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Note brevi sulle norme di contrasto allo sfruttamento dei c.d. clandestini

Le sanzioni applicabili ai comportamenti riconducibili alla tratta delle persone o, comunque, allo sfruttamento dell’immigrazione clandestina -così come previste dalle vigenti norme in materia penale ed in specie dall’art.12 del T.U. sull’immigrazione- non consentono di per sé un adeguato contrasto a tali fenomeni. Per l’appunto, ciò che assume un rilievo fondamentale non è tanto l’astratta possibilità di punire i responsabili quanto piuttosto la possibilità di assicurare alle vittime di tali forme di sfruttamento una adeguata protezione, a partire dalla possibilità di uscire dalla clandestinità e di ottenere un permesso di soggiorno.
E’ infatti evidente che solo sottraendo le vittime all’applicazione del provvedimento di espulsione è possibile confidare nella denuncia dei reati da parte loro ed inoltre nella possibilità di assumerne le testimonianze in sede processuale, ciò che può rendere effettiva l’applicazione delle sanzioni previste. Uno strumento rivelatosi utilissimo –e ritenuto indispensabile dalle forze dell’ordine- per garantire un efficace contrasto alla tratta ed allo sfruttamento della prostituzione è il permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale introdotto dall’art.18 del T.U. (D.lgs.286/98): in relazione alle indagini per delitti in materia di prostituzione e per i delitti previsti dall’art.380 c.p.p., come pure nell’ambito di interventi assistenziali dei servizi sociali degli enti locali, su parere della competente procura della repubblica esso può essere concesso alle vittime e successivamente, all’esito positivo del programma di assistenza ed integrazione sociale demandato agli enti locali, può essere convertito in normale permesso per lavoro o per studio.
Tuttavia, benché tale norma sia astrattamente riferita, oltre che allo sfruttamento della prostituzione, anche ad una amplissima serie di reati che potrebbe comprendere le più svariate forme di sfruttamento degli immigrati (tutti i reati per i quali l’art.380 c.p.p. prevede l’arresto obbligatorio in flagranza), essa si presta ben difficilmente ad essere applicata in ambiti diversi dallo sfruttamento a sfondo sessuale, come pure non ha mancato di dimostrare l’esperienza pratica. Infatti, la norma circoscrive espressamente la possibilità di applicare questa speciale tutela ai casi di “accertate situazioni di violenza o di grave sfruttamento e (solo) qualora emergano concreti pericoli per l’incolumità dello straniero per effetto dei tentativi di sottrarsi ai condizionamenti di una associazione dedita ad uno dei predetti delitti e delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari o del giudizio”.
La prassi delle questure, inoltre, tende a riconoscere applicazione a tale istituto solo con una funzione “premiale”, nei casi in cui la testimonianza resa dallo straniero risulti “interessante”, escludendola di fatto nei casi in cui le persone si sottraggono allo sfruttamento ed ottengono assistenza da parte dei servizi sociali senza fornire un rilevante contributo alle indagini. Si può ben comprendere, dunque, che l’art.18 T.U. non può (e verosimilmente, nelle intenzioni del legislatore, non intendeva) costituire uno strumento di contrasto alle ben note quanto gravissime forme di sfruttamento in ambito lavorativo degli immigrati, che si attuano nella stragrande maggioranza dei casi in circostanze diverse: generalmente infatti, lo sfruttamento non è attuato da vere e proprie associazioni a delinquere bensì da singoli psudo-imprenditori, non comporta la necessità di praticare gravi violenze né si verificano normalmente gravi pericoli per l’incolumità di chi si sottrae allo sfruttamento. Di conseguenza, come è noto, l’unico provvedimento usualmente applicato nei confronti dello straniero irregolare che lavora in condizioni di grave sfruttamento –quand’anche sia egli stesso a denunciarle- è l’espulsione amministrativa.
Una teorica tutela alle vittime di sfruttamento sembrerebbe assicurata dall’art.600 c.p., che originariamente sanzionava la riduzione in schiavitù (difficilissima da dimostrare) e che ora, a seguito delle modifiche introdotte dalla legge 228/03, sanziona anche la condotta di chi riduce o mantiene una persona in condizioni di servitù, vale a dire “in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all’accattonaggio o comunque a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento”. La norma citata (v. art.13 l.228/03) prevede che anche in questi casi sia applicabile l’art.18 T.U., ovvero il permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale, ma di fatto tale possibilità è sinora risultata, nella pratica, una lettera morta. In linea teorica, tale norma si presterebbe ad essere applicata alle tipiche situazioni di sfruttamento lavorativo dei c.d. “clandestini”, specie se si considera che l’art. 600 c.p. non manca di precisare che lo stato di soggezione continuativa può verificarsi non solo mediante violenza o minaccia ma anche mediante approfittamento dello stato di bisogno.
Di fatto, volendo tentare una spiegazione del mancato utilizzo di questa norma nell’ambito degli accertamenti sul lavoro degli immigrati irregolari, sembra permangano forti incertezze di natura interpretativa, in particolare sulla definizione del concetto di soggezione continuativa e di approfittamento dello stato di bisogno, ponendosi in dubbio che tali circostanze possano corrispondere alla tipica condotta di chi mantiene i c.d. “clandestini” in condizioni di grave sfruttamento e confida nella omertà coatta delle vittime, che denunciando il datore di lavoro perderebbero il pur misero reddito e subirebbero l’espulsione. Sotto il profilo strettamente giuridico, l’emanazione di una norma di interpretazione autentica potrebbe fugare ogni dubbio sull’applicazione della norma in questione, ma a parte le vaghe dichiarazioni di intenti recentemente divulgate dal nuovo Ministro dell’Interno sembra prevalga la preoccupazione di non eccedere nel contrasto alle forme di sfruttamento, nel verosimile timore che, altrimenti, potrebbero essere molti i lavoratori beneficiari della protezione, e forse troppi i datori di lavoro destinatari delle sanzioni penali.