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…Perché voglio parlare di razzismo alle persone bianche

Una recensione irriverente al saggio “Perché non parlo di razzismo con le persone bianche” di Reni Eddo-Lodge

Da poco tradotto in italiano a cura di Silvia Montis per Edizioni e/o, messo alle stampe in inglese per la prima volta nel 2017 da Bloomsbury Publishing, “Perché non parlo più di razzismo con le persone bianche” è un saggio che, attraverso il racconto delle apocalittiche sorti del razzismo in un mondo dominato dal privilegio bianco , è stato capace di anticipare e catalizzare il profondo cambiamento sociale che ora vediamo progressivamente in atto. L’enorme potenziale di smuovere folle di lettori, cerchie letterarie e circoli accademici, ma anche politiche aziendali e vertici governativi, viene da una giovane giornalista britannica di origini afroamericane – Reni Eddo-Lodge – nata nel 1989, cresciuta e formatasi nel Regno Unito. Già nel 2014 The Guardian la definiva una fra le 30 persone più influenti sui digital media, spopolata grazie al blog che Reni scrive da quando era un’intrepida diciannovenne, decisa a prendere parte alle lotte femministe, i cui ideali la hanno aiutata – come dichiara lei stessa – a sviluppare molte delle idee di cui la scrittrice ed attivista si fa oggi porta voce.

Sul web si può facilmente trovare un’immagine della copertina originale del libro, in cui il titolo “Why I’m no longer talking to white people about race”, scritto a marcati caratteri neri su sfondo bianco, sembra interrompersi dopo la parola “talking”, alla volta del sintagma “con le persone bianche”, sottintendendo in realtà dei caratteri ugualmente grandi e definiti, ma di colore bianco su sfondo omocromatico. Nonostante le critiche di una copertina troppo provocatoria, responsabile di aizzare da più parti i detentori del razzismo inverso (della serie, se fosse stato un bianco a scrivere una cosa del genere sui neri sarebbe stato censurato…), in essa si cela un significato ben più profondo di una semplice istigazione rivolta alle persone bianche, dal momento che rappresenta un monito all’etnocentrismo – o biancocentrismo , come la Eddo-Lodge preferisce chiamarlo – in virtù del quale i britannici bianchi dichiarano obsoleto parlare di razzismo o, peggio ancora, che il razzismo non è una priorità del loro Paese o, in extremis, che il razzismo oggigiorno non esiste affatto.

Non vedere o non riconoscere il razzismo, al di là dei pregiudizi del singolo, come razzismo strutturale , è espressione – secondo Reni – della colour-blindness che sta alla base del privilegio bianco: “Dato che siamo nati all’interno di un copione già scritto – che ci dice cosa aspettarci dagli estranei sulla base del colore della pelle, dell’accento e dello status sociale – l’umanità intera è codificata come bianca. La nerezza, al contrario, viene vista come “altro” ed è perciò sospetta” (p. 85). La principale causa, su larga scala, di tale pensiero collettivo ormai radicato nella cultura di massa europea ed occidentale, al punto di aver intaccato la struttura del tessuto socio-politico, è da ricercarsi nella storia coloniale europea . Dal “1562, la schiavitù – in quanto istituzione inglese – è esistita per oltre 270 anni”, arrivando a contare più di undici milioni di neri africani “traghettati da una sponda all’altra dell’Atlantico per lavorare (…) nelle piantagioni di cotone e canna da zucchero delle Americhe e Indie occidentali” (p. 19). Quando finalmente, nel tardo 1833, una legge parlamentare abolì la schiavitù nell’Impero britannico, “a beneficiare dei risarcimenti (…) non furono gli uomini che erano stati privati della libertà”, bensì “46.000 cittadini britannici, proprietari di schiavi, a mo’ di compensazione per le perdite economiche subite” (p. 21). Eppure, i vecchi coloni continuarono ad approfittare della presenza di manodopera non pagata presso le loro fastose residenze, sfruttando la popolazione nera a proprio vantaggio. Persino agli albori delle due Guerre Mondiali, il governo britannico favorì immigrazioni di massa dalle ex colonie, allo scopo di arruolare quanto più capitale umano straniero possibile per preservare, invece, l’esercito britannico e, per di più, senza nemmeno mantenere, una volta finite le guerre, le promesse di libertà ed indipendenza elargite alle popolazioni straniere per convincerle a combattere.

La questione razziale si fece spazio tra le testate giornalistiche ed il malcontento popolare a mano a mano che, nei decenni post-bellici, interi quartieri insediati da ex schiavi neri tentavano di ribellarsi ai soprusi ed alle discriminazioni perpetrati dalla classe dominante bianca. Ma, più le coloured people cercavano di far sentire la propria voce, più il razzismo si faceva istituzionale, “una cultura organizzativa supportata da uno status quo strutturale e generalmente condiviso – e di conseguenza spesso ignorato e giustificato dalle autorità” (p. 64). E fu proprio la polizia di stato britannica, nella fattispecie la Metropolitan Police di Londra, a macchiarsi dei più orridi misfatti razzisti nei confronti di persone assolutamente innocenti, e dei più meschini occultamenti di persone bianche colpevoli di aggressioni ed omicidi verso persone nere. Tutto ciò sostenuto da un’ideologia politica improntata alla bianchezza, programmata per “mantenere un dominio silenzioso” (p. 109) funzionale a nascondere, screditare e dissociare dalla propria coscienza di individui liberi, la terribile verità della diaspora nera, dei secoli di schiavitù, sfruttamento e soprusi, della segregazione razziale che ancora oggi, attraverso la sottile e tagliente ambiguità messa a disposizione dalle relazioni istituzionalizzate, viene quotidianamente praticata nelle nostre più moderne città globali. Secondo la Eddo-Lodge, “la parola ‘multiculturalismo’ è l’ambasciatrice di milioni di ansie su immigrazione, razza, diversità, criminalità e pericolo (…) un termine di facciata per nascondere la paura della minaccia rappresentata dagli stranieri” (pp. 112-113).

Ma perché la nerezza – contrapposta alla bianchezza – fa paura? Nel capitolo 4 del saggio, Reni affronta di petto la questione della “ Paura di un pianeta nero ”, condensando in questo emblematico titolo importanti riflessioni sulle politiche di estrema destra xenofobe svettate in tutta Europa e negli Usa a partire dal periodo post recessione del 2008. Attraverso slogan quali “Riprendiamoci il nostro paese”, sbandierato da Britain First, “Make America great again”, che fece guadagnare a Trump la presidenza alla Casa Bianca, o “Prima gli italiani”, dato in pasto dalla Lega Nord alla comunità italiana meridionale, scongiurando così i propri propositi secessionisti e discriminanti storicamente rivolti proprio al Sud-Italia, “l’estrema destra si è impossessata da tempo delle battaglie anticolonialiste dei nativi americani e australiani, creando una narrazione equivalente – quella di indigeni (…) bianchi assediati dagli immigrati” (p. 114).

Al di là delle retoriche nazionaliste delle frange più estreme, benché molte di esse detengano ancora oggi la maggioranza dei consensi, l’ingiustizia razziale ha un aspetto molto più rispettabile, banale, incontestabile ed innocuo di un’aggressione esplicita o del suono della parola “negro”. Essa si lega piuttosto a narrazioni tossiche diffuse dalla e nella società, a costanti distorsioni della realtà applicate alle minoranze etniche, riguardo, per esempio, il loro status sociale, i loro bisogni e le loro ambizioni: la loro rispettabilità. Peggio ancora, ad esse viene spesso negata la libertà di espressione, a fronte di un vittimismo bianco in virtù del quale i bianchi sarebbero già troppo occupati a risolvere i propri di problemi.

Nelle nostre società non è difficile, ad uno sguardo attento, riconoscere come il problema del razzismo strutturale sia presente anche nelle fondamenta di organizzazioni socio-culturali eversive come il movimento femminista, nel quale, almeno fino ad un decennio fa, la donna per la quale si conducevano battaglie di emancipazione da discriminazioni e limitazioni sessiste, era esclusivamente concepita come donna bianca. Un altro esempio è costituito dalla lotta di classe – oggi per lo più assimilabile alle rivendicazioni dei lavoratori della classe operaia: molti lavoratori del ceto medio e precario lamentano il pericolo che un’intera generazione di lavoratori migranti sia giunta nel loro Paese per rubargli il posto di lavoro.

In tutti questi casi, il razzismo strutturale agisce silenziosamente per mantenere il dominio assoluto del privilegio bianco, per contenere e placare, a livello collettivo, la paura di un rovesciamento del potere dalle mani dei bianchi a quelle dei neri. Paura a dir poco infondata, stando ai dati dei censimenti degli ultimi anni relativi al numero di cittadini stranieri residenti in Europa, al loro status economico ed alle loro condizioni sociali, caratterizzate da costanti forme di discriminazione. In realtà, secondo la corrente anti-razzista, “l’idea è sempre stata una redistribuzione del potere, non il suo rovesciamento” (p. 130). A smuovere gli animi è, ancora una volta, vecchia quanto il colonialismo, la credenza che ciò che è diverso e sconosciuto va dominato. Nick Griffin, ex leader del British National Party, intervistato da Reni Eddo-Lodge, così rispondeva alla domanda se condividesse la posizione, esposta dal suo partito, contraria alle relazioni interraziali: “Io credo sia deplorevole lasciare che una popolazione si estingua a causa di una massiccia integrazione (…) Credo che i popoli siano stati creati, da Dio o dalla Natura, diversi, separati, unici e bellissimi – tutti quanti – ed è un vero peccato permettere che queste differenze scompaiano in un’unica massa indistinta (…)” (p. 118).

Certamente, questa e molte altre vergognose ‘uscite’ da parte di persone bianche con un elevato potere ed una scarsa coscienza storica e personale (ebbene sì, ho dichiarato sin dall’inizio si sarebbe trattato di una recensione irriverente, ma non nei confronti del libro, quanto invece nei confronti dell’inesistente ‘razza bianca’, a cui io stessa dovrei appartenere), bastano a giustificare la scelta dell’autrice – pubblicata sul suo blog nel 2014 – di ritirarsi dal dibattito ‘multicolore’ sul razzismo, continuando a parlarne solo con persone black e brown e attraverso la scrittura. Tuttavia, come spesso accade quando una voce vitale comincia a far sentire l’angosciante suono del silenzio, o quando una luce si spegne disvelando l’oblio del buio, “dopo aver dichiarato di non voler più parlare di razzismo con le persone bianche, ho notato un improvviso aumento di richieste (…) tutti volevano sapere cos’avevo da dire” (p. 190).

Il privilegio bianco, scomoda eredità storica che si tramanda ormai da numerose generazioni, rende difficile parlare di razzismo: “troppi bianchi hanno atteggiamenti aggressivi o di negazione” (p. 191), altri restano paralizzati dai sensi di colpa e, pur essendo coscienti delle ingiustizie sociali, non sanno che fare.

Dai sensi di colpa non è mai nato nessun movimento capace di cambiare il mondo. Arrabbiatevi, invece. La rabbia è utile. Fatene buon uso. Sostenete chi lotta anziché sprecare tempo ad autocommiserarvi. (…) Creatività, passione ed entusiasmo sono le tre cose di cui abbiamo in assoluto più bisogno se vogliamo porre fine a quest’ingiustizia. Dobbiamo lottare contro lo scoraggiamento, il senso di impotenza. Dobbiamo tenerci stretta la speranza” (p. 191).

In questa lunga citazione conclusiva si concentra il significato ultimo che io ho potuto cogliere da questa travolgente lettura. Poco più di 200 pagine scritte, in cui diversi aspetti legati al razzismo sono ripresi ed approfonditi da più parti, di volta in volta collegati e contestualizzati in una cornice storica, sociale e politica più ampia, per indicare al lettore dove andare a ficcare il naso se, in una normale giornata di sole, vedendo una persona nera passare per strada, si sente improvvisamente colto da un senso di fastidio ed estraneità, cedendo il passo all’ipotesi che, a generare quel fastidio, non possa essere stato semplicemente l’Altro. Si tratta di impercettibili, micro-riflessioni che, nella mente di ciascuno, possono cambiare il mondo di tutti.

Linda Zinesi

La mia sensibilità e la mia curiosità verso l’Altro, tesa alla reciprocità dell’aiuto, mi hanno portata ad intraprendere la professione di Psicologa, senza tuttavia mai rinunciare alla mia più arcaica passione: la scrittura. Collaboro con MeltingPot per dare il mio contributo alla tutela dei diritti di tutti gli esseri umani