Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da Il Piccolo del 4 novembre 2013

Quel muro lungo 286 passi che imprigiona il dolore

di Pino Roveredo

Chissà quante volte sono passato per Gradisca, sulla via Udine, e sempre con l’andatura della fretta e la velocità della coda dell’occhio da dedicare alla tristezza ingombrante della muraglia che nasconde il Cie (Centro identificazione espulsione), evitando così di pensare alle angosce e alle disgrazie che vi girano dentro.

D’altronde, anche chiacchierando con alcune persone della città, è venuto fuori che sì, certo, quegli strani stranieri in fondo non hanno mai commesso grossi reati ai danni della comunità, però c’è quel terribile muro che li imprigiona e procura il naturale fastidio di chi deve sopportare il peso di una sofferenza che non gli appartiene. Proprio come i muri dei vecchi manicomi prima della rivoluzione basagliana, quando gli si passava accanto senza guardarli e commentarli, e dove uccideva più la forza di una vergogna che la malattia psichiatrica.

Oggi ho rallentato la corsa, sono sceso dalla fretta, e mi sono parcheggiato davanti al Centro. Oggi, senza la professione e la precisione del giornalista, ma unicamente con la penna dell’emozione, sono venuto a Gradisca per incrociare e raccontare una verità che non conosco.

Per una questione di ansia sono arrivato mezz’ora prima. Mi guardo intorno, il cielo è grigio, la strada è grigia, le poche macchine che passano veloci sono grigie, anche il silenzio è grigio, proprio come l’enorme muro tirato su per dividere il mondo in due. Rispolverando un vecchio uso carcerario, consumo il tempo passeggiando. Avanti e indietro, avanti e indietro…

Il muro è lungo esattamente duecento ottantasei passi! Il resto è nascosto nella boscaglia. Sopra il motivo del conteggio, con una vernice rosso sangue, e con i caratteri enormi come il fiato di un urlo infinito, c’è una schiera di scritture che come un coro invoca la stessa preghiera… Freedom – Libertà – Hurria – Libertad – Liberté – Freiheit – Svoboda…

Ecco, è arrivato il fotografo, finalmente si può entrare. Scavalchiamo una porta e arriviamo davanti al gabbiotto del controllo. Dietro il vetro ci sono una decina di agenti, poi tavoli sparsi, montagne di carte e qua e là i caschi e l’attrezzatura antisommossa. Mentre controllano i nostri documenti, passano alcuni ospiti, sono asiatici, africani, hanno gli sguardi bassi, i visi spaventati, e tutti salutano con la discrezione del sussurro. Per riempire l’attesa necessaria al disbrigo burocratico, scambio due parole con un ufficiale di Polizia…

«“Bossi, Fini, siete degli assassini!”. Vede, questo è solo uno dei tanti slogan che urlano sia ai politici che a noi, noi che siamo visti come i guardiani, perciò nemici. Noi facciamo il nostro lavoro, e le assicuro che non è facile! Cerchiamo di relazionarci, dare una mano, ma qui tutto è complicato, siamo due mondi diversi! Guardi, io sono un meridionale e la conosco bene la fatica dell’emigrante! Noi, a fatica, ci siamo inseriti, loro invece vengono da altre culture e hanno difficoltà a integrarsi nel territorio, nella città, nella scuola, dappertutto… Sa cosa bisognerebbe fare? Vendere meno armi e aiutare queste persone, ma aiutarle nelle loro terre, dove sono nate, e non qui dove tutto è maledettamente difficile…»

Finalmente arriva il consenso per l’entrata, meno male! A guidarci c’è un operatore che, insieme a una trentina di soci, lavora all’interno per una cooperativa, e come tutti i suoi compagni, non riceve lo stipendio da oltre quattro mesi! Mentre andiamo ci spiega che il Centro è diviso in due parti…

Da una parte il Cie, dove i soggetti con precedenti penali, sprovvisti di permesso, clandestini, sono rinchiusi per un tempo massimo di diciotto mesi. Sono in otto per stanza con un bagno a disposizione, possono comunicare con il cellulare (cellulari con cui in passato, per invalidare qualsiasi ripresa, veniva bucata la telecamera), e come unico svago possono partecipare a un corso di lingua italiana.

Per visitare quel posto ci vogliono permessi speciali, che noi non abbiamo. La seconda parte invece, il Cara (Centro Accoglienza Residenti Asilo), è sicuramente un posto più tranquillo. Ci sono in media 150 persone, in attesa della certificazione di asilo, e per legge non possono sostare più di venti giorni, ma in verità ci sono persone che sono qui da più di due anni.

Lo spazio era in origine una vecchia caserma, qualcuno dice che fino a qualche anno fa esisteva e resisteva il busto di Mussolini. Nel cortile incontriamo i primi ospiti, qualcuno fuma, qualcuno saluta, qualcuno vedendo la macchina fotografica chiede la cortesia di una foto tessera da utilizzare sopra la speranza di un permesso. Qualcuno con la lingua incerta, scambia qualche parola…

«Vengo dall’Afghanistan, sono stato torturato dai talebani! Io dalla Somalia dove c’è sempre la guerra e dove mi hanno ucciso tutta la famiglia. Io vengo dalla Siria, dove non c’è più pace, dove non c’è più sole, dove c’è solo morte, morte, morte…».

Gli uomini comunicano a testa bassa, ti danno la mano senza stringere il saluto, e trattano le parole con la rassegnazione di chi ormai ha esaurito tutta la rabbia a disposizione. Dietro le loro parole intravedo alcune donne con il velo, e improvvisamente sento il dolore di un pugno allo stomaco, e penso a una settimana fa…

Una settimana fa ero a pranzo con don Pierluigi di Piazza, e si parlava dei barconi di morte che senza distinzione e pietà rovesciano nella tragedia del mare l’innocenza dei bambini, la speranza degli uomini, il dolore spropositato delle donne. Sì, le donne, quelle che nei campi profughi della Libia, in attesa della partenza, sono… SI-STE-MA-TI-CA-MEN-TE STU-PRA-TE! Ovunque, da chiunque. Donne che spesso sopportano in grembo il frutto dell’offesa, e che se non moriranno nell’amnesia dell’oceano, partoriranno figli senza padri… Penso alle bestie, intese come animali, e credo che persino loro sarebbero inorridite da così tanta ferocia, cattiveria, crudeltà…

Con il passo più stanco si continua il giro. Visitiamo i dormitori, e sopra la fila di letti ci sono scatole e borse di nylon, dentro, le uniche proprietà dei rifugiati. Attraversiamo i corridoi e distinguiamo sulle porte: firme ignote, frasi incomprensibili, disegni africani. Continuiamo ad andare e a raccogliere le immagini dei luoghi di preghiera, il refettorio, la sala ricreazione, e ancora avanti, sempre e rigorosamente circondati dall’aria pesante della rassegnazione. Non c’è un litigio, non c’è una parola forte, un urlo, e non c’è nemmeno la televisione, così che non sia dato atto a nessuno di sognare un Paese che non c’è!

Prima di terminare il giro mi incontro con Chiara, un’assistente sociale, e con lei provo a liberare l’urgenza di una curiosità. È vero come si dice in giro che agli ospiti date cinquanta euro al giorno, le tessere per i cellulari, le sigarette…

Gli ospiti costano trenta euro al giorno, denaro che serve esclusivamente al mantenimento, a loro, fisicamente, viene data una tesserina, la Pokeymoney, che vale tre euro e cinquanta centesimi e serve per il sapone, sigarette, un caffè. Qui abbiamo gente che ha visto l’inferno e che porta le cicatrici sul corpo per raccontare la loro storia, fatica, tortura, sofferenza. Vengono, o meglio, scappano da noi soltanto perché è il territorio più vicino. Certo, vanno anche in Grecia, Malta, Spagna, ma molti sono stati respinti, tanti sono morti, e le storie sono state insabbiate, la tragedia cancellata.

L’incontro sta finendo, mentre sto uscendo dalla struttura incrocio una donna turca con in braccio il figlio: si chiama Carlo, ha quattro mesi, ed è nato nel Centro di Gradisca. Lo accarezzo e giuro, senza nessuna retorica penso al privilegio dei nostri figli, e la fortuna di essere stati desiderati, attesi, cresciuti e amati, e tutto senza la feroce ingiustizia di vedersi negare la serenità di vivere. Sono vicino alle porte, saluto gli ultimi ospiti con un “arrivederci” che ha il tono dell’addio. Ritiro i documenti, e torno a oltrepassare il muro che divide il mondo in due…

Metto in moto la macchina, imbocco la strada grigia, cancello le curve, Gradisca è lontana, eppure nell’ascolto, continua a girarmi l’urlo infinito di una vernice rossa… Freedom – Libertà – Hurria – Libertad – Liberté – Freiheit – Svoboda…