oggi è molto evidente – aggiunge -, un Nobel è sempre un Nobel, ma per un comune lavoratore si parla subito di accoglienza-espulsione».
Dice Moustapha Dioh, segretario dell’Associazione senegalese e impegnato al Cna, coordinamento sportello immigrati: «All’associazione possono rivolgersi tutti: regolari e non. Anche italiani. Ma è difficile che gli irregolari arrivino da noi, per paura di scoprirsi. E’ un circuito invisibile. E c’è una parte di questa clandestinità – aggiunge – che non ci fa fare bella figura. C’è modo e modo di essere ’’in nero’’. Non parlo del clandestino che lavora nell’edilizia, ma dei vu’ cumprà che vendono i libri. Sono dappertutto».
Dioh mette in luce ciò gli italiani non percepiscono: la provenienza comune non sempre unisce. Cultura, censo e mestiere dividono, i gruppi si separano, si guardano in cagnesco. «Vogliamo – dice il segretario dell’Associazione senegalese – che la nostra dignità venga riconosciuta, ma non è questo il modo. Non siamo venuti per pesare sulla società, ma per arricchire la nostra stessa esperienza. Chiunque va in un paese straniero deve prima adattarsi agli usi e costumi della nazione e poi chiedere anche i propri diritti. Chi impone libri ai passanti non ha una cultura del lavoro. Non possiamo nasconderci – constata Dioh -, ma la gente deve capire: non siamo tutti uguali. E non capisco perché si danno a questi giovani libri da vendere. Si svilisce anche il libro: la gente compra non perché lo apprezza, ma perché è tanto pressata».
Aggiunge Capitanio: «Chi vende agli angoli di strada crede a quell’unica condizione, assume comportamenti stereotipati, e così autodetermina il proprio percorso, diventa stereotipo egli stesso, fa ciò che è normale al suo paese, non capisce che qui normale non è».

di Gabriella Ziani,(ha collaborato Agnese Licata)


Una cubana: «Ho dovuto rinunciare a essere medico»
Dopo anni e anni di studio e pratica, adesso in Italia Maria lavora per un’anziana

Una laurea lunga sei anni; due anni di specializzazione; cinque anni di pratica medica nelle campagne cubane; poi l’Angola e, per concludere, anche un’esperienza nella medicina sportiva. Mentre Maria (la chiameremo così) racconta la sua vita divisa tra Cuba e Italia, non si può non rimanere colpiti dal lungo elenco di conoscenze ed esperienze che può vantare questa dottoressa cubana, che non dimostra affatto i suoi 59 anni. Ma tutto questo bagaglio, adesso, a Trieste rimane inutilizzato a causa delle lunghe procedure che la legge italiana prevede per il riconoscimento di un titolo di studio conseguito in un paese non comunitario.
E così Maria, dopo aver lavorato in una casa di riposo («mi sono licenziata dopo 15 giorni, non riuscivo a sopportare la sofferenza di quei poveri vecchietti»), ha iniziato a fare la baby-sitter. «Adesso lavoro per una signora a Sistiana», racconta. E tornando indietro lo rifarebbe?. La risposta non può che essere incerta: «Mah… forse no». Troppe le cose lasciate alle spalle, in un Paese che forma «i migliori medici di tutta l’America Latina». Maria è un’immigrata un po’ particolare. Non è arrivata in Italia per cercare una condizione migliore, ma per vedere la figlia, sposata con un triestino. «Quando è morto mio marito – racconta – ho deciso di venire qua. Poi a Cuba è entrata in vigore una legge che impedisce a medici, insegnanti e atleti di uscire dal Paese, anche solo per un breve periodo». Allora, di fronte al rischio di non poter più uscire da Cuba, la scelta di rimanere a Trieste, e voltare pagina. Rinuncia non facile, anche considerando la grande differenza di «temperamento» tra il popolo cubano e quello triestino. E su questo concorda anche la figlia: «Io i primi anni odiavo i triestini, non riuscivo ad avere amiche. A Cuba esci anche da sola e conosci gente molto facilmente. Qui è molto più difficile».
Agnese Licata


Est, badanti: paga bassa e molestie Le richieste superano l’offerta
Tra molte vicende tristi anche la felice storia di una moldava e della sua famiglia

Qual è il lavoro più difficile per chi approda sul mercato triestino? Forse quello edile, vien da pensare. Dove i serbi regnano. Ma non è così secondo Mohamad Hoteit, responsabile ufficio immigrazione della Cgil, libanese, in Italia da 11 anni, mediatore sui temi della sicurezza sul lavoro: «No, è quello delle badanti. Ci sono davvero tante molestie. Ho curato il caso di una badante moldava che subiva le molestie dell’anziano per cui lavorava. Un uomo di 82 anni molto distinto, alle spalle un lavoro di un certo livello. Dopo che ho iniziato a occuparmi della cosa è venuto a dirmi: ’’Eh, ma sa, la carne è debole e lei è una bella donna’’.
«Tra l’altro – prosegue Hoteit – la donna non poteva neanche licenziarsi perché lui continuava a prometterle un contratto di due anni, e solo grazie a quello avrebbe potuto portare in Italia la figlia. Alla fine ho parlato in modo duro e sono riuscito a convincerlo. La bambina aveva 17 anni e si rischiava di perdere il ricongiungimento». Rincara Maria Stella, da Capo Verde: «Faccio la colf per una signora in sedia a rotelle… robe turche, ci vuole tanta pazienza. Ma ho lavorato anche per vecchi maschi. Dei porci. Iniziano a dirti ’’quanto sei carina’’, e poi anche se quasi non si possono muovere si buttano, perdono il pelo ma non il vizio».
Secondo il sindacalista libanese «le badanti sono pagate male, nel 90 per cento dei casi – dice – hanno contratti part-time pagati 475 euro. Poi in realtà fanno il full-time per soli 600 euro. A causa di questa legge assurda diventano succubi del datore di lavoro. E’ da anni che chiediamo un corso per badanti (come sollevare pesi senza farsi male, ecc.) ma non ci ascolta nessuno. Eppure esistono già a Milano e Genova».
In Scala Cappuccini 1, allo Sportello del lavoro, è nato ad aprile lo Sportello badanti, gestito dall’Agenzia Italia lavoro spa, emanazione del ministero del Lavoro, in convenzione con Caritas e Provincia. Lo scorso agosto le richieste sono state così tante da non poter essere soddisfatte, eppure Trieste è in coda per le domande «ufficiali» rispetto agli altri centri della regione (62 in un anno a fronte delle 817 di Pordenone e le 581 di Udine): poiché è il capoluogo ad aver più fame di assistenza agli anziani, è evidente che vince ancora il lavoro nero. Lo Sportello applica invece il contratto da colf, 693 euro al mese per un impegno quotidiano di 10 ore, ma la contrattazione personale porta il mensile fino a 800-850. Le badanti transfrontaliere hanno fatto schizzare i prezzi in alto, e la piazza triestina ormai è rinomata. Arrivano moldave, ucraine, romene.
Una di queste è Veronika Manole, ma la sua è una storia coraggiosa e a lieto fine. A Trieste sono arrivati infine il marito e la figlia di 10 anni. E qui è nato pochi mesi fa il loro secondo bambino, battezzato Federico. Hanno un appartamento interamente ristrutturato coi propri soldi e le proprie mani. E un cagnolino bianco e ricciuto, Charlie.
Così racconta Veronika, donna di modi dolcissimi: «Eravamo sposati già da 12 anni con mio marito quando ho deciso di venir via, i miei genitori ci avevano regalato la casa, ma al grezzo, non si riusciva a finirla. Mio papà era stato operaio, la mamma lavorava in una fabbrica di componenti per tv, quando è crollata l’Urss avevano in banca 100 mila rubli di risparmi: tutti bruciati, oggi non valgono più di 100 euro. Prendono una pensione di 20-30 euro, e la vita costa come in Italia, la carne perfino di più. Ci sono i campi, ma tutto si vende così a basso prezzo…».
Veronika è venuta in Italia con un visto turistico. Ha dovuto pagare 4500 euro, in parte erano «mazzette» estorte. C’è tanta corruzione, confessa. Si è fermata a Venezia, amiche connazionali l’hanno indirizzata a una nota e nobile famiglia che cercava baby-sitter. E ha felicemente assolto al compito. Dopo tre anni, con la Bossi-Fini le cose sono cambiate e Veronika si è data da fare per il ricongiungimento familiare: «Ma a Venezia avrei dovuto aspettare un anno – racconta -, tra Venezia e Marghera ci sono troppi stranieri, allora mi sono spostata a Trieste dove già viveva un mio giovane zio. Ho trovato lavoro come badante attraverso una cooperativa, seguo sempre la stessa signora e mi trovo benissimo. All’inizio ho preso un appartamento in affitto, poi quando sono arrivati marito e figlia abbiamo cambiato».
Imprenditoria al femminile. Lei guadagna sugli 800 euro, lui tra 1400 e 1500, tutti hanno imparato la lingua presto e bene («in Moldavia si parla romeno, è facile per noi»), la bimba ha concluso la prima media con «ottimo» in pagella. «Sacrifici, sì – conclude Veronika col neonato in braccio -, ma pian piano si fa…».
g. z.


Buste paga false e catene di soprusi.
Chi ce la fa approfitta a sua volta.

All’Ufficio immigrazione della Cgil sfilano tanti casi amari. Racconta il responsabile Mohamad Hoteit, libanese: «Padre e figlio muratori serbi erano rientrati nelle quote avendo una busta paga con una ditta. Poi la Questura ha scoperto che la busta paga era falsa e che non risultava all’Inail. In questa situazione c’erano 120 persone. Invece di perseguire la ditta, in Questura se la sono presa con i lavoratori, pensando subito che fossero stati loro a falsificare i documenti. Ma è la Questura che ha fatto male i controlli. La ditta aveva preso i contributi per le quote d’immigrazione e poi aveva fatto buste paga false. Abbiamo fatto ricorso al questore, ha rifiutato. Lo stesso per il Tar. Adesso denunciamo la ditta». Hoteit è critico verso i sindacati: «Credono che la prima cosa da fare anche di fronte a un contratto in nero sia quello di denunciare il datore di lavoro. Ma con la Bossi-Fini il permesso di soggiorno è vincolato al contratto. E così molti datori di lavoro tengono i lavoratori stranieri sotto una morsa di paura».
Ma anche gli stranieri che diventano datori di lavoro a volte approfittano. Così un pizzaiolo pagato in nero ha ricevuto un ampio risarcimento perché il suo padrone, denunciato, ha preferito evitare il giudizio. Con quei soldi ha aperto una pizzeria e ha cominciato a fruttare studenti stranieri: «Li pagava 4 euro all’ora, gli italiani prendono 10-12 in nero e 8,5 se regolari».


«Meglio pochi soldi che andare a servizio»
Un’insegnante albanese che non si rassegna.

Una buona occasione nella vita si presenta sempre. Il problema è saperla riconoscere e a volte non è facile. Diana, 40 anni, albanese, ex insegnante di storia a Tirana, figlia di medici, ha imparato da sola «la lezione», quando ha deciso di seguire il marito e stabilirsi in Italia. «Ho fatto un lungo percorso di formazione con me stessa, imparando a superare con il sorriso i momenti difficili» racconta mentre cerca di nascondere lo sguardo commosso. Arrivata in Italia nel ’98, Diana si è costruita da zero una nuova vita assieme ai due figli e al marito, che si è rimboccato le maniche lavorando in Ferriera.
«Ho lasciato Tirana anche se non lo volevamo – racconta -. Il fatto è che nel ’98 vivevamo una situazione di grande insicurezza sulle strade della nostra città e mi sentivo circondata da mafiosi». Racconta che non ha sentito all’inizio il peso dello stacco dalla sua terra perchè i figli erano piccoli e dovevano essere seguiti. Poi «Trieste è una bella città, piena di storia e di cultura, le persone sono gentili e mi sento rispettata quando cammino per strada oppure a scuola quando porto i miei figli».
L’unica grande difficoltà – l’inserimento lavorativo: «Sono stati anni duri visto che in casa entrava solo lo stipendio di mio marito, circa 1300 euro al mese, e ne paghiamo 500 d’affitto». Diana confida che ha cercato di lavorare: «Ma è difficile anche per gli italiani, il mercato è saturo». In più: «Mi offrono sempre lavori come badante o come domestica e io non riesco mai ad accettare l’idea e preferisco vivere con poco e stare con i figli. Questo non toglie che rispetto tutti quelli che fanno questo lavoro, italiani o stranieri – aggiunge Diana -. Soprattutto quelli che hanno già una preparazione accademica sono veri e propri eroi… Io però non sono riuscita a fare un percorso simile perché rischiavo di perdere la mia serenità e quindi incidere su quella dei figli. Adesso che sono cresciuti un po’, cercherò di nuovo con tutte le mie forze di inserirmi nel mondo lavorativo magari come mediatrice culturale, anche se non è facile trovare lo sbocco giusto nemmeno qui, perché le opportunità sono poche e a volte già assegnate a un numero limitato d’immigrati».
Diana sta valutando inoltre la possibilità di tornare in patria e ricominciare daccapo, anche se manca da nove anni perchè non è riuscita a risparmiare. «In compenso sono venuti i nonni medici in pensione a vedere i nipotini».
Gabriela Preda