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Ph. Dario Fichera
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Parole coercitive

Appunti sul libro «Clandestino. Il Governo delle Migrazioni nell’Italia Contemporanea» di Fabio Quassoli

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Ne abbiamo già parlato diverse volte: le categorie che descrivono la realtà sono, nella maggior parte dei casi, performative. Quando riguardano persone o gruppi di persone, esse ne tracciano i confini, attribuiscono loro caratteristiche specifiche e ne definiscono le funzioni. Agiscono per addizione o sottrazione, determinando i soggetti come dotati o privati di qualcosa. In linguistica, la performatività descrive, nello specifico, la capacità di un atto verbale di modificare concretamente la realtà.

Fabio Quassoli, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università degli Studi di Milano – Bicocca, affronta proprio il tema della performatività di alcuni termini che informano e plasmano l’esperienza di vita di soggetti provenienti dall’estero. L’analisi del professore si dispiega in ottica costruttivista, attraversando diverse ricerche da lui tenute a partire dagli anni ’90 e ricostruendo la storia di alcune categorie legate alle persone straniere in Italia.

Ne emerge come esse siano frutto di bias cognitivi e culturali dall’impianto neocoloniale e, contemporaneamente, produttori di significati sui quali si sono costruiti procedimenti legali, burocratici e istituzionali. Allo stesso tempo, tali categorie agiscono sulle persone che definiscono, le quali incorporano e introiettano le caratteristiche ad essi attribuiti, iniziando a pensarsi come effettivi portatori di determinate qualità. Tale processo implica, inevitabilmente, una riduzione della possibilità di autodefinizione da parte delle soggettività coinvolte.

In particolare, nel libro «Clandestino. Il Governo delle Migrazioni nell’Italia Contemporanea», il professor Quassoli affronta proprio il tema della costruzione dellə stranierə come clandestinə – e dunque portatore di caratteristiche essenzialmente negative -, a partire dall’analisi delle dinamiche interne alle istituzioni italiane adibite al controllo dei flussi migratori e alla gestione delle persone straniere sul territorio statale.

Il testo evidenzia innanzitutto come, a partire dagli anni ’90, il clandestino sia diventato emblematico dei problemi e dei timori legati alla presenza di stranieri in Italia, e di come gli immaginari legati a tale figura, necessariamente carichi di pregiudizi, abbiano avuto un ruolo centrale nelle prassi di controllo dei flussi e nella costruzione delle procedure legali all’interno delle istituzioni. Il termine clandestino, alla fine del ‘900, diventa dunque “punto di convergenza delle insicurezze diffuse”, permettendo la formazione di quel “governo della paura” nel quale lo straniero si oppone inevitabilmente al cittadino, e si carica di caratteristiche privative e condannabili.

Il primo elemento che il professore mette in risalto è la sovrapposizione tra carattere amministrativo e penale nella gestione delle persone straniere in Italia, una convergenza che si declina a partire dalla delega gestionale dei flussi al Ministero dell’Interno e alle forze dell’ordine. A seguito di una mancata prontezza istituzionale agli ingenti flussi degli anni ’90, le agenzie di controllo diventano dunque l’”interlocutore privilegiato” dei cittadini stranieri.

L’intersezione di un quadro legale poco chiaro rispetto alle nuove soggettività straniere e l’assenza di modalità di accesso sul territorio se non per motivi di studio o lavoro ha inoltre prodotto un’effettiva presenza di persone definibili come clandestine, ovvero residenti illegalmente sul territorio; un’ingente presenza che ha aumentato il senso di pericolo già ampiamente diffuso. Il carattere eminentemente amministrativo dell’irregolarità di questi soggetti si è affiancato da subito a una percezione maggiormente morale, nella congiunzione semantica irregolare dunque potenzialmente pericoloso – un meccanismo decisamente preoccupante nella sua efficacia a livello istituzionale.

È il caso, ad esempio, delle questure. Esse sono l’unico ente, in Italia, a poter rilasciare il permesso di soggiorno – e già sussiste una prima, evidente, sovrapposizione tra carattere amministrativo e penale, che troverà il suo apice più violento nell’istituzione dei Centri di Permanenza per i Rimpatri (CPR). Dalla ricerca etnografica portata avanti dal professor Quassoli emerge come sia proprio all’interno delle questure che si forma un modus operandi specifico, basato sull’idea di straniero come un clandestino potenzialmente pericoloso, un bias inevitabile se si considera il ruolo securitario di tale organismo. La mancanza di linee guida precise da parte del Ministero dell’Interno, inoltre, lascia ai singoli uffici immigrazione ampio potere decisionale e discrezionale, con conseguenze poco prevedibili sulle esperienze di vita dei soggetti stranieri.

A dimostrazione dell’incorporazione di tali pregiudizi, dallo studio si evince una diffusa “cultura del sospetto” da parte degli ufficiali delle questure, derivante ancora una volta dalla loro funzione primaria di controllo e accertamento. Le richieste delle persone straniere vengono tendenzialmente analizzate partendo da una diffida sistematica rispetto all’affidabilità dei documenti da loro presentati, il che comporta l’aumento dei controlli e delle verifiche, in un insieme di procedimenti che vengono rallentato dai presupposti di partenza erronei.

L’identificazione del cittadino straniero come clandestino comporta inoltre un’invasività sia reale che potenziale da parte delle forze dell’ordine, che sono legittimate a condurre costanti controlli e accertamenti (a discriminante razziale), proprio in virtù dell’idea iniziale del non-cittadino illegale e, di conseguenza, sospetto e inaffidabile.

Gli stessi meccanismi riscontrati dalle analisi riportate nel testo di Quassoli circa le questure sul territorio milanese emergono anche dagli studi delle Commissioni Territoriali adibite alla valutazione delle richieste di protezione internazionale, dove vige la cultura del sospetto e della conseguente necessità di verificare la coerenza e la veridicità delle narrazioni di chi fa richiesta. L’approccio riscontrato dalle diverse commissioni si svela come l’inevitabile riflesso di una concezione più ampia della migrazione e dello straniero, al quale sono private possibilità di accesso legali al territorio in mancanza di condizioni privilegiate di esistenza.

Le politiche macroscopiche di controllo dei confini e dei flussi di mobilità si intersecano dunque con una gestione maggiormente locale degli stessi, riproducendo una concezione deumanizzante e discriminante del soggetto straniero che, inevitabilmente, è clandestino dal momento in cui può giungere in Europa solo per vie non riconosciute legalmente. Ancora una volta, trattiamo il tema dell’illegalizzazione della mobilità, che non fa altro che produrre un circolo vizioso funzionale unicamente al mantenimento dello status quo.

E proprio con questo concetto Quassoli introduce il suo testo, specificando l’adozione di una prospettiva costruttivista che riesce a tenere assieme le pratiche e le esperienze delle soggettività migranti con i discorsi che inseriscono tali esistenze in una cornice ben precisa: l’Altro come indesiderabile e gerarchizzato, figlio di un passato coloniale dalle cui responsabilità continuiamo a rifuggire.

Lidia Tortarolo

Quasi antropologa e aspirante ricercatrice. Vivo a Milano ma vorrei spesso essere Altrove. Mi interesso di migrazione perché non posso non farlo: è qualcosa che mi prende lo stomaco, me lo rigira. Al momento mi sto occupando principalmente di temi legati all’antropologia della violenza e all’antropologia medica, in relazione al contesto migratorio della Rotta Balcanica.