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Giornata mondiale del rifugiato, ma chi è il rifugiato?

Intervento di apertura del seminario Percorsi di formazione sul diritto di asilo*

La domanda è corretta perché definire “chi è” il rifugiato ci ricorda immediatamente che non stiamo parlando di una materia astratta, di un “fenomeno”, di numeri, ma che parliamo di una pluralità di persone, di identità, di uomini e donne, di storie singole dentro alla grande storia collettiva.

Domandarsi “chi è” è un po’ come cercare di indovinare dei volti, di incontrare degli sguardi, di avvicinarsi alla fisicità dei corpi, ad una concretezza spesso brutale, difficile.

E’ una domanda necessaria perché il termine “rifugiato” (o il meno usato “richiedente asilo”) è molto spesso confuso con altri, coperto intenzionalmente o per ignoranza. La parola più usata è “clandestino”, termine che in Italia (altrove si parla di “irregolari”, di “senza documenti”), pur non esistendo in nessun testo di legge, ha assunto un significato negativo, che non serve a descrivere una condizione ma piuttosto a preparare e giustificare culturalmente il rifiuto verso chi è connotato con quella parola e che rapidamente viene fatto scivolare nelle categorie di “criminale” o di “potenziale terrorista”.
La variante “caritatevole” di questo discorso, impiegata soprattutto in caso di morti, affondamenti è parlarne come di poveracci bisognosi di pietà, di “disperati” che però restano senza diritti, che si affidano solo al senso “umanitario”.
Mai come in questi casi le parole producono effetti istituzionali, politici, di percezione anche su chi ne è oggetto: anche sulle parole dunque bisogna lavorare, smontarle, ricostruirle.
Ancor prima di entrare nelle definizioni giuridiche che sono fondamentali per la vita delle persone, proviamo allora a dire chi sono i rifugiati (definizione in cui includiamo i richiedenti asilo, i beneficiari di protezione umanitaria/sussidiaria, i profughi..).

Tradizionalmente viene fatta una distinzione tra migrante – che decide, sceglie di partire – e rifugiato – il cui esodo è involontario, obbligato.
E’ una distinzione che in periodi come quello attuale si riduce, presenta contiguità, sovrapposizioni.
Forse dovremmo parlare di “popolazioni in fuga o in movimento”, per diversi motivi: sopravvivenza economica, desiderio di migliorare la propria vita, guerre, conflitti sociali, catastrofi ambientali.
La crescente restrizione dei canali legali di arrivo in Europa o in “occidente” spinge le “popolazioni in fuga” dentro a percorsi analoghi a quelli dei “migranti irregolari”, forzandole ad usare i “servizi” delle organizzazioni criminali, spesso collegate agli apparati di stato.
Dunque le rotte di viaggio sono simili o parallele.
Ma le motivazioni di partenza così come le condizioni di arrivo di un richiedente asilo sono concretamente diverse da quelle di un migrante: migrare e fuggire sono due azioni che si avvicinano ma non coincidono.
Questa differenza è espressa bene in uno scritto di Dino Frisullo (“Con lo sguardo delle vittime”) :
Sradicato con violenza dal suo ambiente, ridotto a merce nelle anticamere dei trafficanti, a profugo nella stiva di una nave, a postulante nelle questure o nelle mense del volontariato, l’esule vive doppiamente l’esperienza dell’estraniamento. Non ha minimamente scelto di vivere nella società in cui è stato scaraventato. Il suo orizzonte temporale dipende totalmente dall’arbitrio della burocrazia in Europa, ma anche dalle vicende del paese che è stato costretto ad abbandonare, in cui teme di essere rinviato, ma in cui, pure, desidera un giorno ritornare” .
A questo possiamo aggiungere la situazione delle vittime di tortura o di altre violenze gravi, vittime del tentativo di “riduzione al silenzio” tramite la distruzione del corpo e della psiche, che provoca talvolta anche una autocolpevolizzazione per le sofferenze dei propri famigliari, amici, compagni.
Si tratta di traumi che non facilmente emergono, difficili da raccontare e da credere. Una poesia di Adisa Basic, “Trauma Market”, ne parla in questo modo

Non sarà che lei è solo una vittima
che vende il suo trauma?
Mi ha chiesto una biondina di Harvard
Il cui cervello è valutato mezzo milione.
In inglese non lo sapevo dire.
Si rende conto di avere tutte le ragioni?
Nove morti, il sangue che esce dalla membrana del timpano,
quel dimenarsi tra i proiettili.
Tutto sta nella parola trauma.
E questo, si, non sapevo dire in inglese,
ho paura,
è l’unica cosa che vale tra quelle che ho.

Comune a tutti i rifugiati e alle rifugiate è il bisogno di aiuto, la richiesta di una protezione che il proprio governo non vuole o non può dare.

Tre tempi, tre luoghi

Quando si parla di rifugiati, il discorso è quasi sempre schiacciato sul luogo di arrivo, sui problemi di accoglienza. Pensiamo invece sia necessario tenere uniti tre tempi e tre luoghi:
– il paese di partenza
– le aree di transito, il viaggio e i mezzi usati
– lo Stato di arrivo, che a volte non è quello in cui ci si ferma.

Se non si tengono insieme, è difficile cercare di capire una persona, la sua diffidenza o disorientamento, i traumi, la complessità esplosiva di tante condizioni umane.
Rispetto ai migranti, il rifugiato si guarda molto indietro, anche inconsciamente.
Non è andato via con l’idea di fare fortuna, magari mandato con un “progetto” dalla sua famiglia.
E’ dovuto partire, spesso con poche ore di preavviso, in una direzione a volte ignota o casuale (la frontiera più “debole”, oltrepassabile).
Da qui in poi si è messo nelle mani di altri, dei suoi contatti, delle polizie che incontra, degli “amici” che gli fregano fino all’ultimo soldo o dei compagni che gli offrono tutto quello che hanno. Molte volte è un pacco da consegnare (se tutto va bene) , un “pezzo” per i trafficanti.
Se vuole arrivare nella UE, passata la tua frontiera, il primo problema è attraversare stati, a volte non firmatari di convenzioni internazionali (che dovrebbero salvaguardare il diritto di asilo e i diritti umani) che possono rinchiuderlo in quanto “illegale” o farlo passare a secondo dei soldi estorti o delle convenienze politiche del momento.
A volte non incontra le autorità dello stato ma solo bande dedite ai traffici, ben agganciate a polizie o eserciti, che lo fanno muovere su percorsi precisi.
In moltissimi casi il viaggio (che può durare anni) cambia la vita, se ce la fai. Come dicono alcuni ragazzi afgani che stanno a Patrasso “se rimanevo là, in Afghanistan, non ero uomo”.
Questo fa venire in mente una frase di Primo Levi in “Se questo è un uomo. La Tregua”:
La facoltà umana di scavarsi una nicchia, di secernere un guscio, di erigersi intorno una tenue barriera di difesa anche in circostanze apparentemente disperate è stupefacente e meriterebbe uno studio più approfondito”.

Questo passaggio, segnato dalla paura, dall’incertezza, nello stesso tempo può anche segnare una trasformazione positiva, il divenire parte di un gruppo, sentirne anche la forza possibile, l’essere in tanti, sentirsi paradossalmente “fortunati”.
Le manifestazioni, le piccole rivolte (duramente represse come poco tempo fa a Milano) ripropongono il rapporto tra riconoscimento di diritti sociali collettivi e diritti umani individuali (che son quelli su cui è basato il riconoscimento giuridico dello status di rifugaito).
Sono fatti che ci spingono a guardare oltre l’individuo da aiutare, oltre alla comunità di connazionali, ad andare verso il “politico”, una dimensione molto incerta, disorientante, incomprensibile, anche ostile a volte.

Finti rifugiati?

Esiste un’immagine scomoda abbinata al richiedente asilo, quella dell’imbroglione. Vari ministri hanno parlato di “finti rifugiati”. E’ il tema delle “domande strumentali” presentate da “semplici migranti economici”.
E’ una tesi infondata. In Italia la protezione è concessa a circa il 50% dei richiedenti, quindi non è detto che convenga chiedere asilo, al contrario, dato che tra domanda ed esito non passa molto tempo, fare la domanda può essere controproducente rispetto ad una mera permanenza irregolare (quando presenti la richiesta, fornisci le tue impronte, i tuo dati, un recapito, sei più controllabile..).
Dunque il problema principale è garantire l’accesso alla procedura d’asilo e un esame serio da parte delle Commissioni.
Operatori, associazioni non devono fare da filtro dissuasore ma dare informazioni corrette, rendere consapevole la persona: non è ammissibile che per il sol fatto di venire dalla Tunisia o dalla Nigeria si sia per definizione dei simulatori.
Poi è vero che queste domande poco fondate esistono, non lo nascondiamo, ma è perché le altre vie legali sono chiuse o magari perché a qualcuno (avvocati disonesti, organizzazioni) rendono soldi in cambio di illusorie vie facili.
Ed è vero che l’aumento delle domande accresce la pressione sui servizi, sugli operatori, evidenziando quanto poche sono le risorse per rispondere, causando frustrazione, diminuendo le possibilità di aiuto alle situazioni più precarie.

Icona del mondo contemporaneo

C’è chi ha scritto che “il rifugiato è l’icona del mondo contemporaneo” (M. Duffield – Guerre Postmoderne). Mi sembra un invito a cercare di capire come i cambiamenti della realtà storica dei rifugiati segnalino le trasformazioni globali, il fatto che i movimenti di popolazione ora son visti come problema di sicurezza e non più (com’era fino agli anni ’70) come fattore di sviluppo.
E’ un invito anche a leggere, dal punto di vista dei rifugiati, l’ipocrisia delle “missioni umanitarie”, il fallimento delle “guerre preventive”, gli assetti e le crisi mondiali.
Il tema dell’asilo, dunque, come punto di vista con cui guardare al mondo.

Se dovessimo usare un’immagine fotografica di sintesi per rappresentare i rifugiati, questa è una lunga fila di persone a piedi, con roba in spalla, che passa una montagna. E’ una fila che viene da lontano, dentro ci sono spagnoli repubblicani che espatriano dopo la vittoria del franchismo, ebrei e antifascisti di tutt’Europa, militanti dei movimenti di liberazione dal colonialismo, desplazados e oppositori in fuga dalle dittature latinoamericane, chi scappava per non essere schiacciato dai criminali nazionalismi dei Balcani, fino agli irakeni, agli afgani, alle genti d’Africa.
I rifugiati di oggi vanno visti come portatori di “storia accumulata”, di storia umana.
Nello stesso tempo, oltre alla fila, pensiamo alle decine di migliaia di saharawi che nel deserto vivono in tendopoli che hanno il nome delle città del Sahara Occidentale in cui un giorno torneranno. O ai palestinesi di Gaza, chiusi ma anche aggrappati alla propria striscia di terra. O ai kurdi di Turchia o Irak che fanno di tutto per non andarsene, che sviluppano organizzazioni popolari, autogoverno locale.
Fuga e resistenza sono due elementi da collegare, unire: il diritto di asilo non deve sancire la rinuncia a cambiare il proprio paese (io ti proteggo ma tu non crei problemi al tuo stato) ma anzi, dev’esserne la premessa e la promessa.

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Keep banging on the walls of Fortress Europe!

* Percorsi di formazione sul diritto di asilo
Bologna, 8 e 9 maggio 2009, Ass. Ya Basta, Via Casarini 17/4
Promossi da ass. Ya Basta Bologna, Ass. Ya Basta Reggio Emilia e ass. Rumori Sinistri Rimini, in collaborazione con Progetto Melting Pot Europa


Foto di Giorgos Moutafis, tratta da Fortress Europe