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Emergenza Nordafrica – Anno zero delle politiche dell’asilo

di Rosanna Marcato, ex responsabile del Servizio Richiedenti Asilo e Rifugiati del Comune di Venezia

L’Emergenza umanitaria è finita per lasciare posto ad una nuova emergenza alle nostre porte: quella del destino di migliaia di “profughi” vittime di due anni di mancata accoglienza in questo paese.
Su questi due anni di emergenza nordafrica molto si è detto.
Abbiamo chiesto il parere autorevole di un’esperta, Rosanna Marcato, per anni responsabile del servizio per richiedenti asilo e rifugiati del Comune di Venezia, uno dei progetti di eccellenza sul piano nazionale, all’interno del Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati.

Redazione Melting Pot


28 febbraio, una data che ricorderà l’ennesimo fallimento delle politiche del governo italiano relative all’accoglienza e alla tutela dei richiedenti la protezione internazionale e dei rifugiati.
L’emergenza Nord Africa finisce come era iniziata, nella confusione, nell’inutile sperpero di denaro e nel dispregio delle persone coinvolte: rifugiati che non hanno usufruito di quanto avrebbero dovuto e di molti operatori che, in questa vicenda hanno tentato di lavorare con serietà.

Si è scelto infatti, dopo una vergognosa, inutilmente prolungata accoglienza a Lampedusa, di distribuire queste persone a caso, in luoghi dove sono stati affidati ad associazioni, cooperative, enti locali, alle varie caritas, ad alberghi. Soggetti nella maggior parte totalmente ignari della complessità di gestire questa tipologia di persone e della legislazione che regola la materia.
Ognuno ha fatto a modo suo, molti con una motivazione umanitaria, molti per il semplice motivo che 46 euro al giorno per persona sono una cifra molto appetibile per fornire due pasti e un letto. In entrambi i casi con poche, se non nulle, competenze su questa materia e nessun progetto previsto di formazione del personale impiegato.

Vero è che nessuna politica di accoglienza può funzionare se non vi sono dei presupposti legislativi, organizzativi e di saperi, che dettino le regole di un ingranaggio di azioni altamente complesse dove confluiscono diverse istanze sia su un piano oggettivo che soggettivo (legislazione nazionale e internazionale, sicurezza dello stato, luoghi di accoglienza, mercato del lavoro//deprivazione fisica e psichica, lontananza culturale, capacità personali…).
Nei casi di arrivi di massa, pur ammettendo una iniziale impreparazione dei gestori, si richiederebbe uno sforzo condiviso con una regia autorevole che dettasse le regole delle prassi di accoglienza nei diversi momenti :arrivo, smistamento, percorsi di tutela e integrazione, che dettasse tempi di accoglienza e percorsi giuridici certi in tempi prestabiliti (coordinando i diversi soggetti).
In Italia tutto ciò si svolge invece senza una direzione (che non significa comando, ma ascolto delle varie istanze e dei vari attori coinvolti) e nella prassi, tipicamente italiana dove tutto appare impossibile ma anche, sull’onda di varie pressioni, possibile. Purchè non si tratti di praticare diritti certi.

Queste modalità incrociano e colludono con le aspettattive assistenzialistiche toutcourt che, quasi sempre, le persone che chiedono asilo ritengono di dover vedere attivate per diritto.
Chiamare emergenza ciò che dovrebbe essere normale routine per un paese che ha le sue frontiere esposte a rischi ben conosciuti oramai da un ventennio, significa innanzi tutto avere la scusa per saltare ogni regola e per cambiare regola in continuazione spiazzando e umiliando anche quei centri che nei territori hanno tentato di lavorare seriamente e con professionalità.

Il risultato è come sempre un mosaico variegato di disastri(molti) e di (poche) eccellenze.
Anche la dove si è lavorato nel migliore dei modi, questo continuo cambiare le regole in corsa ha creato serie difficoltà: prima chi è approdato è stato obbligato a chiedere asilo, poi ha subito la notevole lentezza dell’iter giuridico (commissioni e questure), poi si è visto rigettare la domanda nella maggiornaza dei casi, e poi, dopo l’evidenza (che era tale già all’inizio della vicenda) della necessità del rilascio di un permesso umanitario, questo è stato concesso solo alla fine dello scorso anno. Molti tuttavia ne sono ancora privi.

E ancora, la diversità di trattamento nei singoli centri (poketmoney si/no, corsi di formazione si /no, tirocini formativi si/no, vestiti si/no, trasporti si/no, alberghi e appartamenti, comunità, dormitori e capannoni,…),ha prodotto incomprensioni e conflitti tra i rifugiati, gli operatori, la popolazione, ma soprattutto ha prodotto una moltitudine di persone disorientate, umiliate e gettate in strada senza alcuna possibilità di crearsi un seppur difficile futuro

L’ultima trovata dei 500 euro, a cui vanno aggiunti altri soldi, secondo i diversi comportamenti dei gestori e dei territori, va di nuovo contro regole minimamente condivise ed è discriminante nei confronti degli altri rifugiati che non li percepiscono, peraltro a fronte di un’accoglienza nello SPRAR molto più breve, meno costosa ma normalmente più proficua.
In Italia esiste oramai da dieci anni un sistema, lo SPRAR , che pur lavora con il Dipartimento delle libertà civili del Ministero dell’interno, che ha faticosamente costruito in questi anni dei protocolli di accoglienza che hanno dimostrato la loro efficienza ed efficacia nell’integrazione delle persone rifugiate. In questa noncuranza (immagino voluta) di assumere ed eventualmente sviluppare quel modello di intervento, si è perduta la possibilità di disporre fin da subito di saperi indispensabili per affrontare con efficacia le azioni necessarie per affrontare le complesse situazioni legali, per istruire dignitosamente le pratiche d’asilo, per colmare le differenze culturali, per comprendere il mondo interiore di persone sopravissute, strappate alle loro radici e sostenerle in un percorso personale di integrazione.
Nello stesso modo si è persa l’pportunità di gestire i conflitti delle convivenze, di creare e sviluppare azioni di rete nel territorio e infine di restituire ai rifugiati un programma chiaro e condiviso nei tempi e nelle modalità di accoglienza.

E’ stato quindi un atto volutamente doloso aver perseguito una politica di accoglienza che, dati i confusi presupposti, poteva portare solo al fallimento. Credo che in questo, più che nella cattiva condotta di alcuni singoli gestori, vadano ricercate le motivazioni del fallimento di quasi due anni di accoglienza (nello Sprar va dai sei mesi ad un anno se le persone non sono “vulnerabili”).

A tutto questo si aggiunga l’attuale situazione sociale ed economica disastrosa, che di certo non aiuta a trovare soluzioni lavorative.
La maggioranza di queste persone è destinata di fatto a entrare, come unica possibilità di sopravvivenza, nelle filiere della schiavitù del lavoro nero e nella manovalanza della criminalità.
Purtroppo non sono ottimista nella possibilità di una soluzione positiva. Qualsiasi soluzione sarebbe di nuovo il contrario di tutto a meno che, per una qualche ragione, non divenisse l’inizio di qualcosa di sensato.