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Dentro i confini d’Europa: quella sottile linea rossa

Il racconto dell'ultimo viaggio di Lungo la Rotta Balcanica. Dicembre 2022

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Otto giorni di viaggio, dal 15 al 23 dicembre. Oltre 1.000 chilometri, iniziati a Trieste, per poi proseguire verso Rijeka, in Croazia, e Spielfeld, al confine austriaco-sloveno: il racconto di Lungo la Rotta Balcanica.

Si torna perché bisogna tornare. Perché forse ha anche senso farlo, o perchè preferiamo convincercene, anche se lungo i confini corriamo sempre il rischio di perderci, di rimanerne intrappolati, invischiati, molto più di quanto vogliamo ammettere. O forse sono l’unica dimensione in cui riusciamo a stare e a trovare significato. Perché questi luoghi ci si attaccano alla pelle, ci tolgono il respiro, ci rovesciano la prospettiva e ce la sbattono in faccia, lasciandoci inermi a raccogliere schegge di identità. Le storie si rincorrono, si ripetono, a un ritmo frenetico che trasforma le singole individualità in numeri, quando lo scopo di partenza era proprio l’opposto. Storie su storie, mentre occhi e mani si incrociano, tra distribuzioni compulsive di vestiti, cibo e confidenze, mescolando frammenti di lingue, sogni e vite.

Hamed non muove due dita della mano. Nella foto di qualche mese prima un osso fuoriesce da una squarcio sanguinolento che gli percorre l’arto. Sono stati i cani della polizia bulgara ad attaccarlo mentre di notte cercava di attraversare il confine turco, ci spiega. Ora in un campo improvvisato alla stazione dei treni di Rijeka, la ferita si è rimarginata ma Hamed fatica ancora ad afferrare il bicchiere di tè caldo che gli stiamo distribuendo sotto una gelida pioggia. Dall’Afghanistan la strada percorsa è stata lunga, ora la Francia gli sembra molto più vicina, come il suo sogno di curarsi e di muoversi finalmente libero nel mondo.

Samir il viaggio ce l’ha stampato in faccia. Una lunga cicatrice gli solca la fronte e oggi rabbrividisce ancora mentre racconta di come di notte sia stato sbranato dai cani bulgari, sebbene l’urgenza sia quella di descriverne i particolari, in una sorta di auto-espiazione. Guarda fuori dalla finestra, come se volesse dimenticare la sua condanna all’attesa, in una stanza di un ex hotel austriaco adibito a “centro d’accoglienza” che ha come unico vicino il confine sloveno e un campo di tende dove attendono nel limbo al freddo quelli come lui, i tanti fermati dalla polizia austriaca mentre dall’Ungheria cercavano di raggiungere il nord Europa. Figlio della guerra siriana, ha perso l’adolescenza ma non la sua genuinità e ora, rinchiuso tra quattro mura, costretto in un Paese che non accoglie e in cui non vuole stare, cerca risposte a domande di cui sa già l’amara risposta, appellandosi a degli sconosciuti capitati lì quasi per caso.

Mohammad non ci conosce nemmeno ma capisce che i suoi racconti non cadranno nel vuoto. Sorride mentre si filma sotto un tir in movimento al confine ungherese-austriaco, dopo aver camminato ininterrottamente per oltre tre mesi. Per sopravvivenza il suo arabo marocchino ha già da tempo assunto un accento siriano. Al grido di “Morocco, Morocco” è stato lacerato nella sua identità mentre veniva preso a manganellate e lasciato in mutande al gelo dalla polizia greca prima di essere respinto in Turchia. Ora, in un campo di tende in una gelida pianura al confine tra Austria e Slovenia, mentre ogni mattina e sera rassicura l’anziana madre attraverso lo schermo di un cellulare, Mohammad sogna l’Italia, Brescia, il cugino che, dopo anni di duro lavoro e chissà quali umiliazioni, ha ottenuto la cittadinanza. Mohammad ha passato mesi di violenze ai confini e ora ogni gesto di gentilezza gli appare quanto mai estraneo, sorprendente. Si prostra di fronte a un invito a pranzo, a qualche risata, a una giornata in compagnia. I confini, ancora una volta, hanno svolto il loro dovere.

Ma da Udine a Rijeka, da Gorizia a Bihać, da Eichfeld a Trieste, continua instancabile il movimento di chi silenzioso sostiene, si fa ponte, non lascia senza nome e senza volto chi per le istituzioni è solo un codice su un braccialetto giallo stretto al polso.

E così, di nuovo si torna, frastornati, con tanti messaggi, arrivederci e inshallah, alla ricerca di un nuovo precario equilibrio, tra l’urgenza di raccontare e di denunciare e quella di stare accanto a chi ogni giorno questi confini è costretto ad attraversarli, magari con l’obiettivo di guadagnare abbastanza per salvare la vita ad una madre malata in Marocco, per garantire un futuro a dei figli in Afghanistan, Pakistan e Bangladesh o per portare fuori dalla Siria un padre cardiopatico. Perché ognuno ha i propri motivi, anche i più segreti, per spostarsi e inseguire i propri sogni e nessuno dovrebbe arrogarsi il diritto di giudicare, categorizzare, scegliendo i meritevoli e creando di fatti nuovi invalicabili confini.